“Bisognerebbe forse, oggi, frequentare e fidarsi solo di chi sta per davvero a disagio in un mondo e in un tempo come questi”: lo scrive Goffredo Fofi nel libro L’oppio del popolo (elèuthera), nel quale ragiona su come oggi sia prima di tutto la cultura lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, “farci accettare l’inaccettabile”, favorire il dominio del mercato. Quando scuola, università, chiese, stampa, cinema, tv, radio, internet ma anche il tempo libero sono in mano a coloro che sono in alto l’illusione di pensare con la propria testa è diffusa. “È proprio in tempi brutti come quelli in cui ci hanno precipitato, e proprio perché temiamo che possano essere gli ultimi o i penultimi – scrive Fofi nel libro (di cui pubblichiamo ampi stralci di un capitolo) -, che bisogna, più fermamente e più convinti che mai, dichiarare la nostra non-accettazione, cercando di trovare in quest’azione coloro che sentono come noi, e aiutando gli altri a sentire l’urgenza delle scelte più attive…”
La vergogna…
Scrivo di vergogna, ma scrivo anche perché mi vergogno. Fa bene ogni tanto rileggere qualcosa di Kafka o, più indietro, di Dostoevskij. Di psicoanalisi so il poco che sanno tutti, ma anche Freud ha insistito come loro su un sentimento profondamente umano che attraversa le loro opere, se per umano intendiamo la sensibilità nei confronti dei mali del mondo e della miseria dell’uomo, e ha cercato di affrontarlo per liberarne almeno i singoli, non so con quanta convinzione. Parlo del senso di colpa, che penetra nei nostri sogni e incubi e ci fa sentire a disagio di fronte alle tragedie quotidiane, alle guerre e alle violenze, alle disparità economiche e sociali, alle sofferenze di masse di persone, ma anche alla nostra incapacità o non-volontà, singola o di tanti, di riuscire a far qualcosa per combatterle, alla nostra incapacità o impotenza nel reagire, o peggio, alla sensazione di essere volenti o nolenti complici di così tanta ingiustizia. Certi personaggi di Kafka e di Dostoevskij vorrebbero essere «innocenti di tutto», anche di cose che non dipendono certamente da loro e che accadono al di fuori della loro volontà, ma che, per il fatto che ci sono e per il fatto che noi non si fa niente affinché smettano di esserci, ci fanno vergognare di noi stessi, della nostra impotenza. Che sappiamo bene contenere una buona dose di viltà, perché è anche mancanza di «buona volontà». Sì, il singolo può far poco, nella pessima società in cui ci siamo ritrovati a dover vivere (dopo anni in cui ci era sembrato possibile sperare in un mondo migliore, lottare per un mondo migliore), ma il fatto è che il singolo individuo, ciascuno di noi, io, sempre o quasi sempre ha smesso di cercare, ha smesso di tentare di far qualcosa che possa spezzare anche in minima parte questa impotenza, questo cerchio infernale. Ed è aiutato da tutto un sistema culturale e mediatico e politico a non vergognarsene, anzi a gloriarsene, a vantarsi del proprio egoismo, della propria supinità verso questo stato di cose, della propria miseria umana e morale, della propria rinuncia ad aspirare a dare un significato alla propria esistenza, della propria bassezza. Senso di colpa e vergogna per come va il mondo e per la nostra incapacità di reagire dovrebbero essere un dato di fatto collettivo, di massa. Ma sembrano scomparsi dall’orizzonte culturale in cui ci muoviamo, avvertiti da pochissimi tra i filosofi, gli artisti, i politici, quando invece erano il portato cosciente di un disagio che poteva ben trasformarsi in una tensione positiva, nella spinta a reagire, ad agire. Bisognerebbe forse, oggi, frequentare e fidarsi solo di chi sta per davvero a disagio in un mondo e in un tempo come questi, e che dimostra il suo starci male, e che cerca i modi, individuali e di gruppo, per vergognarsi di meno.
