Perugia, maggio 1985. Il calzolaio Antonio Nardi, ex partigiano ed operaio, spara con il fucile caricato a sale a un suo compagno, il consigliere regionale del Pci Gallina. Poi Nardi si barrica nella bottega e minaccia di far esplodere l’edificio. È la storia che racconta il primo romanzo di Pier Luigi Brunori, ambientato tra le mura medievali di una città provinciale scossa da una ribellione che intuisce la fine di un’epoca. Nasce il turbo-capitalismo e la politica diventa spettacolo, il calcio perde la sua innocenza in una strage e presto crollerà il muro di Berlino
di Marco Calabria
E chi se li ricorda, adesso, gli anni Ottanta? Sarà bene tirar giù qualche libro impolverato, perché la divinità contemporanea che possiede la scienza di tutte le cose, l’onnisciente web, sulla primavera del 1985 ha la memoria corta. Dicono, gli indispettiti dalle tempie grigie, che la sola funzione della memoria sia quella di aiutarci a rimpiangere. Non è vero – malgrado per un certo discorso pubblico la forza e la necessità del ricordo siano state avvelenate da fiumi di retorica – e il 1985 lo dimostra. L’avvio stagionale sarebbe straordinario: l’11 marzo Michail Gorbaciov viene eletto segretario del Pcus, è l’inizio della fine dell’Unione Sovietica e delle due grandi sfere d’influenza nel pianeta. Dall’altra parte, a Washington, c’è però Ronald Reagan, l’attore mediocre che spalanca le porte della politica moderna alla dimensione spettacolo. Sono le stesse porte che varca oggi Matteo Renzi. A scuotere le fondamenta della cosiddetta democrazia italiana nata dalla Resistenza, ci penserà un gladiatore abietto, Francesco Cossiga, presidente sardo del “piccone”, succeduto in giugno nientemeno che a Sandro Pertini, l’uomo politico più amato dagli Italiani, a nostra ritrosa memoria.
Lo stipendio medio di un operaio italiano, nel 1985, è di 600 mila lire al mese, un quotidiano ne costa 650. La gens italica ha sempre letto poco. Riempie gli stadi, invece, anche se poi arriva la strage dell’Heysel – 39 persone uccise, oltre 600 feriti – a cancellare per sempre l’innocenza dal mondo dal calcio. Nelle elezioni amministrative di maggio, i comunisti perdono parecchi voti a vantaggio dei socialisti. Vanno in crisi le giunte locali, anche perché il Pci, poche settimane più tardi, perderà ancora nel referendum epocale per l’abrogazione del decreto Craxi sulla scala mobile. Berlinguer era morto “sul lavoro” l’anno prima e l’Italia aveva pianto con lacrime amare la sua diversità, l’ultima. C’è però ancora una vicenda, essenziale, da segnalare. È quella della mancata cessione della finanziaria alimentare dell’Iri, la Sme . Craxi e il suo alleato, tal Silvio Berlusconi, ne impediscono al fotofinish la vendita a Carlo De Benedetti . Due anni dopo, il presidente della Buitoni comprerà Mondadori, l’Espresso e la Repubblica. È la guerra di Segrate, durerà oltre vent’anni.
Possiamo fermarci qui. Risulta già abbastanza chiaro che molte delle traiettorie traccianti che hanno illuminato e segnato in profondità i decenni successivi affondano le radici proprio in quella singolare primavera del 1985. A farcela rivivere, con quel suo sguardo leggero, tanto spontaneo da mostrarsi raffinato, pensa il primo romanzo di Pier Luigi Brunori. È intitolato “Un conto salato”, Morlacchi editore, ed è immerso fino al cuore in un luogo comune, la città di Perugia, e in un tempo epocale, il 1985, appunto. Antonio Nardi, il protagonista, è una ex staffetta partigiana. Operaio alla Perugina, lascia la fabbrica e diventa calzolaio, preferisce l’odore artigiano della colla a quello del cioccolato. In quei giorni di maggio, Nardi s’è barricato nella sua bottega, a Porta Sant’Angelo, e minaccia di far saltare l’intero edificio. Prima di rinchiudersi, ha svuotato il fucile da caccia caricato a sale nel fondoschiena dell’ex compagno Gallina, scivolato vigliaccamente nella modernità craxi-berlusconiana. Stessa sorte, e relative chiappe in fiamme, ha riservato al barbiere Armando, opportunista e codardo, anticomunista per antonomasia.
