Con il reddito di cittadinanza proposto dal governo del “cambiamento”, al di là degli annunci roboanti e delle semplificazioni politiciste dei media, non si cancella la povertà (e nessuno lo pretendeva) ma non nasce certo un nuovo welfare. Si ampliano invece le frammentazioni che da decenni caratterizzano quel che resta del “modello” italiano. L’assistenzialismo digitale e il welfare condizionale sembrano poter aprire una prospettiva che incrementa ogni possibile controllo, una sorta di tolleranza zero della povertà non disciplinata, fino a cedere a una “tentazione penale”, a una sorta di criminalizzazione dei comportamenti irregolari, la differenza può diventare reato: i poveri devono comportarsi “bene” nei consumi e nelle relazioni sociali, perché l’accesso a molti servizi pubblici non è un diritto ma dipende dalla moralità e dal rispetto delle regole. A una persona senza dimora o a una donna sola con una complessa storia di vita non resterà che adeguarsi
di Remo Siza
Con il reddito di cittadinanza non nasce un nuovo welfare, ma più semplicemente si ampliano le frammentazioni che da decenni caratterizzano il welfare italiano. Le notevoli risorse disponibili, l’ampliamento della platea dei beneficiari di una misura di sostegno al reddito sono fatti positivi e possono rappresentare una opportunità importante per ridurre il numero delle persone in condizione di povertà. Il decreto istitutivo presenta, però, approssimazioni e incertezze organizzative non secondarie, criticità dei soggetti ai quali è affidato l’attuazione delle disposizioni, semplificazioni gravi nel rappresentare la condizione di povertà. Malgrado le numerose dichiarazioni pubbliche, il welfare che il reddito di cittadinanza prevede privilegia scelte e indirizzi utilizzati da tempo in molte nazioni europee e che si stanno dimostrando sempre meno efficaci per contrastare condizioni di povertà.
Nei decenni trascorsi, due orientamenti sono risultati prevalenti in Europa. In primo luogo la condizionalità, fondata sul principio che non esistono diritti acquisiti una volta per tutti dalle persone. Il diritto delle persone a ricevere un sostegno economico dipende dal loro comportamento. Le responsabilità diventano individuali e si attribuisce scarsa rilevanza alle più ampie responsabilità sociali derivanti da scelte strutturali, da modelli di sviluppo sempre meno inclusivi.
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Un secondo orientamento molto diffuso è costituito dall’assistenzialismo nell’erogazione delle prestazioni, un orientamento che emerge quando la costruzione di politiche attive o condizionali si è dimostrata non efficace. In alcuni ambiti e in alcune aree territoriali saranno attuate principalmente le disposizioni a carattere assistenzialistico, in altre saranno ribadite rigide prescrizioni al comportamento dei beneficiari e requisiti stringenti per l’accesso alle prestazioni.
Il decreto di istituzione del reddito di cittadinanza ondeggia tra questi due versanti, da una parte rafforza l’assistenzialismo che da sempre ha caratterizzato parti non secondarie del welfare italiano, dall’altra prevede numerose disposizioni che rafforzano il principio di condizionalità che caratterizza i welfare europei più liberisti. Il decreto prevede un sistema di sanzioni e revoche nell’erogazioni dei benefici economici alle persone in condizione di povertà, la possibilità di segnalare attraverso piattaforme dedicate anomalie nei consumi e nei comportamenti, le regole stringenti sull’uso del contante. I beneficiari sono sottoposti a obbligazioni e piccole regole (convocazioni, appuntamenti, colloqui, procedure amministrative non accessibili a tutti) che mettono alla prova il loro senso di responsabilità e il rispetto delle regole. Il comportamento responsabile non è più un obiettivo della relazione di sostegno, ma diventa un requisito di accesso alle misure di aiuto economico.
Assistenzialismo e condizionalità hanno lo stesso punto d’arrivo: quando l’uno e l’altro hanno degli esiti ritenuti non soddisfacenti sono previste forme molto più severe di controllo, in una sorta di tolleranza zero della povertà non disciplinata e dei comportamenti ritenuti moralmente non responsabili.
L’assistenzialismo che il decreto prevede si presenta, comunque, in forme nuove. È un assistenzialismo che non ha legami organici con i gruppi sociali e le associazioni che hanno prodotto l’assistenzialismo nei decenni trascorsi (i gruppi sociali e le associazioni per specifiche patologie o invalidità, gli enti nazionali), e che hanno sollecitato e organizzato le richieste individuali e creato gruppi di pressione efficaci. Il neoassistenzialismo è soprattutto un “assistenzialismo digitale”, che si rapporta, principalmente, agli individui non organizzati che per accedere alle prestazioni si mobilitano senza mediazioni associative, che vivono e operano con destrezza nelle reti di comunicazione digitale, nelle reti sociali virtuali che per anni hanno sostenuto alcuni movimenti politici, si rivolge a persone con inserimenti lavorativi precari e poco retribuiti più che alle povertà croniche. Il neoassistenzialismo risponde alle esigenze di un mercato del lavoro molto flessibile, selettivo, non è espressione di una società statica, tradizionale, ma di una società globalizzata, tecnologicamente avanzata, che nel suo sviluppo esclude più dal mercato del lavoro che dal mondo dei consumi, masse molto numerose di popolazione. A favore di moltitudini di individui si prevedono erogazioni monetarie non sufficienti per superare la loro condizione di deprivazione economica, ma che assicurano un controllo e una rassegnata, e transitoria, integrazione. Il fallimento di frettolose politiche attive costituisce spesso la giustificazione per erogare a loro favore solo politiche passive.