Il problema degli stupidi…
Carte in tavola: sono un pessimista, persino un catastrofista, tentato, se non fosse per le persuasioni che alcuni miei maestri mi hanno trasferito in passato, perfino dal nichilismo e in particolare dalla sfiducia nella mia intelligenza e nella mia capacità di trasferire ad altri le mie paure affinché sappiano contrastare meglio di quanto io non sia mai riuscito a fare l’immane male della Storia (e della Natura, nonostante essa sia prodiga più di doni che di minacce). Rileggo spesso La ginestra, la mia poesia (il mio trattato filosofico) preferita, e vedo nelle illusioni denunciate dal poeta le stesse oggi dichiarate o sbandierate: la fiducia nei «lumi» del progresso e della tecnica (e il feticismo dello sviluppo, caro alla nostra sinistra e causa della sua morte), la fiducia dei credenti in un bene superiore e in una ricompensa del «ben fare» in questo o in altro mondo (assai forte nei cattolici che parlano volentieri di resurrezione e dimenticano la croce). Della tentazione del nichilismo ci si difende solo con un atto di sfida: quello di Gesù che rifiuta di condividere col diavolo – padrone del mondo – le sue ricchezze passando dalla sua parte, ma che è anche il gesto di sfida di tutti i buoni rivoluzionari di ieri e di sempre, è il «non accetto», per esempio, di Capitini ma anche, prima di lui, di migliaia di altri, su fino a Marx ed Engels, Gandhi e Tolstoj, Lu Hsun e Mao, Malatesta e Gramsci, Guevara e Freire, Malcolm X e Martin Luther King, Pasternak e Camus, Lumumba e Mandela, don Milani e l’attuale (destinato a perdere) papa, e di tutti i noti e ignoti, colti e incolti, forti o deboli nell’agire ma coscienti della indispensabilità del farlo, «uomini in rivolta» indignati dall’ingiustizia sociale ma anche, in qualche modo, come avrebbe detto Anna Maria Ortese, dalla constatazione di quanto sia «tarata» la creazione, e di quanto essa debba venir continuamente ripresa in mano dalla creatura più intelligente e più ambigua sorta dalla sua evoluzione, dal «caso» e dalla «necessità». Mi vergogno a rubar la voce ai filosofi e agli scienziati, ma so bene che farlo è obbligo di tutti, che per il fatto di vivere e avere avuto il dono dell’intelligenza, non è filosofo solo chi ritiene di esserlo ma lo è ogni nato al mondo, che prima o poi si trova per forza a dover ragionare sul senso del suo esserci e starci, e per mia immensa fortuna ho conosciuto tanti analfabeti più intelligenti e profondi, e talvolta più radicalmente angosciati dalle domande senza risposta, dei milioni di laureati e diplomati che hanno ricevuto dalle lotte dei primi il privilegio di poter studiare per farne nient’altro che chiacchiera o carriera. Non sono mai stato così pessimista come oggi sulle sorti del mondo e, in particolare, del mio paese. Scrivo queste pagine con apprensione, convinto della loro inutilità, per dovere di testimonianza e nella speranza di convincere qualche giovane lettore della gravità della situazione che stiamo attraversando e della ignobiltà delle proposte che gli adulti gli vanno facendo, chiedendogli di diffidare anche dei miei discorsi, che possono sembrare e in parte probabilmente sono il frutto di un’esasperazione personale, visto che si è in pochi a condividerla.
Sia primavera o sia autunno, sia estate o sia inverno, le preoccupazioni dei miei connazionali mi sembra siano quelle di «pensare ad altro», di non pensare. Tra una spiaggia e una città d’arte, godendo la sera, dopo una cena «genuina», uno spettacolo di piazza o la presentazione di un libro o la visione di un film all’interno di uno dei mille, dei diecimila festival e rassegne che ogni giorno e ogni notte volenterose associazioni e generosi enti locali hanno organizzato per loro, aggiornandosi, per non essere fuori moda, sulle trasmissioni radiofoniche e televisive o sulla lettura delle pagine culturali dei grandi giornali sopravvissuti, sull’incessante chiacchiericcio di un’infinità di laureati che si sentono in massa autorizzati a farlo. Tutto viene assorbito e digerito da questo infinito parlare scrivere filmare recitare disegnare, da questa fiera delle vanità che aiuta a digerire ogni male (finché è altrui), a tollerare o condividere gli infiniti modi in cui la stupidità umana prevale sull’intelligenza, il non-pensiero sul pensiero anche quando si presenta come pensiero, anche quando a dirci cosa siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando sono guru e soloni il cui scopo è quello di farsi belli e di sentirsi o diventare importanti perché essi «sanno» (fingono di sapere) tutto su tutto, e dispongono delle ricette salvifiche che dovrebbero renderci felici, e rendere il pianeta un nuovo eden per tutti, l’uomo al centro, erede e padrone dell’universo. Che ci aiutano a farci accettare l’inaccettabile, tollerare l’intollerabile, dimenticare la realtà – e i mali che riguardano sempre gli altri, finché, prima o poi, non coinvolgeranno anche noi. E se la cultura, in tutte le sue forme non radicali, che non guardano all’origine dei mali e non ne cercano il rimedio, non fosse altro, oggi, che lo strumento privilegiato del dominio, lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, per farci accettare l’inaccettabile?
