Dal crocifisso al panino. C’è una similitudine inquietante tra il lungo processo che trent’anni fa ha sancito il diritto a non essere discriminati per i bambini che non si avvalgono dell’insegnamento religioso e quello che oggi consente a tutti di scegliere di mangiare a scuola cibi (non solo panini) preparati altrove invece che quelli delle mense. Allora era in gioco l’imposizione della fede, adesso ci sono 1.860 milioni di euro, che ogni anno finiscono nelle casse comunali, e di lì in gran parte a poche grandi ditte appaltatrici private. Gli arbìtri improntati all’onnipotenza dei dirigenti scolastici, così come le vessazioni verso chi non sceglie il menù “regolare”, sono spesso sconcertanti: dall’invito a mangiare nei ripostigli, sulle scale o contro il muro al rifiuto di lasciar utilizzare le caraffe dell’acqua che usano i compagni. A una bambina genovese che chiedeva perché non potesse mangiare a mensa insieme agli altri anche il pasto preparato a casa, una maestra ha risposto: “Perché se ti vedono, poi lo vogliono portare tutti”. Possiamo ribellarci ai ricatti e ai soprusi con ragionevole fermezza, perfino per via legale. Possiamo chiedere di far mangiare ai bambini, allegramente e tutti insieme, quel che sceglie per loro chi gli vuole bene
di Sabina Calogero
La laicizzazione dell’ora di mensa si estende nelle scuole a macchia di leopardo, lasciando sul campo parecchi feriti gravi, in buona parte minorenni. Diciamo “laicizzazione” (ovvero pari trattamento di bambini che usufruiscono o meno del menù della mensa scolastica), perché incredibilmente simile, nei diversi passaggi, a un altro lunghissimo processo: quello che ha portato dall’obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica (nel 1923) alla sentenza della Corte Costituzionale che ha definitivamente sancito (nel 1989) “il diritto alla non discriminazione” verso chi non si avvale dell’insegnamento religioso.
Per chi ha memoria dei bambini abbandonati a girellare nei corridoi, stigmatizzati da insegnanti e compagni “mentre gli altri fanno religione” (memoria ancora viva per chi aveva figli a scuola negli anni ‘80), la ruota della storia è già tornata al punto di partenza con i nipoti: dal 2016 al 2019, chi “non si vuole avvalere del servizio mensa” ha ripercorso in tre anni, sul piano legislativo (e, peggio, sul piano del maltrattamento dei minori), l’equivalente dei primi 61 anni (1923-1984) sofferti dai “no religione”. Cinque ulteriori anni furono allora necessari (1984-1989) per superare le ultime sabbie mobili del passaggio dal diritto teorico al diritto reale. Non fu comunque sufficiente, perché una serie di sentenze e circolari successive (fino al 2014!) dimostrano come le aree grigie legislative, funzionali agli abusi dirigenziali, ancora per un trentennio abbiano reso possibili pressioni e discriminazioni attraverso ogni sorta di artificio: la Corte di Cassazione (sentenza n.11432) si è pronunciata nel 1997 per impedire che venissero rese obbligatorie anche le ore di insegnamento alternativo (magari scelte fra le materie meno gradite ai ragazzi) e il Consiglio di Stato (n. 02749) nel 2010 è intervenuto per porre fine alla pressione esercitata sulle famiglie attraverso la mancata istituzione dell’ora di alternativa (ovvero: non vuoi fare religione? Vai a prendere il bambino, te lo porti a casa e lo riporti una/due ore dopo: stessa illegittima proposta fatta verbalmente ancora oggi in molte scuole per l’ora di mensa, a chi il servizio mensa non lo vuole).
La religione è affare squisitamente culturale (almeno in prima istanza); il “panino” è questione squisitamente commerciale. In altri termini, se nel primo caso era in gioco la fede, nel secondo ci sono in gioco circa 1.860 milioni di euro, che ogni anno passano dalle tasche delle famiglie in quelle comunali e di lì (con percorsi spesso poco rendicontati) a quelle delle ditte appaltatrici (un pugno delle quali incamerano oltre il 60% della cifra nazionale).
