La storia della selezione dei semi scambiati e la storia della cura del suolo, quella della garanzia partecipata e quella dei Gruppi di acquisto solidale passando per le vicende di un non-marchio come Genuino clandestino, dimostrano come anche nel mondo contadino è possibile rompere la gabbia che pensa il concetto di innovazione solo nel significato di tecnica. E gli oggetti tecnologici? Come tutti gli oggetti hanno tante capacità ma mancano di intenzionalità. Intenzionalità che cambia se il circuito produttivo è di tipo competitivo capitalistico o se invece è una produzione orientata da relazioni cooperative e da limiti… Dopo l’articolo di Massimo De Angelis, L’innovazione compagna, e l’intervento di Giovanni Pandolfini, Compagno drone non mi convinci, il dialogo si arricchisce di un terzo pezzo di De Angelis
Sono completamente d’accordo su due punti importanti sollevati dall’articolo – Compagno drone non mi convinci – di Giovanni Pandolfini in risposta a un mio articolo precedente (L’innovazione compagna). In primo luogo, l’innovazione non può intendersi solo come tecnica, ma abbraccia qualcosa di assai più ampio, come appunto sostengo nel mio articolo quando dico che l’innovazione compagna corrisponde a “quella introduzione di sistemi e criteri nuovi di processi e relazioni, di tecniche e tecnologie, di modi organizzati del fare e agire in comune, quella istanza di rinnovamento radicale di una prassi e delle relazioni corrispondenti ad esse che hanno come finalità aspetti interrelati della riproduzione sociale, dei bisogni e desideri dei corpi dell’umano e del non umano.” Allora non mi si può dire che riduco l’innovazione alla particolare nuova tecnologia, anzi. Il mondo contadino, il movimento agroecologico e della sovranità alimentare dal basso è pieno di “innovazioni compagne” non basate su prodotti tecnologici particolari, ma pur sempre tecniche relazionali e organizzative che hanno accompagnato la sua evoluzione fino ad oggi: si pensi alla garanzia partecipata, ai gas, ai mercati contadini autogestiti, a genuino clandestino e al suo “marchio” che coopta la logica del “brand”, si pensi al lavoro di facilitazione e alle sue tecniche comunicative che si sono diffuse dentro le assemblee e i collettivi in questi anni, si pensi a come Mondeggi bene comune abbia suddiviso la cura dei suoi olivi tra la popolazione locale. A un livello più immediatamente produttivo, si pensi alle innumerevoli innovazioni portate avanti nei millenni dai contadini nella coltivazione, nella selezione dei semi e nella cura del suolo. Si pensi anche alla “ricerca compagna” che si fonda sulla co-partecipazione di ricercatori e contadini come quella che rigenera le comunità ecologiche dei microorganismi del terreno per aumentarne salute e fertilità (www.radiciconnesse.com).
La seconda cosa su cui sono assolutamente d’accordo, è il bisogno fondamentale di ragionare sui limiti e sulle misure che i movimenti (contadini, agroecologici, per la giustizia climatica e per la trasformazione della cooperazione sociale in generale) devono trovare il modo di porre alla macchina produttiva capitalistica affamata di estrazione e crescita. Ma credo che a un certo livello, la nozione di “innovazione compagna” che ho proposto assume dentro di sé questa questione del limite, proprio perché è promossa da soggetti che, come ho scritto, riflettono e prendono decisioni “dentro un contesto di relazioni produttive e riproduttive che aspira al benessere di tutte e tutti, che ha come finalità la trasformazione della cooperazione sociale a beneficio di tutte e tutti”. È questo contesto che da senso e finalità all’innovazione, anche tecnologica. Non esiste innovazione compagna dentro una multinazionale, o un sistema di agri-business perché il suo carattere utile è qui sempre subordinato alla finalità della multinazionale o di quel sistema di accumulare, e questa subordinazione rende l’utile strumentale al capitalismo. E purtuttavia, essa è il prodotto dell’ingegno umano cooperante, cioè di una ricchezza sociale che va in qualche modo recuperata per altre finalità.