La placida normalità che emanano le mura medievali perugine è scossa in modo perentorio. Il figlio di Riccini, eccitato, continua a ripetere che a colpire sono stati gli Apache. I vicini accorrono, “disposti a chiazze, come tante nuvole colorate, riempivano la parte destra della piazza, dal colonnato del bar Fagioli alla facciata della chiesa disegnata da Vanvitelli”. Perfino quando l’azione conquista la scena in modo vigoroso, lo stile di Brunori, antiretorico come la città, resiste all’enfasi. Scevro di aggettivi e superlativi, concede appena qualche svisata pulp per poi tornare al tono piano, colloquiale e disincantato. Maneggiare le parole con cura, in questo caso, non sembra dover valere solo come principio fine a se stesso. Serve a convogliare l’attenzione del lettore su un esercizio, forse un gioco, che con tenace caparbietà lo svolgersi di “Un conto salato” sembra proporre: rendere importante, e interessante, ciò che non si manifesta come tale nell’immediato. In fondo, il capitalismo a velocità superiore che irrompe negli anni Ottanta apre la strada alla guerra contro la vita tout court e, inevitabilmente, anche alla ricerca di un mondo nuovo. Un mondo che deve esistere ma non è ancora visibile, che non si percepisce come tale o per quel che potrà diventare. Grati a Pier Luigi Brunori per averci spinto a ricordare anni tanto decisivi al fine di comprendere la genealogia dei giorni nostri, gli abbiamo rivolto qualche domanda.
Come mai hai saltato il fosso lasciando i racconti dopo due raccolte per cimentarti col romanzo?
Volevo mettermi alla prova con una misura diversa. È stata una sfida, nel senso che davvero non sapevo se ne sarei stato capace. È la prima volta che scrivo un romanzo e sono un ragazzo piuttosto stagionato. Confrontare le due scritture, non è facile. Dal mio punto di vista, quello di uno che ama scrivere solo per passione e fa un lavoro ben lontano dalla letteratura, è stato un po’ come correre una maratona invece dei 400 metri. Devi usare in modo molto diverso le cose che hai in corpo e senti di poter esprimere. Nel caso del racconto, che spesso viene ingiustamente sottovalutato, spendi tutto in modo generoso, in una specie di scatto breve. Nel romanzo, invece, almeno per la mia esperienza, devi imparare a dosare. Cominci a dirti che devi scrivere un certo numero di pagine al giorno… Senza esagerare nell’autodisciplina, per carità, ma una certa costanza ci vuole. Per altri versi, però, il romanzo è più facile perché quando vuoi correre più piano, lo fai. Non devi render conto a nessuno. Il ritmo, cioè il respiro, diventa più disteso, c’è un tempo lungo. E ci vuole la pazienza del contadino, devi sapere aspettare il raccolto, proteggere quel che hai seminato dalle piogge, dalla grandine… Ci vuole più resistenza per scrivere un romanzo.
Hai deciso di collocare la vicenda di Nardi in un periodo storico molto preciso, che significato attribuisci alla metà degli anni Ottanta?
