C’è stata una distruzione della memoria di tale portata che «noi vecchi», memorie viventi, come nel caso degli indigeni non possiamo morire senza aver fatto sentire la nostra voce, il ricordo di «ciò che è stato» e che potrebbe, se «rifunzionalizzato», per dirla con Alfredo Lopez Austin, ritornare vitale. È il tempo delle alleanze tra nipoti e nonni. Forza nonni! Con queste parole Jean Robert concludeva una bella intervista di Gianluca Carmosino uscita su Comune nel 2012. Jean Robert ci ha lasciato in questi giorni, ma la sua memoria, di inestimabile valore, vivrà ancora molto a lungo. Probabilmente, almeno un giorno in più del sistema che ci domina e che Robert ha saputo criticare con una passione e una lucidità che hanno davvero pochi eguali. Qui sotto, riproponiamo un suo testo illuminante sull’apertura del concetto di territorialità. Usata nei villaggi messicani di Morelos, Oaxaca o del Chiapas, la parola territorialità diventa il simbolo di ciò che Michel Foucault chiamava l’insurrezione dei saperi calpestati. Cessando di essere monopolizzata dal mondo accademico, essa diventa strumento di una critica locale, e quindi pertinente, portatrice del sapere storico di lotte particolari. Usata da contadini e indigeni, la parola territorialità è il segno di un ritorno di saperi, che erano stati calpestati o negati, sulla relazione fra il microcosmo di una comunità e il pezzetto di universo in cui la storia l’ha radicata. Il testo che segue è tratto dall’introduzione dell’autore a un libro molto bello e molto importante. Si chiama “Crisi, la rapina impunita. Come evitare che il rimedio sia peggiore del male” ed esce in questi giorni in libreria per Hermatena ma i lettori di “Comune” possono richiederlo a prezzo scontato (vedi sotto). Lo ha scritto Jean Robert, architetto svizzero migrato a Cuernavaca, Messico, nel 1972. Robert è stato tra i più vicini e intensi collaboratori di Ivan Illich, con il quale ha scritto diversi saggi brevi e il libro “Autostop” sulla guerra degli automobilisti contro i pedoni
di Jean Robert
Dire: poveri dignitosi e padroni dei propri mezzi di sussistenza, equivale a dire: poveri che sono padroni dei propri territori. Equivale anche a dire: gente del mondo che sta in basso che è capace di sopportare la crisi e di sopravvivere alla nuova normalità perché la sua sussistenza non dipende totalmente dalla produzione capitalistica e dalle sue reti di distribuzione delle merci parzialmente commestibili che la gente di città deve comprare nei supermercati. In molte parti del Messico, i contadini cominciano a usare un nuovo concetto per differenziare la povertà dignitosa dalla miseria. È il concetto di territorialità. Questo termine è ovviamente utilizzato dalle scienze del mondo che sta in alto, in particolare dalla geografia. Ma, fuori dagli ambienti accademici, la gente gli sta dando un significato totalmente nuovo, il più delle volte senza sapere che sta inventando un potente concetto analitico per parlare in termini nuovi di una vecchia realtà.
Questa realtà, difficile da rinchiudere in una terminologia scientifica, ha a che vedere con la coltivazione, la cultura, le consuetudini e anche l’ospitalità, e certamente con la sussistenza, una parola screditata dal cattivo uso che ne hanno fatto i linguisti e gli studiosi del mondo che sta in alto. Usata nei villaggi di Morelos, di Oaxaca o del Chiapas, la parola territorialità diventa il simbolo di ciò che Michel Foucault chiamava l’insurrezione dei saperi calpestati. Cessando di essere monopolizzata dal mondo accademico, la parola diventa strumento di una critica locale, e quindi pertinente, portatrice del sapere storico di lotte particolari. Usata da contadini e da indigeni, la parola territorialità è il segno di un ritorno di saperi, che erano stati calpestati o negati, sulla relazione fra il microcosmo di una comunità e il pezzetto di universo in cui la storia l’ha radicata. Nello stesso modo in cui cambia il sapore dell’acqua quando si oltrepassa uno spartiacque, così il contenuto della territorialità cambia da una valle all’altra.
Come metteva in evidenza Gustavo Esteva, la rivendicazione della territorialità va molto al di là della rivendicazione della terra. Un singolo contadino ha bisogno di terra se vuol continuare a seminare. Una comunità ha bisogno di un territorio con le sue acque, i suoi boschi e le sue sterpaglie, con i suoi orizzonti e la sua peculiare percezione di ciò che è ‘nostro’ e di ciò che è ‘altrui’, cioè dei suoi limiti, dei suoi confini e delle sue soglie, ma anche con le orme dei suoi morti, con le sue tradizioni inimitabili e il suo senso unico di ciò che è la ‘buona vita’, con le sue feste, il suo modo di parlare, le sue lingue o le sue espressioni particolari, e persino con il suo modo di camminare. La sua cosmovisione. La territorialità non è una nuova forma di sciovinismo, non è un invito a rinchiudersi in un santuario di tradizioni pure e inamovibili, e ancor meno a ‘ghettizzarsi’ timorosamente, come fanno quelli che stanno in alto nelle loro fortezze di campagna e nelle loro residenze con piscine e campi da tennis, o quelli del ceto medio rannicchiati nei loro condomini, casermoni o campi di concentramento per ricchi decaduti o per poveri che cercano di andare all’assalto della piramide sociale.
