di Lino Di Gianni**
Racconti da un corso di italiano per stranieri*
Ha la gonna larga e lunga, come usano le ragazze rom. Camicia larga colorata e sulle spalle un piccolino nello zainetto di iuta che le dorme sulle spalle. Apre un grande scialle viola e si avvolge il corpo e lo annoda, mettendo in sicurezza il piccolo bebè, come fosse una “masca”, una strega con la gobba vivente. Il volto ha caratteri mediorientali, potrebbe essere di una zona interna del Marocco, magari appena arrivata. Strano che venga da sola al Caf. Il miscuglio di caratteristiche mi impedisce una sua identificazione sicura, non sentendola parlare.
Quando vengono in classe da me, a imparare l’italiano, a volte portano bambini piccoli con sé. Non hanno nessuno a cui lasciarli. Nessuna rete di parenti, niente nonni, suoceri o cugini. Se il bambino non è troppo piccolo, a volte rimane in classe: con una mano scrivono, con l’altra dondolano il passeggino. Io rimango sempre esterrefatto, a vedere la forza di volontà di queste donne, che cercano di conquistare l’alfabeto fino all’ultima riga.
Donne giovani del Marocco, donne curde, donne nigeriane: sempre i figli sono lasciati a crescere con loro, come se la maternità prevedesse, insieme alla nascita della bambina, anche la costruzione della sua culla universo, un mondo linguistico che mescola i popoli.
La lingua del cuore parla Derijia, il dialetto del Marocco, o arabo. La lingua ponte parla Francese, perché chi ha studiato usa la stessa lingua insegnata a scuola. La lingua in cui vivi adesso è l’Italiano, e i bambini di qui useranno questa lingua per parlare coi figli.
Mi ricordo di tre donne giovani della Nigeria, molto eleganti, truccate con colori leggeri e ottimo italiano, venute da me per imparare a leggere e scrivere: mai andate a scuola nel loro paese. Insegnare le lettere non è facile. Imparare le sillabe, è scoraggiante. Ma chi ce la fa, dopo vede dischiudersi le praterie delle parole da leggere. Un mondo nuovo, è possibile.
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