Il romanzo è ambientato proprio nel maggio del 1985, subito dopo le elezioni amministrative e due settimane prima della tragedia dell’Heysel. In quel momento c’è anche una forte tensione tra Stati Uniti, Libia e Italia. Dopo l’estate sfocerà nella crisi di Sigonella, un caso diplomatico difficile in cui si sfiora perfino lo scontro armato tra carabinieri e soldati della Delta Force Usa. Berlinguer era morto l’anno prima, il segretario del Pci è Alessandro Natta, che avrà un infarto anche lui, nel 1988. I giorni del romanzo sono quelli della fine di un’epoca, c’è la fine delle ideologie e l’inizio del turbo-capitalismo. La libera circolazione dei capitali spicca il volo, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. A Perugia, la fine di quest’epoca è segnata dal caso Sme, quello in cui De Benedetti tenta di costruire un grande polo alimentare e viene fermato alla fine da Craxi e Berlusconi. La città si trasforma, nasce il nuovo centro direzionale, vicino alla stazione. Gli uffici pubblici vengono allontanati dal centro storico, che comincia a spopolarsi e presto diventerà un museo, un luogo destinato ai turisti, che passa da un grande evento all’altro senza vita quotidiana, senza vita vissuta dalla gente. Dal punto di vista letterario, invece, gli anni Ottanta italiani vedono una gran prevalenza dell’ambientazione metropolitana e di una letteratura vitalistica. C’è un grande autore che a me piace moltissimo, Pier Vittorio Tondelli, ma più in generale c’è la mancanza di una visione che comprenda il futuro…
Beh, è il momento in cui arriva in Italia anche il punk…
Sì certo, ma più in generale la tendenza è molto metropolitana e molto autolesionistica. Gli occhi con cui guardo io sono molto diversi, sono quelli di una città piccola dove si vede che lo scontro generazionale è un’altra cosa. Si vede più nitidamente il disastro che combina la sinistra non capendo che l’idea di una città-museo è un errore madornale perfino per la sua stessa sopravvivenza. La sinistra capisce davvero poco di quegli anni, basti pensare al fatto che lascia il monopolio assoluto dell’emittenza privata a Berlusconi. Una scelta che presenterà per decenni un conto piuttosto salato. Oggi credo che ne siano convinti tutti ma è proprio negli anni in cui ho ambientato il mio romanzo che si costruiscono le condizioni di un pezzo così importante della vita politica di questo paese. Eppure, allora nessuno sembrò capirlo davvero.
Antonio Nardi è un calzolaio sempre per indicare un’epoca che scompare?
Ho pensato che dovesse fare il calzolaio in primo luogo per una ragione romantica: il fatto che avesse fatto la staffetta partigiana negli anni della Resistenza, anche quella è un’epoca che si chiude, in qualche modo, negli anni Ottanta. Poi, certo, il calzolaio è uno dei mestieri che scompaiono. E la Resistenza degli anni Ottanta di Nardi è il fatto che preferisce l’odore della colla a quello della cioccolata, che sceglie di passare dalla produzione seriale della Perugina a quella artigianale di una piccola bottega. Vedi, a Perugia, e forse più in generale nelle città dell’Italia centrale che hanno una forte realtà comunale, la funzione degli artigiani è stata davvero fondamentale. Perugia, poi, ha anche una sua tradizione di resistenza molto coraggiosa: pensa alla resistenza al papa nell’Ottocento, all’assedio dei sanfedisti aretini contro la Perugia repubblicana. È forse soprattutto lì che si forma una certa anima ribelle della città, a suo modo anche un po’ anti-italiana, e comunque sempre incline al rifiuto di montare sul carro del vincitore.
Nelle pagine che hai scritto c’è una ricerca misurata della comicità che forse costituisce l’ingrediente chiave per liberare la ribellione di Nardi da ogni tentazione retorica. È ancora la città che impone il suo ruolo di protagonista?
Perugia è ancora protagonista, come lo era nella mia ultima raccolta di racconti: “Perugia è un luogo comune”, cioè un luogo dove, al di là della sua importante storia medievale, c’è posto per tutti. Perugia è antiretorica. Walter Binni, un grande protagonista della letteratura del Novecento, diceva che Perugia è una continuazione autonoma e singolare della Toscana. Antonio Nardi è il protagonista di una ribellione, senza dubbio. La sua però, se mi permetti un piccolo gioco di parole, è una ribellione che si ribella. Si ribella anche a una facile definizione. Per esempio non è una ribellione disperata, a differenza di quella di Pietro Gallesio, il protagonista di “Un giorno di fuoco”, il romanzo di Beppe Fenoglio. Gallesio prende il fucile, spara, uccide e lascia l’ultima pallottola per sé. Nardi invece, che pure il suo amico portalettere chiama Gallesio, ha un piano B, si lascia aperta una via d’uscita. Gli consentirà di togliersi qualche sfizio senza fare e farsi troppo male. Inoltre, malgrado le apparenze, quella di Nardi non è mai una ribellione individuale. Nell’esito del suo scontro con l’ordine costituito sono determinanti le relazioni sociali che ha saputo costruire, con l’arabo che vende i tappeti, col portalettere e con la famiglia che, pian piano, lo affiancherà tutta nella protesta. Fai attenzione, nessuna di queste essenziali alleanze viene costruita attraverso il denaro, vorrà dire qualcosa?
