Ad Alessandria, Asti, Bergamo, Parma si sono già svolti i primi incontri con la delegazione zapatista che percorre il territorio italiano (trovate i resoconti su Lapaz) fino al 5 novembre. Aldo Zanchetta, che al sostegno della ribellione indigena del Chiapas ha dedicato parte rilevante delle sue riflessioni ed energie fin dai primi giorni della sollevazione del 1994, ha scritto delle note pensando che possano essere utili soprattutto a chi si avvicina per la prima volta o conosce poco delle idee e delle vicende che hanno segnato la straordinaria esperienza che ha realizzato questa impensabile Travesía por la Vida. Non si tratta, naturalmente, di un saggio propedeutico all’approfondimento, né di un riassunto sintetico del pensiero elaborato in oltre un quarto di secolo nella consistente mole di testi scritti in tutti questi anni. È un articolo concepito in modo esplicito e rigoroso per introdurre e favorire l’incontro, una sorta di lettura preliminare molto utile a mettere a fuoco alcune delle chiavi di volta interpretative di un’esperienza di per sè semplice, diretta, quanto allergica agli stereotipi e alle banalizzazioni mediatiche
Una consistente delegazione di componenti maschili, femminili e otro@s del movimento zapatista sono in questi giorni in Europa ed una loro commissione è in Italia dal 12 di ottobre ove resterà fino al 5 di novembre.
Gli zapatisti sono arrivati in Europa percorrendo il cammino inverso rispetto a quello seguito da Cristobal Colon nel lontano 1492, quando arrivò, equivocando circa il luogo, nelle terre che chiamò Indie Orientali. Hanno ‘navigato’ nelle moderne caravelle dell’aria, gli aerei, ma un piccolo nucleo di 7 persone, lo “squadrone 421”, era giunto in Europa, alle Azzorre, l’11 luglio scorso su un veliero, percorrendo simbolicamente in senso inverso il percorso del 1492. Per questo il viaggio è stato definito scherzosamente come una loro “invasione” dell’Europa.
È possibile non cogliere, per distrazione, il significato storico dell’evento: gli “invasi” di 500 anni or sono hanno invertito i ruoli.
Conseguenza del viaggio di Colombo fu il più grande genocidio che la storia ricordi: secondo studi contemporanei la popolazione di quelle terre contava all’epoca da 80 a 90 milioni di persone. Dopo 50 anni essa era ridotta a meno di 10 milioni: responsabili di ciò in buona parte i virus portati dai conquistatori, il più comune dei quali, ormai innocuo per i suoi portatori – quello dell’influenza – contro il quale invece i nativi non avevano difese immunitarie. Il massacrante lavoro nelle miniere e le stragi in battaglie nelle quali i nuovi venuti impiegarono le loro armi “moderne”: archibugi e cannoni, cavalli e cani addestrati al combattimento fecero il resto.
Nel tempo, le culture originarie superstiti, molte centinaia o forse migliaia allora, dovettero affrontare la distruzione culturale originata da quello che il filosofo Dussel ha definito l’”occultamento dell’altro”, da contrapporre alla celebrata “scoperta” delle terre, non certo ignote a chi le abitava. Si iniziò negando la natura umana dei “conquistati”, che secondo i canoni dell’epoca necessitava l’esistenza dell’anima, che molti negavano essere da essi posseduta. Una volta decretato ex-lege papale che anch’essi ne erano dotati, iniziò la loro assimilazione culturale, cioè la negazione della loro “diversità”, che prosegue ancora oggi con le politiche dette “indigeniste”, concepite cioè dai successori dei conquistadores, disegnate per loro, ma non da loro. Rispolverate e applicate oggi in Messico dal presidente “progressista” AMLO (Andrés Manuel López Obrador).
