Alla Wto tutti contro l’India, che vuole difendere il suo diritto di sfamare i più poveri comprando cibo dai propri contadini. Un diritto che dovrebbe esercitare anche l’Italia, se preferisse davvero filiera corta e qualità alle speculazioni dell’agrobusiness
BALI – Se dovessimo trovare una data significativa, in questa Ministeriale indonesiana, dovremmo tornare indietro di alcuni mesi. Era il 12 settembre quando in India venne promulgato il National Food Security Act, con lo specifico obiettivo di mettere in campo una seria lotta alla povertà e alla malnutrizione. Obiettivo è di distribuire cibo sussidiato a due terzi degli oltre 1.2 miliardi di persone che abitano il Paese, così da permettere a persone disagiate, donne in gravidanza, madri in allattamento, neonati e bambini di ricevere cibo a basso costo, soprattutto riso, grano e cereali, acquistato soprattutto da piccoli produttori indiani.
Un sostegno, chiaro e diretto, alle centinaia di milioni di persone che nelle campagne e nelle città soffrono o sono a rischio di estrema povertà. Un’azione che il ministro all’Agricoltura nel maggio del 2013 ha definito come “il più grande esperimento mai fatto nel mondo di distribuzione di cibo sussidiato da un governo attraverso un approccio basato sui diritti”.
E’ su questo esperimento che rischia di schiantarsi il traballante negoziato di Bali. Nello specifico su un documento presentato dal G33, il gruppo informale di Paesi emergenti e in via di sviluppo presieduto in questo momento dall’Indonesia, che chiede un emendamento all’Accordo sull’Agricoltura che permetta maggiore “spazio politico” per i Paesi, soprattutto nel sussidiare le proprie produzioni “per sicurezza alimentare” oltre ai limiti dati dalle normative della Wto. Il rischio, per un Paese che non ottemperi i regolamenti, è essere citato al Dispute Settlement Body, il Tribunale della Wto che attraverso ritorsioni commerciali impone ai Paesi il rispetto delle regole del libero mercato. Il caso indiano si incastra perfettamente nella posizione espressa dal G33. Sussidiare oltre 60 milioni di tonnellate di cibo all’anno significa superare quel limite concesso dalla Wto (il 10% del valore prodotto) che si ritiene “non distorsivo del mercato”.
Le maggiori opposizioni si hanno dagli Stati uniti e dall’Unione europea, che pure ipocritamente sussidiano abbondantemente i propri produttori, basterebbe pensare che i sussidi statunitensi per aiuto alimentare, circa 100 miliardi di dollari all’anno, sono un mare di fronte ai 12,9 miliardi stanziati dall’India, oltretutto per una popolazione quasi 6 volte più grande. Altri Paesi, come il Pakistan, chiedono che questa richiesta indiana non diventi un sussidio all’esportazione di prodotti come il riso, che potrebbero metterne a rischio la produzione, soprattutto del Basmati. Ma aldilà dei rischi, la questione sul tavolo è di primaria importanza. Può esistere la possibilità per un Paese di decidere in libertà cosa è meglio per sostenere il benessere dei propri cittadini e dei propri produttori?
Per Anuradha Talwar, dell’organizzazione indiana di contadini PBKMS, la questione dovrebbe essere un imperativo categorico. “Quello che chiedono i Paesi industrializzati” dichiara al Panel sull’agricoltura organizzato dalla rete internazionale Our World Is Not For Sale, “è inaccettabile. La “peace clause”, cioè sospendere possibili ricorsi contro l’India davanti al DSB per i prossimi quattro anni è un insulto al buon senso. Dobbiamo accettare che l’India si metta a barattare la sicurezza alimentare della propria popolazione con un compromesso temporaneo?”. La questione non è di poco conto, anche perchè stiamo parlando di un Paese che ha “il 47% dei propri bambini malnutriti o sottonutriti”, chiarisce il coordinatore di Right to food campaign – India, Biraj Patnaik.
Quello che succederà non è facile capirlo, ma certamente l’India e la questione del Food Security Act sarà un elemento sostanziale del negoziato. Che non riguarda solo il gigante asiatico, ma ogni Paese di questo mondo sia esso al Sud come al Nord, che potrebbe veder confermata o meno la propria possibilità di decidere del suo destino. Rimettendo al centro la sovranità politica ed alimentare dei Paesi e delle comunità rispetto alle esigenze dei mercati.
E sarebbe un passo avanti strategico nell’opposizione alla globalizzazione del mercato agricolo, aprendo uno spazio politico inaspettato al sostegno ai mercati locali e di prossimità ed alla tanto decantata filiera corta.
L’obiettivo di breve periodo è chiaro. E i modi per raggiungerlo passano anche attraverso alleanze internazionali, come quella proposta dall’indiana Anuradha Talwar al suo corrispettivo pakistano, archiviando dal basso decenni di ostilità latente tra i due Paesi. Ma altrettanto dev’essere chiaro il vero obiettivo politico. “Fuori l’agricoltura dalla Wto, fuori la Wto dall’agricoltura”. Lo ha ricordato Rangarirai Machemedze dal Botswana, membro del coordinamento regionale delle Ong. Perchè analizzare i testi, contestare i tecnicismi, produrre controdocumenti ha un senso. Ma l’obiettivo finale dev’essere svuotare di senso un’organizzazione che ha come obiettivo la liberalizzazione totale dei mercati sulla base degli appetiti e delle esigenze delle élite economiche che contano.
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