Sono anni che i migranti vengono stigmatizzati come criminali. I sostenitori di alternative alla guerra in Ucraina come difensori di Putin. Le azioni dirette contro l’immobilità dei governi di fronte alla catastrofe climatica come eco-idiozie. Oggi le voci che denunciano gli orrori dei bombardamenti israeliani a Gaza sono bollate come prese di posizione in difesa del terrorismo. La stigmatizzazione, per dirla con Foucault, è il meccanismo disciplinare con cui si vuole imporre una norma dell’ordine delle cose. Lo stigma, scrive Massimo De Angelis, è radicato nella paura, è un meccanismo di circolazione della paura. Qualsiasi stigmatizzazione demonizza il dissenso ma impedisce anche la possibilità di riprendere in mano la nostra vita di ogni giorno, le forme di cooperazione, la costruzione del comune
L’abbiamo visto per anni attorno alla questione dei migranti. L’abbiamo visto per la guerra in Ucraina e lo stiamo vedendo con la protesta climatica, e ora con la questione palestinese: cercano in tutti i modi di chiudere gli spazi di produzione di un pensiero collettivo diverso e di una sensibilità incongruente con la norma di regime su problematiche cruciali della vita.
Sono anni che i migranti sono stigmatizzati come criminali così come pratiche virtuose (ad esempio quelle adottate a Riace) sono state stigmatizzate da accuse rivelatesi infondate. Fin dall’inizio, i sostenitori di alternative alla guerra in Ucraina sono stati bollati come difensori di Putin. Le azioni dirette non violente contro l’immobilità dei governi di fronte alla catastrofe climatica sono raccontate come eco-idiozie che deturpano i monumenti (anche solo per qualche ora) e rallentano la circolazione. Le voci che denunciano gli orrori dei bombardamenti israeliani sulla popolazione civile a Gaza, e che rimettono al centro la questione palestinese come fondamentale per la costruzione della pace, sono ora stigmatizzate come prese di posizione in difesa del terrorismo. E poi ci sono le stigmatizzazioni trasversali, nelle quali le stigmatizzazioni di voci critiche in un ambito, si prestano ad amplificare la stigmatizzazione in un altro ambito. Per esempio, Arye Sharuz Shalicar, portavoce dell’esercito israeliano, ha detto a Politico.eu: “Chiunque si identifichi con Greta in qualsiasi modo in futuro, a mio avviso, è un sostenitore del terrorismo…”. Ecco dato il ben servito alla giustizia climatica da parte di una forza che nel suo complesso ha intensificato e perpetrato l’ingiustizia sociale in Palestina da più di settant’anni.
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La stigmatizzazione è parte di un meccanismo disciplinare diffuso nella società, un meccanismo che Foucault definiva “fabbrica dell’etica”, e che ha per oggetto la difesa o la preservazione a tutti i costi di un norma dell’ordine delle cose corrente, la sua interiorizzazione. La norma qui è intesa molto convenzionalmente come un insieme di regole, comportamenti o standard accettati e condivisi da un gruppo di individui all’interno di una società o di una comunità. Queste norme definiscono ciò che è considerato appropriato, accettabile o desiderabile in determinate situazioni o contesti sociali, regolando il comportamento per mantenere l’ordine sociale e le sue gerarchie.
Michael Foucault ha enfatizzato come queste norme non siano semplicemente regole oggettive, ma piuttosto elementi di dispositivi di potere che possono influenzare la vita di ogni giorno delle persone. Le norme sono prodotte e riprodotte da questi dispositivi di potere e sono utilizzate per disciplinare e regolare i corpi e i comportamenti delle persone, in particolare all’interno di istituzioni come le carceri, gli ospedali o le scuole, attraverso anche forme spaziali e architettoniche quali il Panottico di Jeremy Bentham. Ma come ho già discusso qualche anno fa (De Angelis 2007), il meccanismo disciplinare, fondamentalmente panottico, si estende anche al di fuori di spazi architettonicamente adibiti a questa funzione, ed è riconoscibile fin dentro i meccanismi del mercato capitalistico, così come sono razionalizzati dai suoi principali ideologhi, come Frederick Hayek. E non solo. Nei casi sopra menzionati, il meccanismo si basa sulla stigmatizzazione (amplificata dai media) del pensiero-altro, e il tentativo di riprodurre e amplificare una norma di pensiero, di atteggiamento, di comportamento compatibile con lo status quo dell’ordine delle cose presente. La stigmatizzazione è l’anticamera della criminalizzazione, e quindi è associata alla coppia “premio e punizione” (o carota e bastone) che è alla base dei processi disciplinari.
