La delusione è tanta ma il futuro non è ancora scritto. Le parole del ricercatore italiano Lorenzo Feltrin riassumono bene la situazione attuale della Tunisia. La delusione è quella, tremenda, che segue a una normalizzazione politica indecente e travestita da “democrazia” per continuare a tradire le grandi speranze sollevate con la rivoluzione del 2011. Il fatto che il futuro non sia affatto scontato lo dicono, mese dopo mese, le lotte sociali, tenaci e spesso al limite della disperazione, che continuano a esplodere nelle regioni periferiche. Da Kasserine a Sidi Bouzid, da Gafsa alle banlieues di Tunisi, fino alle ultime importanti azioni dirette di Tataouine contro il petrolio, simbolo dell’arricchimento dei soliti noti e del colonialismo interno. La repressione resta durissima, il livello della corruzione è forse perfino superiore a quello dei tempi della dittatura, crescono imperterrite l’arroganza e la sordità dei governi, ma la rivolta, soprattutto giovanile, rinasce puntuale, alimentata com’è da un desiderio di giustizia e di dignità che nessuno sembra poter riuscire a mettere a tacere
di Patrizia Mancini
Si chiamava Anouar Sokrafi, aveva 21 anni ed è morto a Tataouine, schiacciato da un veicolo della Guardia Nazionale. Un altro manifestante è ricoverato in gravissime condizioni, colpito da lacrimogeni. E’ così che il governo ha lanciato la sua escalation in questa zona dell’estremo sud della Tunisia, in cui la popolazione da settimane è in continua mobilitazione per chiedere decentralizzazione, redistribuzione delle risorse (previste dalla Costituzione “più avanzata del mondo arabo”) e lavoro.
La sede della Guardia nazionale è stata poi assalita e saccheggiata.
Non era accaduto nulla finora, i sit in erano continuati a Kamour, ai confini del Sahara, dove l’esercito, inviato a proteggere i siti di produzione di petrolio, dopo alcuni tiri in aria per dissuadere i manifestanti, aveva finito col ritirarsi, astenendosi dalla benché minima prova di forza. La stazione di pompaggio era tornata nelle mani dei giovani che avevano chiuso i rubinetti.
“Chiudiamo l’accesso alla corruzione tramite la quale una certa élite si arricchisce alle nostre spalle sulla nostra terra”.
A ciò si risponde con l’accusare chi protesta di essere manipolato dai partiti dell’opposizione, evocando persino l’infiltrazione terroristica (La Libia è vicina…). Sono il metodo e la prassi del “colonialismo interno” che considera immaturi e pericolosi i subalterni quando prendono coscienza dei meccanismi di esclusione sociale ed economica che li mantengono nell’indigenza.
A ciò si risponde con la provocazione e la repressione che non faranno altro che alzare il livello dello scontro, invelenendo una situazione già drammatica ed esplosiva.
Questa escalation è responsabilità del governo composto dall’alleanza spuria di Nidaa Tounes (“laici”, “modernisti”, liberisti) e di Ennahda (islamisti, conservatori, liberisti).
È responsabilità anche di tutti i governi che si sono succeduti dopo la rivoluzione che, con stolida perseveranza, hanno continuato a non ascoltare il paese profondo, le popolazioni più marginalizzate (quante volte lo abbiamo scritto!). Col perseguire la politica del ”copia e incolla” dei vecchi schemi economici e politici hanno sprofondato il paese nella sfiducia più totale nelle istituzioni e nel governo.
A ciò va ad innestarsi una corruzione pervasiva, tenace, che coinvolge ogni ganglio dell’amministrazione e dell’imprenditoria, molto più che all’epoca di Ben Alì e che impoverisce il paese, soffocando qualunque spinta o visione innovativa. Una corruzione che è andata sempre più “democratizzandosi”, secondo l’azzeccata espressione utilizzata nell’ultimo rapporto redatto dall’International Crisis Group.
La non trasparenza nelle transazioni finanziarie esemplificata dal fatto che i due principali partiti di governo si siano trovati d’accordo nel NON pubblicare i contratti con le società di estrazione del petrolio nella Jort (l’equivalente delle nostra Gazzetta Ufficiale) non è passata inosservata.
Allo stesso modo il discorso scomposto e senile del Presidente della Repubblica Beji Caid Essebsi, con il rilancio del progetto di legge per la riconciliazione economica e finanziaria è apparso una insopportabile provocazione anche a Tataouine.
Scrive Dorra Harrar in un memorabile pezzo apparso ieri nel blog collettivo Nawaat:
“ I poveri di questo paese sono cambiati. Ingrati, non assolvono più al loro dovere di poveri. Ormai rifiutano di essere al servizio di una minoranza di ricconi senza immaginazione, e dei loro arroganti intermediari travestiti da politici, i quali svendono slogan a cui nessuno crede più”.
Torna a muoversi anche la capitale dove una manifestazione spontanea dei movimenti a cui ha aderito il Fronte Popolare (sinistra all’opposizione in parlamento) ha radunato ieri centinaia di persone sull’Avenue Bourghiba. Con un processo simile ai giorni precedenti la cacciata di Ben Alì: prima si muovono le regioni emarginate, poi la protesta raggiunge le città.
Come ha scritto il ricercatore Lorenzo Feltrin
“Nel gennaio 2011, la gioventù precaria ha incontrato una forma-stato dittatoriale cristallizzata in una sclerotica rigidità istituzionale, e l’ha abbattuta grazie alla generalizzazione delle proteste ad altri settori della popolazione. Ma il sollevamento non ha potuto invertire il trend globale verso la ri-precarizzazione e il rallentamento della crescita economica che lo ha seguito ha peggiorato la situazione. Blocchi dei treni di fosfato a Gafsa, copertoni che bruciano nelle campagne di Sidi Bouzid, presidi nella sede del governatorato della frontaliera Kasserine, cassonetti a fuoco nelle banlieues di Tunisi, occupazioni di oasi a Kebili…Molte delle pratiche e delle rivendicazioni emerse nel 2008 ed esplose nel 2011 continuano a tenere in vita le aspirazioni alla dignità e alla giustizia della tentata rivoluzione. Le delusioni degli ultimi anni sono state amare. Ma il futuro non è scritto”.
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