Quella che segue è una breve memoria scritta il 16 dicembre 2011 da Anna Maria Piemonte (insegnante di storia dell’arte), rivolta ai numerosi studenti del laboratorio “La memoria nostra amica fragile”, promosso nel liceo artistico “Via di Ripetta” di Roma. Una memoria scaturita da un incontro con Piero Terracina e dalla riflessione fatta insieme a lui su alcuni brani di Primo Levi.
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In uno dei nostri ultimi incontri e precisamente lo scorso 1 novembre, Piero Terracina mi ha dato il suo libro sull’opera completa di Primo Levi. Era appena ritornato a Roma dopo l’ennesimo viaggio ad Auschwitz-Birkenau fatto con Walter Veltroni e un gruppo di parlamentari. Molte delle pagine del volume erano chiosate. Sottolineavano con un segno nero e calcato di matita le parole di Primo Levi che aveva fatto proprie e che lo avevano particolarmente colpito evocando in lui pensieri, riflessioni, memorie. Parole che, in qualche modo, raccontavano una storia di cui lui stesso era stato tragicamente parte. Attraverso me, desiderava condividere queste parole anche con voi. Ho ritenuto dunque utile trascriverle prima del nostro prossimo incontro con Piero e portare le vostre/nostre riflessioni su queste pagine, lucide, potenti, attuali, pensando anche a Piero e ai nostri due incontri con la sua testimonianza lo scorso 20 maggio al Nuovo Cinema Aquila e il 26 ottobre al Teatro Golden, per ricordare la deportazione degli Ebrei romani del 16 Ottobre 1943.
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Quello che fu chiamato l’universo concentrazionario, nella Germania nazista e nei paesi occupati e alleati, non era affatto un fenomeno marginale e accessorio, ma l’essenza stessa del fascismo, il suo coronamento, la sua realizzazione ultima e definitiva.
(Primo Levi, Un passato che credevamo non dovesse ritornare mai più, in Opere a cura di Marco Belpoliti, Voll. I-II, Einaudi Editore, Torino 1997, pp.1184-1185)
Eppure, raccontare dobbiamo: è un dovere verso i compagni che non sono tornati, ed è un compito che conferisce un senso alla nostra sopravvivenza (…) Il fascismo italiano, primogenito in Europa e sotto molti aspetti pionieristico, sulla base originale di una repressione relativamente poco sanguinosa ha eretto un colossale edificio di mistificazione e di frode (chi ha studiato in anni fascisti ne conserva un bruciante ricordo) i cui effetti durano tuttora.
Il nazionalsocialismo, ricco dell’esperienza italiana, nutrito di lontani fermenti barbarici, e catalizzato dalla personalità infera di Adolf Hitler, ha puntato sulla violenza fin dal principio, ha riscoperto nel campo di concentramento, vecchia istituzione schiavista, un “instrumentum regni” dotato del potenziale terroristico che si desiderava, ed ha proceduto su questa via con incredibile rapidità e coerenza.
I fatti sono (o dovrebbero essere9 noti. i primi Lager frettolosamente approntati dalle SA subito, fin dal marzo 1933, tre mesi dopo l’ascesa di Hitler al Cancellierato; la loro “regolarizzazione” e moltiplicazione, fino a cento e più alla vigilia della guerra; la loro mostruosa crescita, in numero ed in misura, in coincidenza con l’invasione tedesca della Polonia e della fascia occidentale dell’Urss, che contengono “le sorgenti biologiche del giudaismo”.
A partire da questi mesi, i Lager cambiano natura: da strumenti di terrore e di intimidazione politica diventano “mulini da ossa”, strumenti di sterminio sulla scala dei milioni (quattro solo ad Auschwitz), e vengono organizzati industrialmente, con impianti di intossicazione collettiva e forni crematori grandi come cattedrali (fino a 24.000 cadaveri bruciati al giorno solo ad Auschwitz, capitale dell’impero concentrazionario); poi in correlazione coi primi rovesci militari tedeschi e con la conseguente scarsità di mano d’opera, ha luogo una seconda trasformazione, in cui, al fine ultimo (mai disconosciuto) dello sterminio degli avversari politici si affianca e convince il fine della costituzione di un gigantesco esercito di schiavi, non retribuiti e costretti a lavorare fino alla morte.
(…) il fascismo è un cancro che prolifera rapidamente, e un ritorno ci minaccia: è troppo chiedere che ci si opponga agli inizi?