Ci limitiamo a questi brevi richiami storici non avendo queste note l’intenzione di ripercorrere la storia ma solo di voler sottolinearne un dato di fatto: cinque secoli o poco più dopo la “scoperta”, a cui erano seguite la conquista e la decimazione degli abitanti, i rappresentanti di alcuni popoli superstiti, in una fase storica che potrebbe essere definita come un “ri-nascimento” indigeno, ripercorrono in senso inverso il cammino di Colon per riaffermare la loro appartenenza “con dignità” alla comune razza umana, in un percorso che programmaticamente incontrerà successivamente i popoli dei 5 continenti, dove molte altre culture sono “occultate”, in un momento storico in cui i popoli occidentali stanno cambiando la stessa modalità di essere ‘umani’, in una prospettiva ormai in via di attuazione da Cartesio in poi e che oggi procede in modo enormemente accelerato, quella di una liberazione dell’attività cerebrale dal limitante corpo di carne: il post, o se preferite, il trans-umano.
Chiuso questo rapido excursus storico, le altrettanto brevi note che seguono sono scritte per quanti non conoscono lo zapatismo e lo ignorano vedendo in questa venuta di loro rappresentanti solo un elemento “folcloristico” singolare, da ‘consumare’ e subito dimenticare, in una frenesia dissipativa di ogni evento insolito capace di attrarre per breve tempo l’attenzione.
Chi sono gli e le zapatiste?
Molto è stato scritto sullo zapatismo, soprattutto nei primi anni della loro sollevazione armata in Chiapas, questo Stato situato sulle montagne del Sudest della Repubblica del Messico fino ad allora sconosciuto al pubblico internazionale. Dal primo gennaio del 1994 si sarebbero letti con curiosità – però da una minoranza anche con reale interesse – i messaggi inviati al mondo da un enigmatico Comando Generale del Comando Clandestino Rivoluzionario Indigeno (Ccri-Cg) o, più spesso, da un altrettanto misterioso sub-comandante Marcos (intrigante quel sub! Una geniale impostura, come fu scritto?).
Un’insurrezione armata di indigeni col volto coperto in un momento storico in cui era stata dichiarata la “fine della storia” (ricordate il libro del 1992 di F. Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo?) e l’affabulare geniale del loro presunto “capo”, Marcos, un non indigeno, avevano tutti gli elementi per ricevere spazio anche nei nostri media occidentali, affamati di “novità” per distrarre i loro lettori. Dopo alcuni mesi l’attenzione mediatica ebbe termine e dopo pochi anni essa calò anche nelle schiere dei simpatizzanti che nei primi tempi si erano recati numerosi a portare la loro “solidarietà” a questi ipotetici costruttori di un mondo nuovo, che gli zapatisti affermavano di voler realizzare. Oggi il numero di quelli che vennero ironicamente definiti “zapaturisti” è notevolmente diminuito, anzi quasi estinto, come già l’interesse del pubblico, e ogni tanto qualche persona all’epoca interessata, sapendo del mio perdurante interesse a questa vicenda, incontrandomi mi chiede “Ma gli zapatisti esistono ancora? E se sì, che cosa fanno?”.
Già, che cosa hanno fatto e che cosa fanno? Difficile rispondere in due parole ma si può provare a farlo andando al cuore dei fatti: stanno facendo crescere pazientemente e consolidando fra molti ostacoli un’esperienza di autogoverno comunitario che probabilmente è la più avanzata nel mondo, almeno fra quelle conosciute da chi scrive. “Qui il popolo comanda e il governo obbedisce”, si legge all’ingresso dei territori zapatisti, non è solo uno slogan.
La notte del primo gennaio 1994
Tutto ebbe inizio nella notte del primo di gennaio del 1994 quando alcune migliaia – gli storici dicono 3 o 4 mila – di indigeni e indigene maya col volto coperto occuparono senza colpo ferire 5 cabeceras (capoluoghi municipali) fra i quali il più importante simbolicamente era San Cristóbal de Las Casas, l’antica Ciudad Real dei conquistatori, promossa da poco a una delle capitali del turismo internazionale. Altre migliaia restavano come rinforzo nelle comunità ribelli della “Montaña” (un simbolo importante, nella narrazione zapatista, tanto da dare questo nome al veliero dello “squadrone 421”). In realtà l’EZLN, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, nel quale erano inquadrati i ribelli, era già sorto qualche anno prima in clandestinità, nelle cañadas, le aspre e strette valli che solcano la Selva Lacandona, una delle ormai poche quasi inesplorate foreste tropicali del pianeta. Lo avevano fondato nel 1983 quattro leader indigeni, colà rifugiati per salvare la vita, e 4 guerriglieri cittadini, anch’essi sfuggiti alle selvagge repressioni che il governo stava conducendo fin dal 1965 contro i movimenti studenteschi che avevano osato contestarne l’operato.
