I movimenti di cittadinanza esplosi negli ultimi anni in nord dell’Africa, Turchia, Brasile dimostrano che il cambiamento oggi è alimentato dalle persone comuni. “Tradizionalmente, le trasformazioni si sono realizzate attraverso dei movimenti rivoluzionari popolari, come La Comune di Parigi o i movimenti per i diritti civili negli Stati uniti negli anni ’60 – spiega David Harvey – In realtà, si può dire che esistono due tipi di movimenti: uno nel quale il cittadino chiede più democrazia nella costruzione urbana, l’altro si relaziona invece con richieste di un maggior accesso ai mezzi di produzione e alla riorganizzazione della vita quotidiana”.
Redazione di Quito
Il geografo e teorico sociale britannico David Harvey è attualmente in Ecuador, su invito dell’Istituto di Alti Studi Nazionali (Iaen), per partecipare ad una serie di conferenze relative alla creazione del Centro Nazionale per il diritto dei Territori (Cenedet) Le idee di Harvey sulla costruzione della cittadinanza nei nuclei urbani sono conoscite a livello internazionale.
A cosa si riferisce l’idea di “città ribelli” che lei ha elaborato?
Le città storicamente sono state la culla dei processi di cambiamento. Tuttavia lo sviluppo del capitalismo ha troncato la creazione degli spazi necessari per generare questi cambiamenti, essenziali per migliorare la vita della maggioranza delle persone. Quindi nasce la domanda di chi sarà il protagonista di queste trasformazioni e di quali strumenti avrà a sua disposizione. In termini classici il marxismo ha risposto che deve essere il proletariato, però nelle attuali circostanze questo gruppo non sembra essere nelle condizioni di farlo, e quindi emerge la possibilità che siano i cittadini comuni ad essere destinati a quel ruolo. Ed esistono segnali di questo passaggio, come dimostrano i movimenti della cittadinanza esplosi nel nord dell’Africa, in Turchia, in Brasile, ecc.
Governi come quelli dell’Ecuador, del Venezuela o della Bolivia che propongono l’aumento del potere dei cittadini, non sono le strade per arrivare a ciò?
Storicamente, sono state le organizzazioni di cittadini quelle che hanno predisposto le basi delle nuove strutture dello Stato. Le popolazioni urbane hanno sempre svolto un ruolo importante per spingere con forza verso i cambiamenti a livello politico e statuale. E questo aspetto lo mostrano anche i movimenti più recenti, come quelli del Brasile l’anno passato, che presentavano rivendicazioni non solo di natura locale ma anche statale.
Quindi il modello richiede cambiamenti dal basso verso l’alto?
È più complicato di così, poiché le città sono delle strutture molto complesse. In realtà, ciò che dobbiamo chiederci quali persone o quali gruppi controllano in questo momento le città. E la risposta ovvia è”le banche, le società immobiliari, le élites in generale”. E per modificare questa situazione dovrebbe emergere una strategia per la quale le classi popolari comincino ad esercitare un potere e a bilanciare quello delle forze economiche che oggi controllano le città.
Di fronte alla forza del capitale, una forte pianificazione statale o municipale non permetterebbe di conseguire i cambiamenti necessari?
Tradizionalmente, le trasformazioni si sono realizzate attraverso dei movimenti rivoluzionari popolari, come “La Comune di Parigi” o i movimenti per i diritti civili negli Stati Uniti negli anni ’60. In realtà, si può dire che esistono due tipi di movimenti: uno nel quale il cittadino chiede più democrazia nella costruzione urbana, l’altro si relaziona invece con richieste di un maggior accesso ai mezzi di produzione e alla riorganizzazione della vita quotidiana. Queste ultime richiedono una mescolanza di politiche pubbliche e di riorganizzazione dei mezzi di produzione e della organizzazione politica. Però quando pone l’accento sulle politiche pubbliche, quando ciò che si cerca di ottenere è una maggiore attenzione dedicata ai meno fortunati, di offrire loro dei servizi, questo non comporta necessariamente una trasformazione della vita quotidiana, delle basi dell’economia e nemmeno dell’apparizione di nuovi sistemi di produzione. Quindi, molte volte, la gente che sta al potere concede una risposta alle domande politiche, di dare maggiori servizi, ma non a quelle che cambierebbero l’economia e la vita.
E’ quello che è successo in Brasile, per esempio?
E’ difficile inserire il Brasile in questo o quel gruppo, però sembrerebbe che in questo paese la classe capitalista non è stata messa in discussione. E la maggioranza delle risposte alle domande della gente è stata di natura essenzialmente politica, invece di mettere in moto nuovi modi di produzione. E il risultato è nella disillusione della popolazione, che si è riflessa nelle strade, dove si è riaffermata la necessità di procedere a delle vere trasformazioni.
I cambiamenti richiedono una certa quantità di violenza o di attivismo radicale nelle strade?
E’ abitudine comune dire che “la violenza non risolve i problemi”, però quando esistono degli apparati statali repressivi, molte volte la violenza risulta ineluttabile. Perfino Gandhi riconosceva che vi sono delle situazioni per le quali non esiste una scelta diversa. In genere succede che la polizia reprime delle manifestazioni sociali pacifiche, come è avvenuto negli Stati Uniti e, più di recente, in Turchia, in Spagna, in Brasile; sembra quindi che non se ne possa uscire altrimenti. Nel film “la battaglia di Algeri”, di Gillo Pontecorvo, un ufficiale francese chiede a un ribelle: “Perché rispondete con la violenza?”, e quello risponde “Dateci i vostri carri armati, i vostri aerei, le vostre armi, e non vi sarà violenza”.
Quale modello riflette questo modo di essere delle città?
Molti movimenti cittadini hanno cambiato radicalmente la loro vita quotidiana; penso agli Stati Uniti degli anni sessanta, ad esempio. Però le condizioni di allora erano molto diverse da quelle attuali, per cui credo che ogni generazione debba trovare la sua particolare strada per trasformare le cose.
Fonte: telegrafo.com.ec
Traduzione di Alberto Castagnola per Comune-info.
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