Sappiamo tutti che alla base della scelta inglese sulla Brexit ci sono degli egoismi. Meno si parla delle ragioni che quegli egoismi hanno rimesso in moto, come l’avversione verso l’ondata migratoria che ha investito la Gran Bretagna nell’ultimo decennio: dal 2009 al 2017 si è registrato l’arrivo di 2,3 milioni di nuovi stranieri, 1,5 milioni dei quali provenienti dall’Unione Europea. Ma un popolo abituato da oltre un secolo a convivere con un gran numero di immigrati provenienti da ogni parte del mondo non diventa xenofobo all’improvviso. La Gran Bretagna deve chiedersi come ha fatto a rendere la propria situazione interna così fragile, considerato che, pur appartenendo all’Ue, ha sempre conservato notevole autonomia in virtù della moneta propria. Londra sa che l’origine della sua attuale fragilità va ricercata nella malagestione bancaria al di qua e al di là del Canale della Manica. Da parte sua, l’Ue deve decidere che fare: se continuare a privilegiare i mercati col rischio di perdere altri popoli o privilegiare i cittadini ridimensionando i mercati. Non è una scelta ideologica ma una questione di sopravvivenza
Votando per Boris Johnson, gli inglesi hanno definitivamente suggellato la loro volontà di abbandonare l’Unione Europea. E il candidato vincente lo ha confermato nel suo primo discorso post elettorale pronunciando la frase destinata a rimanere nella storia: «Now let’s get Brexit done, ora facciamo la Brexit». Ma i tempi sono incerti. Di sicuro si sa che l’uscita ufficiale avverrà il 31 gennaio 2020 con un trattato che transitoriamente mantiene tutto immutato in attesa che venga firmato un successivo accordo che definisca le nuove regole su cui si baseranno i futuri rapporti fra Gran Bretagna e Unione Europea.
Il cronoprogramma indica il 31 dicembre 2020 come data per la firma del nuovo trattato, ma le trattative su temi così complessi si sa quando iniziano, mai quando finiscono. Per cui attendiamoci pure tempi lunghi durante i quali gli sherpa delle due parti saranno impegnati in un silenzioso e paziente lavoro per raggiungere un accordo considerato soddisfacente sia al di là che al di qua della Manica. Ma l’Unione Europea commetterebbe un grave errore se si concentrasse solo sull’attività diplomatica. Se contemporaneamente non avvia un processo di riflessione su se stessa, la Brexit potrebbe rivelarsi solo la prima crepa di un processo di disgregazione molto più vasto che potrebbe avere come esito finale il ridimensionamento se non la scomparsa dell’Unione Europea.
Lo diventa solo quando nuovi elementi di contesto rendono la situazione così difficile, da fare avvertire gli immigrati non più come dei bisognosi da accogliere o come nuove persone che possono contribuire al rafforzamento della propria casa, ma come degli usurpatori che pretendono di trovare riparo sotto un tetto ormai così mal messo da non riuscire a dare copertura neanche agli abitanti originari. Allora scatta la xenofobia che però non è figlia del cattivismo, ma dell’insicurezza. Dunque se vogliamo contrastare i nazionalismi è dell’insicurezza che dobbiamo occuparci con due distinti compiti: uno a carico del paese ospitante, l’altro a carico dei paesi con emorragia migratoria. Che nel caso specifico chiamano in causa da una parte la Gran Bretagna, dall’altra l’Unione Europea. Infatti il grosso dei migranti che nell’ultimo decennio ha attraversato la Manica lo ha fatto con un passaporto dell’Unione.
Nella maggior parte dei casi le analisi sulla Brexit si sono limitati alla denuncia degli egoismi che stanno alla base di una tale scelta. Ciò che invece non abbiamo fatto, o non lo abbiamo fatto abbastanza, è tentare di capire perché gli egoismi si siano rimessi in moto. Sappiamo che uno dei moventi della Brexit è il sentimento di avversione verso l’ondata migratoria che ha investito la Gran Bretagna nell’ultimo decennio. Ma un popolo abituato da oltre un secolo a convivere con un gran numero di immigrati provenienti da ogni parte del mondo, non diventa xenofobo all’improvviso.
