In Romagna e poi in Emilia, come in altre regioni italiane o negli Stati Uniti dopo gli ultimi uragani, e ancor più in molti altri Paesi del mondo, con tanta più efficacia quanto più sono poveri, si sono formate delle squadre e delle reti di mutuo soccorso che tendono a farsi permanenti con il ripetersi degli eventi estremi. Di fronte alla crisi climatica e alle devastazioni ambientali accumulate nel tempo, l’intervento sulle cause del riscaldamento globale infatti non basta, scrive Guido Viale, occorre intrecciarlo con l’adattamento, cioè con la capacità di creare le condizioni della convivenza con un ambiente molto più ostico. Serve un modo nuovo di occuparsi del territorio. Ovviamente occorrono anche interventi di portata generale, ma è solo nel locale che possono essere importanti
In ritirata di fronte all’evidenza dei fatti, il negazionismo climatico e ambientale torna con forza alla ribalta ovunque, favorito dall’inerzia, dalla pochezza o dall’opportunismo dei governi e delle élite di quasi tutto il mondo. Un contesto in cui il governo italiano sguazza. Ma se – dicono – l’Italia concorre solo per lo 0,7 per cento alle emissioni climalteranti globali, che senso ha adoperarsi tanto per ridurle, perdendo competitività, se altri non lo fanno per niente o con il dovuto impegno?
Di fronte alla crisi climatica la competitività è un concetto da abbandonare. In questo ambito serve la cooperazione: tutti devono fare la loro parte. Nemmeno i maggiori emettitori di gas di serra potrebbero imporre da soli una svolta significativa alla crisi climatica senza il concorso della maggior parte degli altri Paesi.
Ormai è chiaro che non si riuscirà a mantenere la temperatura globale al di sotto del +1,5 C° rispetto all’epoca preindustriale e nemmeno “ben al di sotto” dei +2 C°, come auspicato dagli accordi di Parigi (CoP 26, 2015), anche se non è ancora chiaro qual è il punto di non ritorno, oltre il quale qualsiasi tentativo di fermare il deterioramento del clima sarà vano. In questo lasso di tempo la mitigazione (intervenire sulle cause del riscaldamento globale) dovrà fare la sua parte, ma sempre più intrecciata con l’adattamento, cioè creare le condizioni della convivenza con un ambiente molto più ostico.
Occorre dunque attrezzarsi per vivere in un mondo non solo senza combustibili fossili, ma con meno energia disponibile, meno acqua, e discontinua, meno colture, meno allevamenti e meno alimenti (o con alimenti molto diversi); con un’interruzione frequente delle forniture di beni, attrezzature, materie prime e semilavorati anche essenziali, come si è già sperimentato durante e dopo il covid; con case, strade, impianti e posti di lavoro periodicamente distrutti, come durante e dopo un’alluvione, un grande incendio o un terremoto e con molte parti del territorio diventate impraticabili. È ciò che ci aspetta mano a mano che gli eventi estremi si faranno più frequenti e più intensi. Ma è anche ciò di cui oggi nessuno vuol sentir parlare: dai politici all’uomo della strada, dai giornalisti agli scrittori e agli accademici.
In un contesto del genere l’ambito operativo principale è necessariamente locale, mentre i grandi disegni di geoingegneria, oggi contrabbandati per adattamento – non a condizioni più ostiche dell’ambiente, ma al businnes as usual dei fossili – dalla cattura e sequestro del carbonio alla fertilizzazione degli oceani o alla schermatura dell’atmosfera, quand’anche praticabili sono carichi di rischi.
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Adattamento significa allora riduzione dei consumi energetici e materiali superflui, recupero integrale di scarti e prodotti dismessi, copertura del fabbisogno energetico con fonti rinnovabili, riassetto idrogeologico e rinaturalizzazione del territorio, agricoltura e allevamenti di prossimità e alimentazione conseguente, trasporto pubblico flessibile, reti urbane facilmente riparabili, sostegno al reddito e ricollocazione di chi rimane senza lavoro (cose da fare non mancheranno certo). E squadre di intervento sempre pronte per ogni evenienza con il coinvolgimento di tutta la popolazione. Per ottenerlo occorre promuovere, creare e consolidare relazioni personali e dirette, “fare comunità”.
Ma chi si può far carico di tutto questo? Dalle attuali classi dirigenti politiche e imprenditoriali non c’è nulla da aspettarsi. Ma in Romagna, e poi in Emilia, come in altre regioni italiane, o negli Stati Uniti dopo gli ultimi uragani, e ancor più in molti altri Paesi del mondo, con tanta più efficacia quanto più sono poveri, si sono formate delle squadre e delle reti di mutuo soccorso che tendono a farsi permanenti con il ripetersi degli eventi estremi. La solidarietà diventa un fattore formidabile di adattamento al contesto. È questo, insieme alle aggregazioni che si formano intorno alle lotte contro la chiusura di una fabbrica o una Grande Opera devastante, il nucleo elementare di una nuova governance del territorio, intorno alla quale può crescere una rete di comitati, associazioni ed enti impegnati nella ridefinizione delle politiche locali, fino al coinvolgimento dei livelli amministrativi. Certo l’ambito locale non basta: occorre arrivare alla formulazione di progetti, programmi, rivendicazioni e proposte di respiro e portata generali, ma la possibilità di imporle ricade esclusivamente sull’iniziativa locale.
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Inviato anche a Pressenza
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