Il problema degli stupidi: da Bonhöffer a Brancati…
Cito qui due autori estremamente differenti tra loro. Il primo è il teologo protestante Dietrich Bonhöffer, impiccato da Hitler perché coinvolto nell’attentato del 20 luglio 1944. Nel suo ultimo testo – passato clandestinamente fuori dal carcere e intitolato La vita responsabile. Dieci anni dopo (ora in Lettere e scritti dal carcere, San Paolo edizioni, 2015, nella limpida traduzione di un giovane teologo scomparso ancor giovane, Alberto Gallas, di cui sono stato felicemente amico) – diceva che il problema maggiore del nostro tempo è il problema degli stupidi. Ecco due citazioni significative: «Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’auto-distruzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese» (p. 49); «La qualità è il nemico più potente di ogni massificazione» (p. 63).
Gli stupidi a cui pensava Bonhöffer «dieci anni dopo» – dieci anni dopo il legale avvento di Hitler al potere, frutto di libere elezioni, e questa dovrebbe essere una lezione per i fanatici della legalità – erano anzitutto i suoi connazionali, accecati dal nazismo e dalla sua propaganda. La stupidità si esalta di sé nel gridarsi, nel mostrarsi. All’opposto, la fatica della qualità comporta, diceva Bonhöffer, «saper gioire di una vita nascosta e avere il coraggio di una vita pubblica». Comporta la fatica di pensare con la propria testa e la fatica di imparare a «leggere» la realtà che ci circonda. […]
L’altro autore è Vitaliano Brancati, di cui nessuno parla più, e che è stato un grande moralista moderno, e non solo un grande scrittore. Scrisse un testo in cui diceva che il problema dei politici era di occuparsi dei derelitti – chiamando derelitti gli oppressi di vario tipo. La politica ha come scopo quello di risolvere il problema dei derelitti, diceva; di far star bene la gente, i contadini e gli operai ma soprattutto i morti di fame, gli ultimi, gli oppressi. Lo scopo della cultura è invece quello di pensare agli stupidi, di aiutare gli stupidi a diventare intelligenti, a liberarsi della stupidità. Oggi, in modo maggioritario e imponente, sia la politica che la cultura sono fatte da stupidi, ed è questo a rendere così difficile operare in direzione contraria. Pensate ai nostri governanti e ai nostri dirigenti politici, ma pensate anche ai nostri intellettuali famosi […].
Diceva però Bonhöffer che bisognava stare attenti a non cadere nella tentazione del disprezzo per gli stupidi, perché se ci guardiamo allo specchio dobbiamo pur constatare di essere anche noi, in buona parte, degli stupidi. Di conseguenza, si tratta di liberare noi nel momento in cui cerchiamo di liberare gli altri; di svegliarci noi nel modo in cui cerchiamo di svegliare gli altri. E questo implica un forte strappo, un’auto-analisi radicale.
E oggi: i cretini intelligenti…
Fu Leonardo Sciascia a coniare, molti anni fa, la definizione di «cretini intelligenti» che sembrò valida per tanti intellettuali o aspiranti tali o sedicenti tali o banalmente tali (per collocazione professionale). […] Anche se non faceva nomi, Sciascia aveva certamente in mente persone precise, ma le vedeva come punte di un iceberg, vedeva alle loro spalle una categoria, una massa. Oggi potremmo essere più precisi parlando di «cretini laureati», ma non solo. L’ostilità di Sciascia a questi saccenti ignoranti […] è decisamente attuale, è più attuale che mai. E ha molto a che fare, io credo, con la definizione di «stupidità» coniata da Bonhöffer, che parlava pensando a una dittatura, ma sembrava già prevedere una democrazia, diciamo così, totalitaria, dove non c’era più bisogno, per governare, del manganello fascista o nazista e dove invece sarebbero stati sufficienti, in regimi di relativo benessere, i mezzi di comunicazione di massa.
[…] La parola «comunicazione» è stata una parola prima santa poi ambigua e poi nefasta, quando la comunicazione delle conoscenze e delle idee e delle esperienze non è più servita a liberare le coscienze ma a condizionarle, quando gli analfabeti sono fortunatamente scomparsi ma gli alfabetizzati vecchi e nuovi si sono trovati rapidamente succubi di una cultura raramente elaborata da qualcuno che li amasse. Era importante che sapessero adeguarsi alle nuove leggi della produzione e poi, soprattutto, del mercato. […] La comunicazione a senso unico e dall’alto al basso è uno strumento di governo essenziale, e anzi è quello essenziale, in quelle che ci si ostina a chiamare ancora col nome di democrazie (non riuscendo sociologi e politologi – o non volendo – inventarne un altro adeguato alla loro involuzione e trasformazione). […] Si governa, nelle «democrazie», con la manipolazione delle coscienze, avendo a disposizione pressoché tutto ciò che può servire a farlo: la scuola d’ogni ordine e grado e in primis l’università, molto spesso la chiesa e le chiese, la stampa, il cinema, la televisione, la radio, l’editoria, lo sport e il tempo libero, Ryanair e il turismo, e, per quel che riguarda i più mentalmente fragili, internet, i blog, i social, che più di ogni altro mezzo hanno come fine di illudere gli utenti, per l’appunto, di star pensando con la propria testa, nel mentre che si pensano idee e perfino si vivono sentimenti che hanno ben poco di autonomo. Ci siamo lasciati trasformare in robot di ossa e di carne, ma con sempre meno cervello e sempre meno cuore. Riflessi condizionati, teleguidati come nei più lucidi romanzi di previsione di Dick, di Ballard, di Sheckley… Cani di Pavlov, pronti ad azzannare il prossimo e felici di farsi del male da sé.