I motivi della nuova rivolta indigena erano da ricercare in una serie secolare di agravios (torti subiti) che avevano alimentato una lunga serie di rivolte, intensificatisi e divenuti assolutamente intollerabili negli ultimi anni nel corso dei quali gli effetti delle politiche neoliberiste si erano ripercossi anche in queste terre lontane dal “centro” del “sistema”. Dopo vari e vani tentativi disperati di farsi ascoltare dal governo statale come da quello federale e, nonostante la sfavorevole situazione nazionale e internazionale del momento, nel corso di una lunga consultazione condotta fra le centinaia di comunità in sofferenza sparse nella regione, un certo numero di esse decise l’insurrezione armata. Per iniziarla fu scelta la data del primo gennaio 1994, giorno dell’entrata in vigore di un Trattato Internazionale di Libero Commercio (TLCAN) stipulato fra Stati Uniti, Canada e Messico, alcune clausole del quale equivalevano a una vera e propria condanna a morte per la maggioranza indigena e contadina dello Stato per l’impossibilità di sopravvivere alle conseguenze economiche del Trattato.
Non intendiamo ripercorrere la storia dell’epopea zapatista, impossibile in un breve scritto, ma solo ricordarne alcuni aspetti per meglio conoscere i promotori del “viaggio per la vita” (“travesía por la vida”) iniziato nei giorni scorsi a partire dall’Europa (“capitulo Europa”) per incontrare e scambiare esperienze con i movimenti di opposizione al brutale sistema dominante esistenti nei 5 continenti.
L’insurrezione, che nell’aggettivo “zapatista” rievoca quella contadina e indigena guidata da Emiliano Zapata (1910-1919) e che fu anche la prima grande rivoluzione popolare del turbolento secolo XX, precedente anche a quella sovietica del 1917, secondo una interpretazione non peregrina significò la “riapertura della storia”, dopo che le resistenze mondiali al capitalismo sembravano estinte con la caduta del “muro” di Berlino (1989) e la dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991), mentre le guerriglie centro-americane perdevano vigore o si stavano spegnendo intrappolate in ambigui accordi di pace (Guatemala, El Salvador) o si ripiegavano su loro stesse (Nicaragua). Restava come eccezione la discussa rivoluzione cubana.
L’insurrezione zapatista significò, per i suoi contenuti ideologici e le modalità operative, un profondo cambiamento rispetto alle precedenti ribellioni, latinoamericane e non solo.
Essa nacque da una “ibridazione” di due culture fra loro lontane che le conferirono contenuti e modalità nuove rispetto alle molte ribellioni storiche: quella marxista, con le sue varie colorazioni latinoamericane (trozkismo, castrismo, guevarismo, mariateguismo …), diffusa fra i movimenti studenteschi e le periferie operaie delle città, e quella indigena radicata in una multisecolare esperienza di vita comunitaria ancorata nella natura ma non cristallizzata in forme antiche, come spesso si crede. In anni recenti, in tutta la America detta Latina, e particolarmente in Chiapas, essa era stata scossa dalla Teologia della Liberazione, la prima teologia cristiana non elaborata al centro della cristianità bensì in una delle sue periferie. Questo ripensamento dal basso in Chiapas aveva assunto il volto di una “teologia india”, che ebbe uno dei suoi alfieri più significativi nel vescovo di San Cristóbal, Samuel Ruiz, “convertito” dagli stessi indios, come egli sottolineava. Fu grazie al suo instancabile lavoro (fu sopranominato “el caminante”) che il mondo indigeno del Chiapas, condizionato da una secolare sottomissione al potere civile e religioso anche se ripetutamente ribelle, si era risvegliato alla politica. Questi due mondi lontani si incontrarono proprio nelle cañadas della Selva dove si fusero dando vita a quello che sarebbe stato chiamato “neo-zapatismo”.
