L’ossessione del mercato per il nuovo, considerato di per sé migliore, ha finito per sviluppare un’allergia per qualsiasi cosa che venga considerata innovativa. Anche nel più interessante pezzo del movimento contadino che si è riunito a Roma per rafforzare le alternative contadine e agroecologiche alla filiera del cibo industriale rimbalza la domanda se sia sufficiente tornare alla forme tradizionali di produzione contadina. In realtà, l’agricoltura contadina ricorda che la tradizione è il frutto di millenni di innovazione dal basso, un processo che è stato rallentato dall’agri-business. E allora, scrive Massimo De Angelis, l’innovazione bisognerebbe chiamarla così, senza peli sulla lingua, compagna, per distinguerla da quelle innovazioni che servono solo a riprodurre il capitale. Nell’innovazione compagna, la misura delle cose che legittima la propria introduzione non è un elemento isolato puramente quantitativo – come l’aumento della produttività o dell’efficienza per l’innovazione capitalistica -, ma una configurazione di bisogni e desideri basata su più fattori: la riduzione del tempo di lavoro, la cura del suolo e degli ecosistemi, l’aumento della redditività delle piccole produzioni contadine schiacciate dal mercato capitalistico, il mantenimento di prezzi a livelli che rende prodotti genuini accessibili….
Al ritorno da una tre giorni a Roma dove il movimento contadino italiano si è riunito per pensare e organizzare una nuova fase al fine della “difesa, la diffusione e il rafforzamento di alternative contadine e agroecologiche alla filiera del cibo industriale” (Cambiare il campo), mi trovo a pensare a un aspetto particolare di cui si è parlato qui e la nei diversi tavoli: la questione dell’innovazione. È cosa buona? Non è buona? È sufficiente tornare alle forme tradizionali di produzione contadina od occorre anche innovarle? Fino a che punto ha senso per i piccoli coltivatori l’uso di tecnologie moderne come i droni, spinte fino all’inverosimile da quella programmazione di un agricoltura industriale ossessionata con la produttività?
Queste e altre simili domande sono alla ricerca di distinzioni che possano orientare il movimento contadino nelle scelte da mettere in campo, per sviluppare le proprie reti alternative che agiscono in ogni caso dentro un contesto, un mondo produttivo e di regolazione capitalistica ossessionato dall’innovazione. È chiaro che, in rapporto a quel mondo, le distinzioni che emergono da una forza che ad esso vuole dirsi alternativa sorgono da un pensiero legittimamente sospettoso delle tecnologie nate e diffuse dentro quel mondo. Ma l’idea di una costruzione di un altro mondo, di un modo di produzione e relazioni alternativo ad esso, non può permettersi di ignorare tutte le forme tecnologiche sviluppatisi dentro i circuiti del capitale e anzi, si deve fare scaltro per riappropriarsi di ciò che, all’interno di questa immensa ricchezza sociale, gli è utile alle proprie finalità nei diversi contesti. Una contro-cooptazione (dove le realtà auto-organizzate dal basso cooptano e si riappropriano di tecnologie sviluppatisi entro il capitalismo) per contrastare le cooptazioni che il capitale fa da secoli dell’ingegno contadino (si pensi ai semi, selezionati per millenni dai contadini, e ora centralizzati dalle grandi corporations, al sapere tradizionale imprigionato dentro ai brevetti e via dicendo). Dentro al mondo contadino c’è chi dice che occorre ritornare alle forme produttive passate, al lavoro dei campi così come era, dove fatica, autodisciplina e povertà danno una distinzione etica al soggetto, anche se gli rompono la schiena. Tuttavia imparo da altri contadini che ritornare alla tradizione non vuol dire tornare indietro, ma andare avanti, perché la tradizione è il prodotto di millenni di innovazione dal basso, un processo innovativo che è stato rallentato dalla green revolution dell’agri-business, e che ora occorre riprendere con forza in questa fase decisiva.
E allora l’innovazione bisogna chiamarla così, senza peli sulla lingua, compagna, per distinguerla da quelle innovazioni che alla fine servono solo a riprodurre il capitale nella sua psicotica corsa infinita alla propria accumulazione. L’innovazione compagna, cioè quella introduzione di sistemi e criteri nuovi di processi e relazioni, di tecniche e tecnologie, di modi organizzati del fare e agire in comune, quella istanza di rinnovamento radicale di una prassi e delle relazioni corrispondenti ad esse che hanno come finalità aspetti interrelati della riproduzione sociale, dei bisogni e desideri dei corpi dell’umano e del non umano. Nell’innovazione compagna, la misura delle cose che legittima la propria introduzione non è un elemento isolato puramente quantitativo (come l’aumento della produttività o efficienza per l’innovazione capitalistica al fine di far fuori un competitore), ma una configurazione di bisogni e desideri che possono anche includere l’aumento di efficienza, ma dentro un quadro dove tale aumento si accompagna a una congruenza benefica di fattori eterogenei e importanti della riproduzione sociale: la riduzione del tempo di lavoro, la cura del suolo e degli ecosistemi, l’aumento della redditività delle piccole produzioni contadine schiacciate dal mercato capitalistico, il mantenimento di prezzi a livelli che rende prodotti genuini accessibili, e via dicendo. L’innovazione compagna è “compagna” appunto perché dispiega la forza etimologica di questa parola, che dal latino significa condivisione di pane, di nutrimento, di cibo. L’innovazione è in primo luogo compagna perché con essa è possibile aumentare la condivisione di nutrimento ai corpi e alle relazioni tra corpi, e tra corpi umani e gli altri corpi della terra: nutrimento di cibo di qualità, di processi organici restituiti alla terra, di ricerca di relazioni virtuose e conviviali dentro l’autorganizzazione, di riduzione della fatica, di apertura di spazi di libertà.