Si prenda il fatidico drone, che ahimè non è “compagno” di per sé, ma solo quando entra a far parte di un’ecologia di rapporti produttivi che ne selezionano, e quindi limitano gli usi, per allinearli alla configurazione di bisogni e desideri di una comunità agroecologica. I droni che oggi si progettano e si vendono per l’agricoltura intensiva e monoculturale sono droni che costano dai 15.000 euro in su, e che nessun piccolo agricoltore potrebbe permettersi, né avrebbe senso utilizzare in tutte le sue funzioni (come per esempio spruzzare pesticidi), se la produzione del contadino si basa su principi agroecologici. Ma un drone di 300 o 400 euro potrebbe essere utile magari anche in condivisione tra una comunità di contadini per immagini aeree delle coltivazioni, o quant’altro. È appunto una questione di misura, una misura delle cose che però è tutta inserita nel contesto relazionale e di finalità produttive dei soggetti produttori, nella trama di relazioni che essi instaurano con i loro co-produttori. Le cose, gli oggetti tecnologici hanno tante capacità, hanno tanti poteri, ma mancano di intenzionalità, che può essergli data solo da noi. E l’intenzionalità cambia a seconda della forma dei circuiti produttivi, dei modi di cooperazione sociale, delle misure delle cose, delle sensibilità relazionali, delle finalità.
Il punto è che l’innovazione è compagna, o la ricerca è compagna, solo quando sono in qualche modo compagne anche i soggetti che innovano e ricercano, co-producono e condividono tra loro il senso della trasformazione necessaria. E allora insisto, viva l’innovazione, purché sia compagna.
giovanni pandolfini dice
Grazie compagno Massimo.
Se una cosa ho imparato è proprio che non esiste un modo solo di fare le cose così come di pensarle.
Avremo sicuramente modo di riparlarne, magari in piazza contro i TEA….
Massimo De Angelis dice
Magari compagno Giovanni! E magari in quell’occasione mi farai assaggiare un po’ di quel vino rosso che producete da quelle parti!
Luca Vitali dice
Bella replica caro De Angelis, ma dimentichi di fare i conti proprio con il drone. In ogni drone è nascosto lavoro-ombra, fatto di ricerca tecnologica (i primi droni dovremmo ricordare tutti a cosa sono serviti), saperi protetti ed esculisivistici (ceduti a caro prezzo e ricatto) materie saccheggiate dalla Terra (hanno appena aperto vicino a Roma una miniera per estrarre litio, visto che le riserve del deserto di Acatama e del triangolo l’oro si stanno esaurendo). L’energia grigia, su cui esistono dati che raramente vengono presi in considerazione anche quando si parla di rinnovabili, e il consumo elettrico per attivare la rete neurale necessaria alle nuove tecnologie 5G sono il grande tentacolo nascosto dell’innovazione, e non prenderlo in considerazione significa non fare i conti con il neocolonialismo che apparentemente vogliamo combattere, ovvero prendercelo nel didietro (scusa il francesismo). Servono altre armi, totalmente diverse, per esempio le altre che hai nominato tu. Grazie per il dibattito appassionante e necessario che spero veder proseguire
Massimo De Angelis dice
Grazie per il commento caro Luca. Ma non mi dimentico del fatto che siamo immersi nel capitalismo, e che anche questo commento, così come il tuo, hanno come presupposto l’infrastruttura estrattiva, le terre rare, e tutta la filiera, di sudore e sangue dei circuiti del capitale. Come ben saprai, non solo i droni, ma anche l’internet, che qui usiamo come medium per comunicare, ha origini diaboliche dentro l’apparato militare americano. Ma per pensare e promuovere l’alternativa, non possiamo evitare di partire da delle condizioni comuni della cooperazione sociale. Il punto è come, partendo da questa condizione comune, possiamo promuoverne un’altra….
Luca Vitali dice
Caro Massimo, certo, giustissimo il punto è proprio questo. E non è un caso che a dialogare qui – non so com’era a Roma perché non sono potuto venire – né tu né io siamo contadini, ma soggetti iperscolarizzati. E anche noi abbiamo i nostri problemi: io devo combattere contro “i droni nella mente” più della metà del mio tempo, e preferirei tornare a scrivere con altri ritmi e altri orizzonti. La questione è: il campo deve per forza sopportare tutto questo? Io credo di no, come diceva Giovanni e anche tu sostieni, e penso che come il campo anche la salute, il tempo libero e tutte le altre cose dovrebbero essere liberate, non solo dalle macchine ma da una mentalità macchinica, recuperare il lato selvatico della vita – per quanto possibile senza farsi massacrare dai dittatori del momento. Convincersi che non ci sono compromessi. Non vedo altra direzione di decrescita. Quindi usiamo pure tutto il necessario ma non per “vivere”, solo per smettere di farlo e liberarci di queste schiavitù sempre più oppressive. E’ sempre la cara vecchia metafora degli anelli di Tolkien: danno potere ma corrompono, la salvezza sta altrove.