Possiamo ricordare questa “ibridazione” attraverso le parole del sub-comandante Marcos, il cui pensiero si era forgiato in un marxismo critico cittadino:
Noi (i rivoluzionari venuti dalla città, nda) avevamo una concezione molto squadrata della realtà. Quando urtammo con la realtà, questa squadratura restò abbastanza ammaccata. Come questa ruota che sta qui. Comincia a ruotare e essere modellata con il contatto con i popoli. Ormai non ha più nulla a che vedere con l’inizio. Quindi, quando ci chiedono. “Voi, cosa siete? Marxisti, leninisti, castristi, maoisti o cos’altro?”, io non lo so. Veramente, non lo so. Siamo il prodotto di una ibridazione, di un confronto, di uno scontro nel quale fortunatamente, così penso io, abbiamo perso.
L’ibridazione, inizialmente non facile per le reciproche diffidenze (“il vostro linguaggio è duro, non lo comprendiamo”, dicevano gli indigeni ai guerriglieri venuti dalla città) avvenne nelle cañadas perché lì gli agravios del sistema erano più acuti e lì stava covando una situazione drammatica, coi giovani che, avendo perduto il lavoro, rientravano nelle loro comunità già carenti di terra da condividere, situazione così descritta dallo storico García de Leon, parlando della nascita dell’EZLN:
“L’esercito zapatista è oggi composto da questa massa giovane e marginale, moderna, poliglotta e con esperienze di lavoro salariato. Un profilo che ha poco a che vedere con l’indio isolato che immaginiamo da Città del Messico. Nel suo attuale habitat convive con le vecchie fattorie e i suoi peones in regime di schiavitù, con i gruppi di guardie bianche ammodernate nel corso dell’amministrazione di Patrocinio González, coi latifondi dissimulati, con le anacronistiche strutture statali. Questo pare essere il fermento sociale, la combinazione creatrice di un vero esercito popolare, con migliaia di combattenti e di simpatizzanti nella Selva, le Terre Alte, il Nord e la Sierra Madre che conferma l’insolito carattere del Chiapas, la combinazione creatrice che questa regione ha sempre ottenuto fra passato e futuro. […] Un esercito popolare che in pochi giorni ha distrutto le verità assolute maturate in anni di concertazione frazionate, di pace ingiusta e di opportunismo. […] Il suo nuovo stile politico e il suo linguaggio fresco e diretto, pieno di riferimenti simbolici e con una poesia direttamente influenzata dalle strutture linguistiche maya, si ritrova in questa raccolta di documenti …. (Da: EZLN – Documenti e comunicati dal Chiapas insorto Vol.1, edizione BFS, Pisa pp. 26-27.
Il neo-zapatismo
Volendo segnalare alcuni degli elementi di questo pensiero ibridato e perciò nuovo, possiamo ricordare la discontinuità rispetto alla teoria del foco guerrigliero, una avanguardia “illuminata” che guida alla conquista del potere e, una volta al potere costruisce, dall’alto un improbabile “uomo nuovo”. Lo zapatismo ha optato chiaramente per una orizzontalità nei rapporti politici e sociali, il rifiuto della delega a rappresentanti che vivono separati dalla vita quotidiana dei militanti, l’uguaglianza negli incarichi fra uomini e donne (l’occupazione di San Cristóbal fu diretta da una “comandanta”); ha compiuto una scelta anti-elitaria nell’esercizio del potere, che è detenuto dal popolo e espresso dalle decisioni prese in assemblea e dove gli incarichi per l’esecuzione delle decisioni sono di breve durata, non replicabili, rotativi e comunque revocabili dalle stesse assemblee che li hanno devoluti e soprattutto a persone che proseguono nella loro vita normale in mezzo alla gente; una forma di educazione scolastica al comunitarismo e all’internazionalismo i cui contenuti e modalità vengono definiti dalle assemblee dei genitori; un esercizio della giustizia praticato col buon senso delle “Giunte di buon governo” (vedi dopo) che nelle liti infra o inter-comunitarie agiscono piuttosto come mediatori che autori di sentenze, incentrato più sulla rieducazione che sulla punizione; una sanità basata più sulla prevenzione e l’educazione di base che non una sanità specialistica (che pure talora è necessaria). (Vedi La metamorfosi della lotta armata in Subcomandante Marcos – Il sogno Zapatista di Yvon Le Bot, Mondadori, Milano 1997, pp. 50-57)
Per concludere queste note è necessario spendere alcune parole sull’autonomia, asse centrale della politica zapatista nei riguardi dello Stato. Per fare questo compiamo un passo indietro, fino all’insurrezione armata, che fu seguita dopo 12 giorni da una tregua imposta dalle imponenti manifestazioni popolari nelle grandi città del Messico, seguita dall’inizio di una trattativa di pace le cui prime mosse si tennero nella chiesa cattedrale di San Cristóbal sotto la mediazione di Ruiz.
