di Massimo Angelini*
Le fasce, i nostri terrazzamenti, non sono solo un elemento del paesaggio, un decoro dei monti per lo sguardo deliziato di chi non ne sa la fatica, ma molto, molto di più. Nascevano per ricavare terra coltivabile su pendenze talvolta prossime allo strapiombo; nascevano per fermarla quella terra, destinata a scivolare a valle dopo ogni pioggia; nascevano per dare sollievo ai contadini che altrimenti ogni anno quella terra dilavata l‘avrebbero dovuta sollevare in alto a furia di ceste, cuffa dopo cuffa, loro come Sisifo raccontato nel mito greco e condannato per sempre a riportare in cima al monte le pietre che fatalmente di nuovo sarebbero rotolate a valle; nascevano tra i muretti fatti con le pietre trovate sul posto o camallate dal fondo valle per essere posate, l’una sull’altra, a secco e con sapienza, in un fare bene e con maestria che non poteva conoscere alternativa; nascevano per cavare pane dalle pietre. Se si potessero allineare uno accanto all’altro, i muretti a secco della Liguria farebbero impallidire la grande muraglia cinese e racconterebbero un’impresa di ingegneria ambientale che non conosce uguali, e ancora oggi, pur nel parziale e progrediente abbandono, testimoniano un genio che non è secondo a quello dei costruttori delle grandi piramidi.
Le fasce toglievano spazio al selvatico, lo addomesticavano e non è raro che, sul loro confine estremo, ancora si possa riconoscere una piccola croce incisa verso il lato del selvatico, del bosco, del gerbido, dell’incolto, forse in funzione protettiva come le figure guardiane che si scolpivano sul fronte della casa.
Altro che decoro o bellezza fine a sé stessa: nelle fasce c’è la storia di un’economia fondata sulla penuria delle risorse, di un’agricoltura strappata a una terra magra dove solo poche decine di centimetri sotto sono già scheletro e roccia, di pura necessità tradotta in virtù e divenuta invisibile, oggi che la miseria ha preso la forma dell’abbondanza e della bulimia di oggetti, c’è una storia di fede fatta di piccole croci e percorsi rogazionali, c’è una storia scritta con inchiostri di matrice umana come lo sono il sangue, le lacrime, il sudore. Ma erano anche laboratorio di saperi: ricordo che negli anni Ottanta, Attilio, in un borgo dell’alta val Trebbia, mi raccontava di avere scoperto che i cavoli messi sull’orlo delle fasce venivano più grossi: eh già… se non volevano cadere dovevano rinforzarsi! Ed eccoli spiegati l’adattamento evolutivo e la selezione naturale da chi di Darwin non aveva mai sentito parlare.
In Liguria, nel mondo contadino, chi vuole onorare i morti non ha bisogno di andare al cimitero, dove sono solo povere ossa e anche meno, ma gli basta guardarsi intorno, sui fianchi delle montagne, i vecchi sono lì in tutta quell’immensa fatica, nelle montagne tradotte in scalinate come se potessero servire ai giganti per salire in cielo; sono lì nelle pietra spaccate e ricomposte a furia di braccia, preghiere e bestemmie. I morti sono lì, in un manufatto unico come la terra di Liguria, solcato da milioni di rughe, un manufatto che queste generazioni stanno mandando in malora, incapaci di capirlo se non come valore estetico, paesaggistico, astratto, buono per lo sguardo deliziato di chi non ne sa la fatica.
Bellissimo articolo. Oltre alla “storia di un’economia fondata sulla penuria delle risorse, di un’agricoltura strappata a una terra magra”, oggi la cura e ricostruzione possono rappresentare uno stimolo nuovo per tanti territori . Muri che uniscono, che preservano il territorio.
Bellissimo articolo, colmo di non poca poesia.