Coloro che disegnano queste residenze di campagna cinte da mura, questi ghetti della classe media e questi campi di concentramento per burocrati e operai meritevoli, coloro che frazionano la campagna e coloro che poi vi abitano, che lo vogliano o no, sono tutti regine, alfieri, cavalli o pedoni di una spietata contesa territoriale. La territorialità rifiuta la logica di questa guerra. È radicamento, attaccamento al suolo e alla terra nutrice, rispetto delle tradizioni e capacità di trasformarle in maniera tradizionale. È capacità di sussistenza nonostante gli assalti del mercato capitalistico. È riflessione critica dal basso sul ‘qui ed ora’. L’imposizione dall’alto di residenze disegnate per rimanere estranee al luogo che occuperanno e costruite dopo che le ruspe avranno cancellato tutte le tracce di vite passate, sono l’esatto contrario della territorialità. Oggi questo contrario della territorialità si chiama sviluppo urbano e si insegna nelle università come disegno architettonico.
Le guerre territoriali moderne non dicono il proprio nome. Si nascondono dietro ad eufemismi: il già citato disegno urbano, l’urbanistica, la pianificazione, con le sue mappe urbane violate e i suoi regolamenti anti-costituzionali. Questa guerra territoriale si manifesta anche nei servizi di trasporto, acqua, sanità, educazione e tempo libero che si estendono come tentacoli a partire dai centri urbani: trasporti per la migrazione verso la città, tubature per impadronirsi dell’acqua delle nostre sorgenti, scuole per estraniare i figli dai loro genitori, club di golf, lotterie istantanee che sono casinò mascherati, alberghi dove le stanze si affittano a ore, voraci centri commerciali. Il disegno urbano si è trasformato in una sorta di ‘taglia e brucia’ il cui strumento è la ruspa. Ciò che poi si costruisce nello spazio vuoto lasciato dalle macchine si assomiglia in tutto il mondo: da Acámbaro a Chen-Chen, da Bangalore alla Silicon Valley. I frutti della territorialità invece si distinguono, in ogni luogo particolare, per la loro profonda compenetrazione con lo spirito di un luogo unico.
La guerra contro la sussistenza
Il ‘partito’ dell’anti-territorialità cambia il colore della sua camicia secondo gli interessi del momento, ma la guerra che conduce ha un nome ben preciso. Si chiama guerra contro la sussistenza. Da quando è iniziata, più o meno cinquecento anni or sono, ha avuto varie manifestazioni, ma il risultato è sempre stato la devastazione dei territori da cui la gente traeva la propria sussistenza, ieri come oggi. Guerra di gente che sta in alto contro gente che sta in basso, guerra di gente a cavallo contro gente a piedi, e oggi, ad esempio, di automobilisti contro pedoni.
Che cosa ha a che vedere la territorialità con la crisi? In primo luogo, il fatto storico che da almeno cinque secoli la guerra contro la sussistenza è stata una guerra di devastazione dei territori da cui la gente che sta in basso traeva la propria sussistenza. In secondo luogo, il grandissimo pericolo che le politiche di salvataggio dell’economia assomiglino sempre più alle politiche di sviluppo delle infrastrutture dei trasporti, che usurpano aree di marciapiede e altri spazi pedonali per sistemare più macchine nelle strade. Poi la grande minaccia che le politiche di salvataggio, recupero e normalizzazione dell’economia usurpino ambiti di sussistenza per costruire al loro posto supermercati e lucrosi complessi residenziali o, in ossequio al sogno degli economisti di professione, il mercato perfetto in cui tutti gli atti di sussistenza saranno ridotti a transazioni economiche formali, generatrici di entrate in denaro e soggette a imposta.
Se non siamo vigilanti, se abbassiamo la guardia, i sogni degli economisti possono generare mostruosità sociali ancora sconosciute. Non mancherà chi farà l’elogio di questi mostri come prova della ‘creatività del capitalismo’. L’autore di queste pagine dissente da ogni elogio del capitalismo che, secondo lui, non è un soggetto o un’entità che manipola e trasforma le società dal di fuori, ma è la forma della spietata guerra contro la sussistenza che caratterizza i tempi moderni. La sua espansione avviene sempre a spese di territori, saperi e capacità di sussistenza. Ci sono ad esempio segnali sempre più frequenti di una guerra sporca contro modalità di sopravvivenza finora tollerate ai margini della società: sopravvivere vendendo fiori per le strade, lavando parabrezza, rovistando fra i rifiuti, costruendosi la propria casa.