Gli obiettivi della rivolta, esposti in una Dichiarazione pubblica il giorno 2, erano innanzi tutto un cambiamento profondo nelle politiche governative e nei loro gestori e il soddisfacimento per tutti i messicani bisognosi, cioè la grande maggioranza, di 11 esigenze riguardanti: lavoro, terra, casa, cibo, salute, educazione, indipendenza, libertà, democrazia, giustizia e pace. A questi nel corso delle trattative si aggiunse più tardi quello, che divenne prioritario, dell’”autonomia” politica, che comunque mai adombrò da parte zapatista l’eventuale secessione dallo Stato (“Mai più un Messico senza di noi” fu uno dei lemmi dominanti), posizione fatta propria dalla maggioranza delle altre etnie che fiancheggiarono le trattative e che, da parte loro, avevano dato vita a un Congresso Nazionale Indigeno (CNI), alcuni rappresentanti del quale fanno oggi parte della travesía .
Le trattative proseguirono per mesi, basate su un’agenda dei lavori in 5 punti, il primo dei quali aveva come tema Diritto e Cultura Indigena. Su questo, nel febbraio del 1996 si giunse a un accordo sottoscritto dalle parti, accordo che però il Governo federale, disconoscendo l’operato dei suoi delegati, non accettò con la motivazione che il loro riconoscimento avrebbe condotto a una “balcanizzazione” del paese.
Gli zapatisti non desistettero e attesero, in un contesto fortemente conflittuale, l’elezione di un nuovo governo, prevista per il 2.000. Nelle elezioni, per la prima volta dopo 71 anni, venne eletto un presidente non del PRI, Vicente Fox Quesada del PAN (Partito di Azione Nazionale), il quale in campagna elettorale aveva assicurato che avrebbe risolto il problema del Chiapas in 15 minuti! Credendo di cogliere qualche novità in alcune parole del nuovo presidente, nel 2001 22 comandanti indigeni con Marcos iniziarono una lunga marcia fino a Città del Messico attraversando 12 Stati, con un percorso di 3mila km compiuto in 37 giorni durante i quali vennero realizzati 70 affollati incontri con le popolazioni locali, giungendo il 28 marzo nello zocalo di Città del Messico dove ad attendere c’era una immensa folla.
Arrivo a Città del Messico della marcha color de la tierra
Dopo una delicata e controversa trattativa, la delegazione zapatista fu ammessa a parlare nel Congresso dei parlamentari messicani: dopo circa 180 anni dall’indipendenza del paese (1821) – alla quale i popoli indigeni avevano dato un grosso contributo di sangue restando tuttavia esclusi di fatto nella gestione del nuovo Stato – era la prima volta che loro rappresentanti prendevano la parola in questa assise, disertata nell’occasione da alcuni congressisti per protesta contro questa “dissacrazione” del Congresso! A prendere la parola, scandalo nello scandalo, fu un’indigena, la comandante Ramona, con un discorso che resterà nella storia della nazione. Il Congresso promise a maggioranza che gli accordi raggiunti sarebbero stati onorati con una apposita legge ma quella che venne votata, dopo che gli zapatisti erano rientrati in Chiapas, non corrispondeva alle attese. Gli zapatisti, delusi e sconcertati, si chiusero in un lungo silenzio verso l’esterno e, durante due anni, discussero al loro interno sul da farsi, con incontri nelle centinaia di comunità, sparse nelle impervie montagne, che avevano preso parte alla sollevazione.
L’autonomia
Autonomia è auto-organizzazione fuori dalle strutture statali. Alla fine di questo lungo silenzio essi fecero sapere che avrebbero applicato unilateralmente gli accordi firmati a San Andrès su Diritti e Cultura Indigena. Con questo annuncio si ebbe una svolta ideologica e operativa dello zapatismo. L’EZLN si metteva da parte, restando però vigile contro eventuali attacchi armati, affidando alle comunità la gestione del nuovo corso.