Sto esagerando? Non credo proprio, avendo visto il lento progresso di questa mutazione e ben sapendo quanto l’attrazione del conformismo – e dell’adagiarsi nel presente cercandovi nicchie non disturbate – sia enorme in ogni generazione di giovani (compresa, per quel che mi riguarda, quella assolutamente non idealizzabile del ’68). […] È assodato d’altronde che il pensare e il capire (non il sentire) sono appartenuti storicamente piuttosto a minoranze che a maggioranze, e che soltanto dall’incontro tra chi sapeva e chi soffriva – per esempio, nelle rivoluzioni, dall’incontro «tra intellettuali e oppressi» – poteva nascere il nuovo: l’aspirazione al giusto e al vero, e perfino al bello, e la lotta per la sua realizzazione. Quel che c’è di nuovo è che ora le minoranze hanno di fronte, e sempre di più lo avranno, un nemico più insidioso che mai, cioè la massa dei «cretini intelligenti» nella cui schiera anche noi, per questo o quell’aspetto, ci siamo trovati a tratti ed è possibile che ci ritroveremo ancora a far parte, un rischio quotidiano che corrono maggiormente coloro che si fanno prigionieri delle mode e del loro ammaliante successo: ambiziosi di figurare in qualcosa, ricattati dalla paura della diversità e della solitudine. Non essere «cretini» è più faticoso che mai, essere «intelligenti» è più difficile che mai […].
Ma davvero non c’è più niente da fare?…
Ecco una domanda angosciosa, che mi viene di pormi dopo aver letto e ascoltato tanti intellettuali e artisti italiani, e discusso con loro. Nei più intelligenti e stimabili, nei più esigenti e coerenti, è diffusa una convinzione che essi dichiarano oggi serenamente, come un dato di fatto irreversibile, incontrovertibile. Il mondo è arrivato a pochi passi dalla fine, essi pensano, e ogni tentativo di azione, ogni possibilità di riuscire a cambiare il corso delle cose, è inane, è superfluo, non serve a niente. […]
Sì, forse il mondo è del male, forse l’umanità non vuol saperne del libero arbitrio e della difficoltà che comporta lo scegliere l’altra parte, la parte del bene? Ma questo a noi non piace e non l’accettiamo, a questo stato di cose diciamo di no operando nella direzione contraria, nella direzione del bene. Agli intellettuali tranquillamente pessimisti che rinunciano a ogni lotta per far cambiare direzione alla storia fermandone l’orrore, o quantomeno per contrastarla per quel poco che si può, mi viene da rispondere con le parole di Aldo Capitini: mi dicono che il pesce grande mangerà sempre il pesce piccolo, che ci saranno sempre la malattia e la morte, l’ingiustizia e l’esclusione, la violenza e la guerra, ma una realtà come questa non va accettata, e bisogna fare tutto quel che si può per cambiarla, con quei mezzi che non ne perpetuino le logiche. È proprio in tempi brutti come quelli in cui ci hanno precipitato, e proprio perché temiamo che possano essere gli ultimi o i penultimi, che bisogna – più fermamente e più convinti che mai – dichiarare la nostra non-accettazione, cercando di trovare in quest’azione coloro che sentono come noi, e aiutando gli altri a sentire l’urgenza delle scelte più attive.
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LEGGI ANCHE: Ribellarsi alla cultura oppio del popolo (L. Guadagnucci)
Marina dice
Sono tristemente d’accordo con queste parole, quasi vorrei che gli ultimi, gli emarginati, quelli che la civilta’ dei “cretini” non vuole vedere diventino maggioranza e con il loro impegno si possa risalire a galla dal profondo dolore del presente
paola dice
Questo materiale, come tutti gli altri che raccogliete e generosamente ci mettete a disposizione, sono aria pulita vitale per menti e corpi