Concetti per andare oltre l’economia
Nella «Guida bibliografica» che conclude il suo saggio sul «lavoro ombra» (Illich, 1985 [1981]), Ivan Illich scriveva: “L’era moderna è una guerra senza tregua che da cinque secoli si conduce per distruggere le condizioni del contesto della sussistenza e sostituirle con merci prodotte nel quadro del nuovo Stato-nazione. In questa guerra contro le culture popolari e le loro strutture, lo Stato è stato aiutato dai chierici delle varie chiese, e poi dagli esperti e dalle loro procedure istituzionali.”
Nel corso di questa guerra, le culture popolari e gli ambiti vernacolari (aree di sussistenza) sono stati devastati a tutti i livelli. Ma la storia moderna di questa guerra (dal punto di vista degli sconfitti) non è ancora stata scritta. Se non vogliamo rischiare di accettare passivamente la distruzione dei territori di sussistenza, dei legami sociali, delle culture e della natura sotto l’urto di una nuova impennata di crescita economica, è assolutamente necessario reimpostare la questione del referente reale dei discorsi economici. Parte della cortina di fumo dietro a cui si nasconde la scienza chiamata economia, definita là in alto come «teoria dell’assegnazione di mezzi limitati a fini alternativi» (si legga: illimitati) o come «osservazione di fenomeni di formazione di valore sotto la pressione della scarsità», emana dalla confusione sapientemente mantenuta fra l’economia e la sussistenza. Intendetemi bene: la menzogna secondo cui la sussistenza (il ‘paniere’, l’ottenimento dei mezzi di sopravvivenza) è l’oggetto della scienza economica genera quella confusione che è il segreto del suo potere.
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DA LEGGERE
La rivoluzione dei poveri è cominciata
intervista a Jean Robert di Gianluca Carmosino
Anni di lavaggio del cervello chiamato «sviluppo» hanno convinto milioni di persone del sud del mondo di essere solo salariati miserabili, inetti o sfortunati. Ora quei miserabili hanno cominciato a rifiutare lo sviluppo con cambiamenti radicali, prodotti di azioni che mirano a obiettivi limitati
Virginia Benvenuti dice
In merito al concetto di sussistenza, Marshall Sahlins nel suo libro provocatoriamente intitolato “L’economia dell’età della pietra”, ripreso anche da Pierre Clastres in “Anarchia selvaggia”, dimostra – dati alla mano, anche recenti – come le cosiddette società primitive non sono affatto società della sussistenza in cui si riesce a malapena ad assicurare la sopravvivenza dei suoi membri, bensì sono le prime società dell’abbondanza. Analizzando diverse popolazioni tanto di agricoltori che di cacciatori, dimostra come bastassero 3-4 ore di lavoro al giorno, inframmezzato da frequenti pause per riposarsi e che neanche coinvolge la totalità del gruppo, per riuscire ad assicurarsi e auto prodursi tutto il necessario. Se quindi, in tempi brevi e a bassa intensità di lavoro, riesce ad assicurare la soddisfazione di tutti i bisogni materiali dei suoi membri, la “macchina produttiva primitiva” opera al di sotto delle sue capacità oggettive e che quindi, se lo volesse, potrebbe produrre surplus. Se quindi non lo fanno è perché non vogliono. E perché non vogliono? Per due motivi: uno interno ed uno esterno. Quello interno: non essendoci divisione di classi e ruoli all’interno della comunità, la produzione è autoproduzione da parte di ogni suo membro; produrre surplus, pertanto, significherebbe autosfruttamento. Motivo esterno: Clastres dimostra come le comunità primitive aspirano alla completa autonomia della produzione e del consumo perché ciò assicura il loro ideale di indipendenza politica e quindi di libertà, che consentono l’unità della comunità. La maggior parte degli scambi che avvengono tra gruppi diversi, avvengono per stabilire relazioni e non per bisogno.
In sostanza, quindi, le società primitive, basate sul concetto di territorialità, sono società affatto povere: sono società dell’abbondanza, del tempo libero, della libertà…. esattamente quelle promesse che il capitalismo fa ma che non riesce assolutamente a mantenere, distruggendo invece quei modelli economici alternativi che da sempre riuscivano ad assicurarle…
Davide dice
Grazie di questo bellissimo commento!
Sahlins fa una critica poetica e profonda al concetto di scarsità, mostrando come esso derivi da un rapporto tra mezzi – disponibili per fini alternativi – limitati e bisogni illimitati. Nel mondo dell’ “originaria società opulenta” non esiste scarsità, semplicemente perché la definizione dei bisogni è stabile, controllata culturalmente, commisurata ai mezzi. L’aborigeno non desidera il troppo. è aperto alla speranza più che alle aspettative.
“Si può ricavare dai cacciatori esistenti questa grande lezione: il “problema economico” è facilmente risolvibile con tecniche paleolitiche. Del resto, fu soltanto quando si avvicinò all’apice delle sue conquiste materiali che la cultura (occidentale) eresse un altare all’Inaccessibile: L’infinità dei bisogni”
(Marshall Sahlins, L’originaria società opulenta, in Economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano 1980, p.51)