E così come non si è mai stabilito di istituire un’ora “di religioni” che potesse mettere d’accordo tutti, ora non si consente di avere un’ora di “consumo pasti/educazione alimentare” che accolga ogni tipo di preparazione (domestica e non).
La differenza sostanziale, sul piano sociale, è che mentre il genitore che fa a meno dell’insegnamento cattolico da sempre sa di dover condurre una battaglia a pieno campo (spesso anche contro componenti della propria famiglia), la ben più prosaica “battaglia del panino” aggrega in luoghi sicuri (le mura domestiche, i giardinetti, le “sotto-chat” di classe – perché poi ci sono le “chat ufficiali” dove magari il pasto domestico è stigmatizzato a dovere da zelanti rappresentanti di classe) il più ovvio dei consensi sociali: “Il cibo fa schifo, il bambino resta digiuno/pago troppo, voglio portare il pasto da casa” è considerazione semplice e vincente su ogni altra. E pian piano, in questi tre anni, dalla “sentenza valida solo a Torino” di giugno 2016 al Consiglio di Stato del settembre 2018, il “cattivo” è diventato non più il genitore “asociale con il figlio viziato” che “non comprende il ruolo educativo della mensa” (mantra di rappresentanti di classe e lavoratici mensa sui social), ma “quell’infame del preside” (irripetibili gli altri epiteti che centinaia di genitori riservano ai dirigenti, fra chat e social) che reprime oppure ostacola un diritto di scegliere sancito dalla legge.
Preside che sempre più spesso è messo a confronto con i colleghi (magari della stessa città) che senza inventarsi pastoie burocratiche, senza più nascondersi dietro ipocriti “rischi di allergie” – quotidianamente risolti dal servizio mensa, o a merenda, o in gita, con facili procedure – hanno aperto i refettori consentendo ai loro scolari di mangiare allegramente tutti insieme quel che trovano giusto, e di finanziare (o togliere il finanziamento) al produttore di cibo che trovano più consono. Per inciso, notiamo che nel rosario quotidiano di denunce di cibo avariato o corpi estranei delle cronache locali, ogni tanto emerge sottotraccia (mai nei titoli per carità) qualche liason inquietante fra titolari di ditte appaltatrici e mafia (locale, per carità).
Le cifre del conflitto sono impressionanti, e chi raccoglie le richieste di aiuto delle famiglie (i “centralini” del web, gli studi legali) è a conoscenza di vessazioni molto spesso odiose. Hanno fatto ricorso con successo alle vie legali decine di famiglie: a Roma, Torino, Milano, Napoli, Ferrara, Cagliari, Benevento, Casciana Terme, Fiumicino, Lucca, Cerveteri, Portogruaro, Guidonia, San Cesareo, Ardea, Nichelino, Terni, Albano Laziale…
Fra le storie raccolte: dirigenti che minacciano i genitori di segnalarli al tribunale dei minori, con l’accusa di “abbandono di minore” se si rifiutavano di portarli a casa a pranzo (Napoli, Torino, Genova), bambini lasciati senza acqua a tavola perché le brocche erano della ditta (Venezia), privati dell’intervallo (vari comuni) o addirittura del coro della scuola (Milano), bambini che mangiano da due anni in macchina con la mamma (Sardegna), sulle scale della scuola (Roma), lasciati digiunare in mensa e costretti a mangiare da soli in classe (Genova), in un ripostiglio (Toscana) o in un altro stabile (Cerveteri); nastro isolante a righe gialle/nere a circondare l’unico banchetto contro il muro, dedicato al “pasto da casa”, mostrato all’open day della scuola (Genova).