Queste forme di assistenzialismo digitale si affermano anche per la debolezza dei soggetti ai quali è affidata l’attuazione del reddito di cittadinanza: i centri per l’impiego, per le persone occupabili e la rete dei servizi sociali locali, per le persone che necessitano di intensivi interventi sociali. I centri per l’impiego sapranno e potranno avviare politiche attive? Attualmente, i centri per l’impiego sono molto deboli in quasi tutte le regioni italiane, sicuramente la fase di erogazione del contributo economico precederà di molti mesi le previste politiche di attivazione e l’operatività dei tutor. L’Anpal, l’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, calcola in circa un milione e settecento mila i potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza che potranno essere avviati e accompagnati subito al lavoro, pari al 30% del totale, il rimanente 70% dei richiedenti il reddito di cittadinanza si riverserà sui servizi sociali.
La rete dei servizi sociali locali può diventare il luogo in cui si riversano, o si rimpallano, le persone maggiormente problematiche o un’area accogliente per le persone non disponibili a occupare posti di lavoro molto distanti dalla propria residenza. Per queste persone, considerate le risorse disponibili, il rischio è che non si costruiscano percorsi di inclusione sociale efficaci. Difficoltà operative, scarsità di risorse caratterizzanti la rete dei servizi locali in alcune regioni possono condurre a promuovere inclusione sociale con crescente disincanto, come gestione di quote di popolazione alle quali si ritiene che non sia possibile assicurare un’adeguata collocazione sociale, ma solo concessioni assistenziali.
Il modello di riferimento, costantemente richiamato dal testo del decreto e in numerose dichiarazioni pubbliche, rimane, comunque, almeno formalmente, il welfare condizionale che si è affermato in alcune nazioni europee, un welfare fondato sul principio che i diritti a ricevere prestazioni dipendono dai comportamenti responsabili dei beneficiari. Nelle configurazioni di welfare di molte nazioni europee le persone che continuano a comportarsi in modo irresponsabile o hanno comportamenti moralmente riprovevoli, subiscono una limitazione o una perdita dei loro diritti. Il welfare diventa uno strumento per cambiare il comportamento delle persone, non solo per contrastare dipendenze patologiche, abusi, comportamenti violenti, ma anche per sconfiggere ogni passività del beneficiario e ogni buonismo dell’operatore, favorire l’acquisizione di una normalità e una regolarità nella fruizione dei benefici, per acquisire un comportamento disciplinato.
Naturalmente possiamo pensare ad una condizionalità molto differente, fondata su un progetto condiviso che non è finalizzata esclusivamente ad attivare, attraverso sanzioni e revoche, la partecipazione al mercato del lavoro, ma si estende a più sfere di vita e valorizza anche le altre risorse – affettive, relazionali, valoriali – di cui le persone dispongono. Molte esperienze si muovono in questa direzione, valorizzano la qualità sociale delle relazioni di welfare, promuovendo interventi di attivazione finalizzati alla costruzione di legami sociali e di reti di relazione e di sostegno, alla ricostruzione di un’identità, alla progressiva acquisizione del senso di responsabilità, di un equilibrio personale, di una motivazione alla partecipazione attiva al lavoro e alla vita sociale. Ciò che osserviamo in questi anni in Europa, però, è la prevalente trasformazione del welfare attivo in un welfare che utilizza sanzioni e revoche per cambiare il comportamento dei beneficiari, che ritiene possibile sostituire la complessità di ogni relazione di cura. Eppure molte ricerche empiriche hanno evidenziato che questo sistema di sanzioni rischia di promuovere piuttosto che la crescita delle persone, distacchi e allontanamenti dalle relazioni di cura delle persone che presentano maggiori difficoltà e che persistono nell’assumere comportamenti riprovevoli.
Il welfare condizionale, il neoassistenzialismo, hanno frequentemente degli esiti molto precari nel contrasto delle povertà, manifestano tutti i loro limiti nei confronti delle povertà più severe e cronicizzate. Per questi ultimi, in numerose dichiarazioni pubbliche emerge l’esigenza, inevitabile, di accompagnare le erogazioni monetarie con politiche di controllo dei beneficiari maggiormente stringenti. L’assistenzialismo, il welfare condizionale, scivolano così verso una prospettiva che incrementa ogni forma di controllo, una sorta di tolleranza zero della povertà non disciplinata, fino a cedere ad una “tentazione penale”, ad una criminalizzazione cioè di comportamenti semplicemente irregolari, di una differenza che diventa reato: i poveri non devono più assumere comportamenti moralmente riprovevoli nei consumi e nelle relazioni sociali, l’accesso a molti servizi pubblici non è un diritto ma dipende dalla moralità, dal rispetto delle regole e dal senso di responsabilità del beneficiario sia esso una persona senza dimora o una donna sola con una complessa storia di vita.
Remo Siza, sociologo, è autore di numerose pubblicazioni sulle politiche di contrasto delle povertà
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