Vennero costituiti 5 caracoles (chiocciole, la cui spirale disegnata sul guscio ha un valore simbolico nella cultura maya), cioè 5 centri organizzativi, ciascuno dei quali riuniva un certo numero di municipi autonomi allora già esistenti nei territori in mano zapatista e ognuno dei quali comprendeva a sua volta centinaia di piccole comunità sparse sui loro territori. Ogni caracol era retto da una Giunta di buon governo (JBG) che amministra la giustizia, il sistema scolastico e quello sanitario e deve realizzare le direttive ricevute dalle assemblee tenute nei municipi autonomi, i quali a loro volta erano retti da analoghe JBG. Gli incarichi vengono assegnati assemblearmente secondo le regole prima esposte (rotazione, breve durata, revocabilità). I componenti delle JBG dei caracoles vengono nominati dalle assemblee municipali. (Vedi : Dai Municipi Autonomi alle Giunte di Buon Governo – https://sites.unica.it/cisap/files/2018/04/Gas.. ). Oggi, grazie all’iniziativa zapatista, il numero dei caracoles e dei municipi autonomi è cresciuto (1919) ma ciò esula da queste note.
Questo sistema funziona ed è stato rodato nel corso ormai di 18 anni. Naturalmente nulla va idealizzato. La realtà presenta sempre attriti col desiderato, ma per quanto constatato personalmente fin quando sono potuto andare e a quanto mi raccontano oggi, funziona. E’ ripetibile in altri luoghi? Direi di no: ogni contesto deve trovare le sue regole. Nel libro “Alba di mondi altri” e in altri suoi libri, l’uruguaiano Zibechi descrive esperienze di autonomia in molti contesti latinoamericani, dai quali emergono soluzioni varie che però tutte hanno nelle assemblee di base il perno centrale. Gli zapatisti, da parte loro, hanno detto e ripetuto che essi non si propongono come modello da imitare, salvo che in una cosa: dimostrare che quando esiste la volontà di liberarsi dal giogo del sistema per sperimentare modi di vita alternativi, per difficile che questo sia, ciò è possibile.
In questi 18 anni i caracoles non si sono chiusi al mondo e anzi i vari caracoles, a turno, sono stati teatro di incontri nazionali e internazionali, fra i quali spicca l’iniziativa delle escuelitas zapatistas, quando 1500 persone di vari paesi hanno frequentato nelle scuole zapatiste un corso sul tema La libertà secondo gli e le zapatiste, ricevendo ciascuno 4 libri di testo e 2 DVD (vedi https://www.globalproject.info/it/mondi/messico-escuelita.zapatista…), esperienza alla quale fece seguito nel 2015 un corso di secondo livello. Sempre nel 2015, alla Università della Terra, situata nelle vicinanze di San Cristóbal, si è tenuto un lungo seminario (3-9 maggio) dal titolo Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista con la partecipazione di studiosi e leader sociali di vari paesi (gli atti sono consultabili nel sito https://enlacezapatista.ezln.org.mx). Fra i molti altri eventi di particolare rilievo ricordiamo il Primo Incontro Internazionale Politico, Artistico, Sportivo e Culturale delle donne che lottano tenutosi nel caracol di Morelia nel marzo 2018 a cui parteciparono migliaia di donne di vari paesi del mondo e al quale fece seguito un Secondo Incontro a cavallo fra la fine del 2019 e l’inizio del 2020.
Lo zapatismo oggi
Lo zapatismo è un pugno di sabbia gettato 27 anni or sono negli ingranaggi del sistema capitalista, che oggi per molto aspetti mostra segni di usura pur restando potente nella sua azione distruttrice. Per questo il governo del presidente “progressista” AMLO, che si gloria di star realizzando la Quarta Trasformazione storica del paese usando però criteri economici capitalisti, stringe il laccio attorno alle comunità zapatiste e, proprio mentre la delegazione zapatista è in Europa, le violenze dei gruppi paramilitari mai neutralizzati, anzi sempre incoraggiati quando non addirittura promossi dalle autorità sia Statali che Federali, stanno facendo temere un ritorno alla guerra (vedi l’articolo di Gustavo Esteva Ultima chiamata per il Chiapas su Comune-info: https://comune-info.net/ultima-chiamata-per-il-chiapas . Un motivo di più per incontrare e solidarizzare le e gli zapatisti.
