di Lino Di Gianni*
Ha due bambini bellissimi, me li mostra sul cellulare. È magro, molto magro. Lo vedo mentre si allontana con la bustona gialla delle radiografie. Male alle anche, qualche malattia alle ossa. Serifou dimostra molti anni in più dei suoi ventisette. Non dorme la notte perché la bimba più piccola, di undici mesi, sta mettendo i denti, e le fanno male le gengive.
Serifou non parla italiano, non scrive e non legge. A volte indovina qualche lettera. Spesso copia. Oppure si ricorda l’immagine della sillaba. Si appoggia a un amico del suo paese africano, anche lui analfabeta in lingua madre, ma che parla francese ed è quasi pronto a leggere.
Mi immagino tutte le cose a cui è dovuto stare attento, per portare la sua famiglia in Italia. Mi immagino la capacità di farsi capire senza parlare nessuna lingua dell’altro, senza avere soldi da scambiare, senza poter dire “io sono questo e faccio questo lavoro”. Se dovessimo noi, declinare in un paese straniero, la nostra identità agli occhi malevoli e giudicanti delle guardie di frontiera, da cos’altro potremmo partire se non dal lavoro, dalla proprietà , dai soldi che abbiamo e dai confini in cui viviamo?
A volte, riflettendo sul mio ruolo di insegnante, mi sembra che col tempo, le ondate di migranti che sono passate nella mia classe, mi abbiano lavorato come si fa con un attrezzo per renderlo sempre più adatto a rivoltare la terra.
Ecco, una zappa adattata dal tempo e dalle persone, affinché la terra sia rivoltata e resa fertile per accogliere nuove sementi: una nuova lingua, casa e lavoro, il pane sì, ma anche le rose della cultura, almeno per i loro figli, nuovi cittadini con diritto di suolo.
E se scrivo queste cose, è perché le parole sono ponti, su cui possono passare i pensieri di chi legge e quelli di Serifou, e incontrarsi, a partire dai piccoli particolari che ci distinguono, come l’odore del neonato per la mamma.
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