Ciò che distingue l’innovazione compagna da quella capitalistica, non è sempre e tanto nella natura della tecnologia in sé, quanto il suo uso dentro un contesto di relazioni. Non esiste innovazione compagna dentro i circuiti del capitale, per la semplice ragione che ogni beneficio qui è prodotto al fine di aumentare il profitto a scapito di altri fini (i fini del lavoratore di mantenere un posto di lavoro, del competitore di mantenersi sul mercato, del consumatore di mangiare sano, del pianeta di mantenere condizioni per la vita, si veda qui la mia riflessione Decolonizzare l’efficienza). L’innovazione compagna è invece il prodotto di una riflessione dentro un contesto di relazioni produttive e riproduttive che aspira al benessere di tutte e tutti, che ha come finalità la trasformazione della cooperazione sociale a beneficio di tutte e tutti.
Ma perché innovazione compagna e non solo conviviale, come Ivan Illich chiama la tecnologia che riproduce rapporti umani invece che distruggerli? Perché le reti e i sistemi dentro cui si innova si devono sempre pensare dentro un contesto più ampio, da trasformare, e dove operano forti relazioni di potere. In questo contesto la parola “compagna” si ricollega al significato che questa parola ha avuto e ha ancora nella tradizione di lotta contro quel sistema, poiché è l’appellativo che i soggetti si danno l’un l’altra per riconoscersi in questa avventura di trasformazione dal basso. Chiamarla compagna e non solo conviviale significa adottare il doppio sguardo di Giano, conviviale dentro il circuito produttivo autogestito, e antagonista vis-à-vis la forma capitalistica della produzione. Tutto qui, e allora viva l’innovazione, basta che sia compagna.
giovanni pandolfini dice
analisi e commento della tre giorni legittimo ma molto personale e scivolosissimo. Anche io ero presente ai lavori della conferenza e quanto espresso in questo articolo è (meno male a mio avviso) tutt’altro che condiviso da molti dei presenti. Un passo falso verso la convergenza auspicata dagli organizzatori
Roberto R. dice
Si, è bello pensare all’innovazione (e alle tecnologie, e alle energie, e alle scienze, …) come compagne.
Bello utilizzarle nei nostri campi e nelle nostre vite per fini differenti da quelli per i quali sono nate. In contesti conviviali, rispettosi dell’umano e dell’oltre-umano, oltre e contro gli schemi dominanti.
Ma queste innovazioni (e tecnologie, ed energie, e scienze, …) non nascono spontanee. Sono frutto quasi sempre di ricerca e lavoro e tempo governati da progetti pensati e finanziati e sviluppati in un mondo che non vorremmo.
Per questo non basta pensare all’innovazione compagna ma dobbiamo anche risolvere il problema della “ricerca compagna”.
Questo dev’essere il prossimo passo.
Berardo G. dice
L’innovazione tecnologica si fa con la ricchezza economica da investire in primis nella ricerca e per costruire le macchine non serve solo denaro. Serve disponibilità di risorse minerarie preziose, e serve manodopera (a basso costo di preferenza) ed energia disponibile per costruirle. Poi ci dovremo ancora indebitare per comprarle e per pagare le bollette per farle muovere…
Questo tipo di ricchezza per questo tipo di innovazione è frutto del gioco dell’economia capitalista che, quando non è di sfruttamento, è un’economia di guerra!
Quando poi il gasolio, il gas, i metalli e il cibo arriveranno di nuovo alle stelle, dovremo decidere se mettere in moto il trattore per vangare o il furgone per andare a fare il mercato. Altro che innovazione tecnologica! A quel punto guarderemo di nuovo la zappa ma forse non avremo più neanche la terra.
Aldo Zanchetta dice
Stimato De Angelis
Il lemma dell’Esposizione Universale di Chicago del 2033 diceva: La scienza scopre – La tecnica applica – L’uomo si adatta. Da allora l’uomo è stato costretto sempre più ad adattarsi …
Questa è la logica intrinseca dell’homo tecnologicus.
Illich, che lei cita, aveva detto: <>
E oggi sappiamo alcune cose che gli ha detto.
Aldo Zanchetta
Aldo Zanchetta dice
ERRATA CORRIGE
Il lemma dell’Esposizione Universale di Chicago del 2033 diceva: La scienza scopre – La tecnica applica – L’uomo si adatta. Da allora l’uomo è stato costretto sempre più ad adattarsi …
Questa è la logica intrinseca dell’homo tecnologicus.
Illich, che lei cita, aveva detto: .
E oggi sappiamo alcune cose che gli ha detto.
Aldo Zanchetta
Aldo Zanchetta dice
RI-CCORRIGE (Ma allora c’è un folletto?)
Il lemma dell’Esposizione Universale di Chicago del 2033 diceva: La scienza scopre – La tecnica applica – L’uomo si adatta.
Da allora l’uomo è stato costretto sempre più ad adattarsi …
Questa è la logica intrinseca dell’homo tecnologicus.
Illich, che lei cita, aveva detto: Quello che più mi preoccupa non è ciò che la tecnica fa ma iò che dice alla mente dell’uomo.
E oggi sappiamo alcune cose che gli ha detto.
Aldo Zanchetta