A fronte delle decine di cause legali, centinaia di casi affondano nella rinuncia: le famiglie il più delle volte tremano di fronte alla prospettiva di avere il bambino discriminato (“mangerà in un tavolo a parte in mensa, ma separato dalla sua classe, signora”) o maltrattato (“scenderà in refettorio e guarderà gli altri mangiare, poi mangerà da solo mentre gli altri fanno l’intervallo”. Senza neanche aggiungere “… signora”). Non bastasse, ecco il repertorio dirigenziale per innescare il conflitto fra famiglie: “Per poter consentire il pasto da casa ad alcuni, sarebbe necessario avere personale educativo aggiuntivo – (falso) – e quindi si dovrà togliere a tutti qualche ora… per esempio, teatro, musica, pittura, o le gite” (segnalazioni da Torino, Genova, Milano). Notevole anche il ruolo dei “vicepresidi”, che spesso hanno anche un ruolo di insegnanti: quando una famiglia è disposta ad uno scontro col dirigente, può crollare di fronte al “vice”, che poi sarà (o è) insegnante del figlio. In ultima analisi, è grazie all’opera quotidiana e capillare di migliaia di funzionari statali (i dirigenti scolastici) che vengono garantiti gli enormi introiti della ristorazione ex-pubblica, da qualche decennio ormai affidata a privati.
La Garante Nazionale dell’Infanzia, Filomena Albano, più volte sollecitata, non è mai intervenuta sul tema. Grandi e sacrosante proteste, invece, per il caso dei bambini stranieri esclusi dalla mensa di Lodi: ma la via d’uscita in quel caso è stata una raccolta fondi per riempire le casse del comune lombardo, caso ben diverso dalla concessione a non avvalersi del servizio per propria decisione.
E come si muove l’apparato statale? Non sembra cogliere la portata della crepa (insanabile, quando si arriva a vertenze legali) del cosiddetto “patto scuola famiglia”: l’orientamento pare quello di mantenere la rotta di collisione. Esemplare su tutti il caso di Torino: la città (7 euro e rotti a pasto, 33% di disdette del servizio) dalla quale è partita la valanga quasi tre anni fa, al rinnovo dell’appalto si è vista spedire il bando direttamente all’ANAC (un’iniziativa della Rete Commissioni Mensa Nazionale, insieme al legale di Caro Mensa Torino) per evidente rinuncia a richiedere il miglioramento qualitativo prescritto dalla legge. A Pescara (oltre 300 bambini ricoverati all’ospedale nel maggio scorso, per un formaggio avariato prodotto da una ditta non registrata fra i fornitori) il Comune ha pochi giorni fa sospeso i controlli dei genitori (auto-organizzati in assenza delle Commissioni Mensa). Con malori a raffica in Campania e frequenti al Sud (ma accade anche al Nord: a Novara 14 bambini dell’asilo all’ospedale, e 50 a delle medie a Cividale, proprio mentre scriviamo queste righe), la linea più praticata dai Comuni è quella di sbarrare l’accesso alle commissioni mensa; quella delle scuole, delegare a maestre e rappresentanti il compito di negare i disservizi; mentre i nuovi Criteri Minimi Ambientali (CAM), che stabiliranno le minime caratteristiche qualitative di cibo e servizi nelle mense italiane almeno per i prossimi 3 anni, sono ancora sotto il tiro delle lobby della ristorazione.
Il Consiglio di Stato si è espresso legittimando il consumo del pasto domestico nei refettori (ma senza scolpire nettamente i limiti di discrezionalità dirigenziali); si attende a breve il parere dalla Cassazione (comunque meno dirimente): nel frattempo la prospettiva pare essere la guerra di trincea, forse di lungo periodo, fra famiglie e dirigenti.
Una fotografia finale – e un’analisi politica – la può forse fornire la geografia di Genova, città metropolitana lunga 30 km (dal ricco levante al più popolare ponente). Le scuole del levante hanno da mesi consentito ai pargoli delle famiglie più abbienti e potenzialmente combattive il pasto domestico; niente di nuovo, invece, sul fronte occidentale: a una bambina che chiedeva perché non potesse mangiare in mensa con gli altri il pasto da casa, la maestra ha risposto: “Perché se ti vedono, poi lo vogliono portare tutti”.
Lascia un commento