La Gran Bretagna deve chiedersi come ha fatto a rendere la propria situazione interna così fragile, sapendo che pur appartenendo all’Unione Europea ha sempre conservato una buona dose di autonomia in virtù della moneta propria. Londra sa che l’origine della sua attuale fragilità va ricercata nella malagestione bancaria, non solo quella di oltre Atlantico, ma anche di casa propria, considerato che l’azzardo portò alla crisi di colossi bancari come Northern Rock, Royal Bank of Scotland, lo stesso Lloyds. Secondo un rapporto della House of Commons, dal 2007 al 2009 il governo britannico ha speso 107 miliardi di sterline per nazionalizzare o ricapitalizzare le banche inglesi sull’orlo del precipizio. Ed anche se buona parte di quei soldi oggi sono rientrati, l’operazione ha comunque avuto effetti pesanti sulla spesa pubblica inglese. Basti dire che lo stesso Boris Johnson ha inserito il potenziamento del servizio sanitario nazionale fra i punti qualificanti del suo futuro governo.
Ma oltre ai tagli alla spesa pubblica vanno considerati gli effetti sull’occupazione provocati dalla recessione globale. Via via che l’economia si contraeva, migliaia di lavoratori britannici perdevano il lavoro mentre le imprese smettevano di assumere. Alla fine del 2011 in Gran Bretagna quasi tre milioni di persone erano in cerca di lavoro, l’8,3% della forza lavoro. Solo nel 2015 la disoccupazione tornò al 4,3%, gli stessi livelli del 1995. Tutto sommato la tempesta fu di breve durata ma lasciò segni profondi nel corpo del popolo inglese che a fronte di tanta disoccupazione vedeva crescere l’immigrazione dal resto d’Europa. Dal 2009 al 2017 la Gran Bretagna ha registrato l’arrivo di 2,3 milioni di nuovi stranieri di cui 1,5 provenienti dall’Unione Europea. Ed è a questo punto che la palla passa nel campo dell’UE, che deve chiedersi come ha fatto a mettere in moto una emorragia migratoria tanto vasta. Bruxelles sa che la risposta sta nelle politiche di gestione dei debiti sovrani.
Fatta la scelta di non lasciare agli stati dell’eurozona altra possibilità di finanziamento dei propri deficit se non rivolgendosi ai mercati, la priorità dell’Unione è diventata quella di assicurarsi la fiducia degli investitori. E siccome la fiducia si conquista dimostrando di sapere essere debitori affidabili, gli stati dell’eurozona si sono dati come obiettivo il rigore finanziario finalizzato al servizio del debito. Le inevitabili conseguenze sono state tagli all’istruzione, alle spese sociali, alla sanità, alle pensioni con aggravamento della recessione in atto che al contrario avrebbe richiesto politiche di rilancio pubblico. Così i paesi più deboli dell’eurozona hanno visto crescere povertà e disoccupazione, con inevitabile aumento dell’emigrazione che si è abbattuta sui paesi a maggior resilienza, fra cui la Gran Bretagna. Ma a un certo punto gli inglesi hanno manifestato crisi di rigetto e per dichiarare, una volta per tutte, la propria indisponibilità a continuare a fare da ammortizzatori delle politiche di Bruxelles e Francoforte, nel 2016 hanno optato per la Brexit.
Su latte versato è inutile piangere, ma ora l’Unione Europea deve decidere che fare: se continuare a privilegiare i mercati col rischio di perdere altri popoli o se privilegiare i cittadini ridimensionando i mercati. La scelta potrebbe sembrare ideologica, in realtà è una questione di sopravvivenza. Se l’Europa vuole avere futuro deve farsi amare dai cittadini e per farsi amare deve dimostrare di lavorare per loro con strumenti adeguati. Primo fra tutti dotandosi di una moneta comune gestita secondo logiche di servizio ai governi affinché possano perseguire la piena occupazione e la promozione dei servizi pubblici senza impantanarsi in debiti impagabili scaricati sui più deboli e sulle generazioni future. Keynes ce l’aveva già insegnato quasi un secolo fa. Ma la sua visione era di un’economia al servizio della persona.
Articolo pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire
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