Renzi, Cossiga, Reagan, turbocapitalismo… definizioni assolutamente di parte, quella parte che non ha capito che il socialismo è finito non per errori o tradimenti o virulenza del “nemico”, ma per intrinseca inconsistenza filosofica e antropologica. E dunque non avendo capito, continuerà all’infinito disperate cincumambazioni intorno al cadavere… Non ha capito che la “resistenza tradita” (che doveva sfociare nel socialismo), è illusione/deformazione della stessa parte, parte tremendamente autoreferenziale perchè la stragrande maggioranza del popolo italiano chiedeva (agli “alleati”, alla resistenza, al destino) la libertà sic et simpliciter (quella di prima del fascismo), non il socialismo.
Il romanzo dell’amico Brunori sarà sicuramente ben scritto, ma il contesto non invita.
gentile luigi,
perdoni la confidenza, faccio una certa fatica a comprenderla: considerare Ronald Reagan o Cossiga (senza k per chi conosce l’italiano) una “definizione” è assai ardito, forse Renzi un po’ meno, chissà… Di certo le definizioni, tutte le definizioni, servono a classificare, costringere, ostacolare il movimento, cioè la vita e i cambiamenti.
Immagini quanto poco, in questa chiave, noi si rimpianga un “socialismo” che non solo è finito, come dice lei, ma non è mai cominciato. E non perché fosse utopistico, tutt’altro. Sarebbe un discorso lungo. Il turbo-capitalismo, invece, – che lei potrebbe considerare un concetto “Ideologico” (ma non mi faccia questo torto, la prego! Ahi, quanto male fa “l’inconstistenza filosofica” del 95 per cento dei media! – il turbo-capitalismo, dicevo, cioè il capitalismo di fine secolo, seppur in declino, esiste e prospera sulla vita delle persone. Continua imperterrito a separare le persone dal proprio fare in nome delle cose (es. il denaro, ma non solo).
Infine, gentile luigi, siamo “di parte”, certamente. Ha ragione da vendere. La parte di quelli che stanno “sotto”, ché quelli che stanno sopra (si dicano anche socialisti, in Cina o a Volterra, poco importa) non hanno certo bisogno di romanzi. Solo romanzi, gentile luigi, niente di più, niente di meno.
Troverà facilmente altro che possa contrariarla con maggior enfasi andando a spasso per questo sito. Non troverà però molti “ismi” dalla nostra parte, le assicuro. Infine, mi permetta, autoreferenziale è scortese, non me lo aspettavo, mentre cincumambazioni è davvero bellissimo. Se scriverà qualcosa di letterario, ce lo faccia sapere. Sarà un onore per me recensirlo su “comune”, senza “ismi”. Grazie
Conosco l’amico Luigi da tanto tempo e so come la pensa, e quando ci troviamo a parlare di Perugia a volte ci troviamo d’accordo a volte no, non saprei dire se sono di più le une o le altre. Quello che mi preme ribadire è che non ho scritto un romanzo politico, o che almeno non era questa la mia intenzione. Questo non esclude che ci possa essere una lettura politica, ma spero che il romanzo non renda obbligatoria un solo punto di osservazione, altrimenti sarebbe un fallimento.
Ho scritto di Perugia perché è la città che conosco meglio e il lavorare a Roma mi permette di scriverne, diciamo, più liberamente e con un occhio più chiaro. Questo non credo andrà a genio a molti nostri concittadini, caro Luigi, ne ho già avuto il sentore (e non parlo della tua parte politica). Quando racconto di Perugia cerco di coglierne i caratteri e non lo faccio per rivolgermi ai soli perugini, ti dirò anzi che mi sento più apprezzato quando presento il libro fuori della nostra città che dentro. A Perugia si va a cercare quello che non c’è, vale a dire chi era questo personaggio, chi era quest’altro e se questo è accaduto o non è accaduto e si rischia di far cadere tutto nella macchietta.
Concludo dicendo che mi piacerebbe invece che il libro venga letto proprio dalla gente che la pensa in modo diverso dal mio