Post-scriptum
Il filosofo argentino Henrique Dussel, oggi messicano, in occasione dei festeggiamenti per il 500 anniversario della “scoperta” dell’America tenne una serie di conferenze in Europa in cui contrappose alla scoperta delle terre l’occultamento dei loro abitanti, cioè dell’altro, del diverso, del non ‘occidentale’, come abbiamo accennato all’inizio.
In questo incontro con gli zapatisti non incontriamo un altro noi, in lotta per diventare come noi, credenza spesso presente nell’immaginario occidentale. Non storcete la bocca, ma è così: incontrando questi e queste zapatiste noi incontriamo altri, uno dei tanti altri che l’Occidente nella storia della Modernità ha negato, oppresso, distrutto.
Non è chi scrive a dirlo, sono gli stessi zapatisti. Nel saluto di benvenuto ai partecipanti dell’Incontro definito auto-ironicamente Intergalattico, organizzato dagli zapatisti nell’agosto 1996 nella Selva Lacandona, che simboleggiò ma anche iniziò di fatto la riapertura della storia delle resistenze al capitalismo, la comandante Ana Maria affermò: “Siamo uguali perche diversi“. Un ‘perché’ problematico. Un’espressione che ho sentito talvolta ripetuta perché insolita, conturbante ma forse inesplorata nel suo vero significato. Eppure qui c’è uno dei nuclei forti, culturalmente rivoluzionari del pensiero zapatista, che si contrappone all’universalismo astratto del pensiero moderno, che forse è solo un’espressione del nostro modo occidentale di considerare universale ciò che è solo nostro.
Il paradosso “perché” suggerisce che l’uguaglianza non deve più essere definita a dispetto delle supposte differenze che la ostacolano bensì a partire dal loro pieno riconoscimento. L’immagine è forte. Mentre l’universale pretende di produrre delle identità rendendo le differenze indifferenti, il comune viene qui pensato a partire dalle esistenze concrete e dalle loro singolarità vale a dire nella trama delle loro diversità, senza mai astrarsene. È questo che fa tutta la differenza, senza mai astrarsene. È ciò che costituisce tutto lo scarto fra l’universale dell’Uno e un ‘comune’ planetario sperimentato nella sua molteplicità costitutiva. (J.Bachet, Basculements – Mondes emergents, possibile desirables, La Decouverte, Paris 2021, p.172)
A questo “universalismo europeo” (Wallerstein) gli zapatisti, con la formula “un mundo donde quepan muchos mundos“, hanno contrapposto la ricchezza di un mondo che “contiene molti mondi diversi”. L’elogio della pluralità dei molti modi di essere dell’homo sapiens, da affermare con forza oggi perché, passando per i robot come stadio intermedio e ancor prima di essi gli iphones, si sta trasformano l’uomo di carne, materia vivente parte dell’universo vivente, in “uomo di acciaio inox e silicone”, con un chip al posto di un cervello vivente. In un bel saggio in cui si analizza la trasformazione in corso grazie alle tecniche digitali, Visioni del mondo in collisione. La sfida dell’ingegneria genetica, l’autore, Scott Eastham, insinua un dubbio drammatico: “Forse prima di lasciare alla scienza moderna l’ultima parola sull’evoluzione dell’homo sapiens, abbiamo bisogno di ascoltare altre culture e di sperimentare degli altri modi di “essere” umani”. (Visioni del mondo in collisione – Interculture Italia http://www.interculture-italia.it › index2).
A chi scrive piace pensare che il viaggio degli zapatisti attraverso i 5 continenti possa essere l’inizio di questa consultazione planetaria fra diversi, appartenenti a un’unica razza, quella umana, sul futuro dell’homo sapiens.
Gragnano (LU) – 17.10.2021
laura disilvestro dice
Grazie di aver ripercorsa tutta la storia degli zapatisti che ho conosciuto negli anni novanta e poi persa
Cercherò notizie sulla loro permanenza in Italia