(Primo Levi, Così fu Auschwitz, in Opere a cura di Marco Belpoliti, Voll. I-II, Einaudi Editore, Torino 1997, pp. 1190-1193)
Cromo
Ma io ero ritornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti dei miei amici, ed una donna che mi stava nel cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigene, a voce e per iscritto, tanto che a poco a poco ne nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare uomo, uno come tutti, né martire né infame né santo, uno di quelli che si fanno una famiglia, e guardano al futuro anziché al passato.
(Primo Levi, Il sistema periodico, in Opere a cura di Marco Belpoliti, Voll. I-II, Einaudi Editore, Torino 1997, pp. 870-871)
Ferro
E infine, e fondamentalmente: lui, ragazzo onesto ed aperto, non sentiva il puzzo delle verità fasciste che ammorbava il cielo, non percepiva come un’ignominia che ad un uomo pensante venisse richiesto di credere senza pensare? (Primo Levi, Il sistema periodico, in Opere a cura di Marco Belpoliti, Voll. I-II, Einaudi Editore, Torino 1997p. 765)
Argento
È naufrago chi parte ed affonda, chi si propone una meta, non la raggiunge e ne soffre.
(Primo Levi, Il sistema periodico, in Opere a cura di Marco Belpoliti, Voll. I-II, Einaudi Editore, Torino 1997 pp. 912-913)
Oro
Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni, e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata (….) Ci parlavano di sconosciuti: Gramsci, Salvemini, Gobetti, i Rosselli: chi erano? Esisteva dunque una seconda storia, una storia parallela a quella che il liceo ci aveva somministrata dall’alto?
(Primo Levi, Il sistema periodico, in Opere a cura di Marco Belpoliti, Voll. I-II, Einaudi Editore, Torino 1997 p. 851)
Zinco
Sulle dispense stava scritto un dettaglio che alla prima lettura mi era sfuggito, e cioè che il così tenero e delicato zinco, così arrendevole davanti agli acidi, che se ne fanno un solo boccone, si comporta invece in modo assai diverso quando è molto puro: allora resiste ostinatamente all’attacco. Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l’elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l’elogio dell’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, com’è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il divero, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale. Ma neppure la virtù immacolata esiste, o se esiste è detestabile.
(Primo Levi, Il sistema periodico, in Opere a cura di Marco Belpoliti, Voll. I-II, Einaudi Editore, Torino 1997 p. 768)
Vanadio
Del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può, (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo (…) Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti e gli inermi spianano loro la strada; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz, non è più lecito essere inermi.
(Primo Levi, Il sistema periodico, pp. 932-933)
Anna Maria Piemonte dice
Grazie Gianluca Carmosino e a Comune-Info per aver condiviso la mia esperienza, ho le lacrime agli occhi. Ricordo, come fosse ora, quella mattina con Piero, a parlare nella sua cucina in attesa che cuocesse il cibo che stavamo preparando per il pranzo.
Eravamo soli, il nostro parlare sommesso, a tratti commosso ma determinato. L’esperienza del lager di sterminio doveva essere raccontata ai ragazzi ma con le parole più giuste, non disperse nei particolari degli orrori e delle crudeltà accadute ad Auschwitz-Birkenau che mai sarebbero bastate per raccontarne l’inferno bensì ancorandole alla Storia, a partire dall’antisemitismo, dal razzismo coloniale dello Stato fascista, alla fascistizzazione della scuola, alla costruzione del consenso e all’eliminazione di ogni dissenso, fino alle Leggi razziali del 1938. Così Piero fu cacciato dalla scuola, umiliato, discriminato, fino alla razzia del Ghetto di Roma del 16 Ottobre del 1943, alla quale riuscì a sfuggire con la sua famiglia ma non alle pagine più oscure delle persecuzioni e delle deportazioni che lo condussero nel campo di sterminio. Ecco, dunque, la necessità di trovare le parole per il racconto. Primo Levi le aveva già trovate per tutti, voce testimoniale alla quale tutti i sopravvissuti si erano affidati. Ma, ora, non bastava più, a quella di Levi dovevano affiancarsi quelle dei tanti perseguitati e deportati che di quell’inferno erano state le vittime.
La potenza delle parole di Piero e la generosità delle sue testimonianze, il dono delle sue lacrime sono patrimonio dell’umanità, per me un privilegio averle ascoltate e un dono la sua amicizia che ha arricchito la mia vita.
Gianluca Carmosino, redazione di Comune dice
Grazie a te Anna Maria, ci sono ponti da costruire tra generazioni, storie, emozioni e punti di vista che scavano in profondità, di cui abbiamo tutti sempre più bisogno. Ecco, il tuo modo di fare scuola e di raccontare l’arte serve prima di tutto a costruire ponti. Non smettere.