Racconti da un corso di italiano per stranieri
di Lino Di Gianni*
Un gruppo di donne, piano piano, con delicatezza, intesse un tappeto di lingue senza conflitti. Come fanno delle donne di paesi diversi a comunicare tra loro, se non scegliendo una lingua comune? Ciascuna a partire dalla propria esperienza, dicendo di sé ciò che si vuole, in un viaggio in comune alla scoperta della lingua italiana. Ma in fondo, è un viaggio per scoprire uno spazio dedicato a se stesse.
Il mio ruolo di insegnante maschio, in un gruppo di donne straniere, che apprendono e perfezionano la conoscenza della lingua italiana, è quello di creare le condizioni perché l’aquilone, quando ci sarà vento, sia in grado di volare. E il vento arriva, ogni tanto, all’interno di un gruppo di donne provenienti dal Marocco, dalla Cina, dal Brasile, da Cuba, dalla Romania, dall’Armenia, dall’India.
Il vento è la necessità di parlare con le altre, i banchi disposti in modo da guardarsi in faccia. Perché tutto è importante, nel processo di conoscenza: se metti i banchi rivolti solo verso l’insegnante, vuol dire che ascolti solo lui. Se li metti a “ferro di cavallo” gli altri possono ascoltare e parlare.
Non sono donne richiedenti asilo, non sono donne rifugiate. Alcune lavorano come commesse, o badanti, o bariste, o al mercato a vendere formaggi. Qualcuna faceva l’ostetrica, o la pediatra, o l’insegnante, nel proprio paese. Qualcuna nel campo della moda, qualcuna curda o armena. A volte hanno sposato italiani, a volte sono in Italia da parecchio tempo, hanno avuto figli qui.
Una delle molle più potenti che le porta a scuola è questa: la necessità di conoscere l’italiano scritto, le regole, gli errori per poter aiutare i figli piccoli a scuola. O la necessità di parlare bene. Non cercano titoli di studio, ma una lingua che dia loro piena cittadinanza. A volte non hanno figli, ma vengono per trovare “una stanza per sé”: un posto dove altre donne, straniere, venute in Italia quasi sempre per condividere la propria vita insieme al marito, possono diventare tue amiche.
Dal 1993 a oggi, nei miei corsi di italiano per stranieri, si sono incontrate molte donne: alcune sono diventate amiche. Donne americane che si frequentano, amiche dell’Etiopia, del Marocco. Alcune sono molto giovani, attorno ai vent’anni, ma la maggioranza ha già una famiglia e dei figli. (“Se qualcuno ti invita a colazione, ed è un uomo che ha soldi e una certa cultura, non vuol dire che ti invita a bere un cappuccino, ma che ti invita a pranzo” e qualcuna commenta: se lo dice mio marito, vuol dire solo che andiamo al bar – risate della classe).
“Mia sorella adesso è depressa, perché ha avuto una brutta malattia, e prima non era mai stata male, adesso io sono preoccupata”: pensate a quanto sforzo e studio linguistico è stato necessario a Rosa, la signora cinese che ha scelto questo nome perché il suo vero nome cinese è troppo difficile, e lei deve vendere, parlare con i clienti. Da quando è qui, è ringiovanita di dieci anni, cambiando il suo modo di essere giovane: “In Cina, i dentisti non sono bravi, poca voglia di studiare, tutto di plastica”.
“A Cuba è tutto pagato dal sistema sanitario, e anche l’Università è gratuita. Qui in Italia, per una piccola cosa ai denti, 150 euro”. In Armenia, si paga molto poco, 20 euro, con 100 euro hai tutti i denti in bocca nuovi”.
Io ascolto, cerco di far in modo che tutte possano parlare. E quando facciamo il dettato, dove ci sono velocità diverse di scrittura, ciascuna scrive un pezzo, fin dove sa fare. L’importante è che tornino a casa con una piccolo pezzo in più di quello che gli hispano parlanti chiamano “ l’alegria”.
[…Difendere l’allegria come una trincea
difenderla dallo scandalo e dalla routine
dalla miseria e dai miserabili
dalle assenze transitorie
e da quelle definitive…]
Mario Benedetti
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