Lo stigma è un concetto chiave nell’ambito della teoria simbolica dell’interazione sociale di Erving Goffman e si riferisce a un marchio o a un attributo negativo associato a una persona o a un gruppo sociale che porta alla loro emarginazione sociale o al rifiuto. Anche se Goffman non ha affrontato esplicitamente la relazione tra stigma e paura, è possibile trarre alcune conclusioni sul legame tra questi concetti sulla base delle sue analisi. Lo stigma è radicato nella paura, è un meccanismo di circolazione della paura. In diversi ambiti sociali, le persone non stigmatizzate, i “normali” possono spesso reagire a coloro che portano uno stigma con timore, pregiudizi o ansia, e sentimenti di paura o di preoccupazione. Possono temere ciò che è diverso o sconosciuto, possono preoccuparsi delle conseguenze delle idee stigmatizzate, temere gli orizzonti di trasformazione che esse aprirebbero se solo fossero prese seriamente. Dall’altra parte, le persone che portano uno stigma possono vivere la paura a causa della reazione negativa o della discriminazione che possono incontrare da parte degli altri. La paura della discriminazione, del pregiudizio o del rifiuto può influenzare il comportamento e l’identità delle persone stigmatizzate. La paura della loro criminalizzazione come portatori di stigma segue logicamente.
La cosa tragica che sta dietro questa mia enfasi alle dinamiche di “silenziamento” delle persone attraverso la stigmatizzazione e la criminalizzazione, non è solo voler mettere in luce una forma di ingiustizia nei confronti degli stigmatizzati. È in gioco molto di più. La paura di cui lo stigma si nutre e si riproduce mette a tacere proprio ciò di cui abbiamo tutti bisogno di sentir parlare oggi più che mai. In primo luogo, la possibilità di riconciliazione e l’ostinata ricerca di soluzioni pacifiche ai conflitti in modo da mettere a freno la spirale scismogenetica insita nei processi di violenza. E poi la possibilità di riprendere in mano la nostra cooperazione sociale in forme che rendano congruenti la riproduzione della vita di tutti nella sua quotidianità con la riproduzione delle condizioni di vita sul pianeta. La stigmatizzazione è quindi una delle forze che si schierano contro la costruzione del comune in tutti gli ambiti. Attraverso la stigmatizzazione si limitano tragicamente gli orizzonti del possibile, e si costruisce una realtà costretta dentro una prigione, una prigione nella quale, in questo momento, la popolazione di Gaza si trova a vivere e a morire in maniera emblematica sotto le bombe israeliane.
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Gian Franco Zavoli dice
La storia ci insegna che le civilizzazioni non sanno adattarsi ai grandi cambiamenti della vita sociale e scompaiono non essendo adatte a fare il cambiamento. Non farà eccezione la nostra civilizzazione industriale che resterà senza metalli con i quali si creano i motori per lavorare la terra e trasportare il cibo e non solo, in tutto il mondo. La nuova civilizzazione si dovrà adattare a restare senza metalli, quando le miniere saranno esaurite ed il cibo oggigiorno si crea lavorando la terra con i motori (un trattore fa il lavoro di 200 persone) e non siamo ancora capaci di creare il cibo, senza nostra madre-terra che ce lo crea in cambio del nostro lavoro, che sarà più che dimezzato senza più i metalli. Senza una soluzione a questo problema, sarà una vita drammatica anche per i cosiddetti ricchi. Le guerre saranno la conseguenza della non risoluzione di questo problema. Ai giovani di oggi spetta un futuro incerto e bisogna prevenirli e nessuno lo fa.
EUGENIO CERELLI dice
Lo stigma di cui parla l’autore è un pregiudizio sociale lanciato da chi gestisce il potere verso chi non partecipa al coro. E’ senza ombra di dubbio l’anticamera della criminalizzazione e riflette il pensiero autoritario, fascista, che lo ha partorito. Facendo leva sulla paura favorisce l’isolamento dei pochi outsider coraggiosi, fornisce pretesti ai molti “indifferenti” che già si schierano naturalmente col potere e si gonfia di un consenso che è per buona parte figlio di ignavia.
Questo per ciò che riguarda, per ora, le “democrazie” occidentali.
Ma in Palestina la realtà dei fatti è già ben oltre.
Il lupo di Esopo non risponde alle logiche obiezioni dell’agnello, ma se lo pappa. Più o meno come il Governo di Israele negli ultimi 30 anni non ha mai risposto alle logiche ed evidenti obiezioni dei Palestinesi e dell’ONU ma si è pappato le loro terre, rendendo ormai impossibile l’opzione originale “due popoli, due stati”. Così come ha reso impossibile la pace, se non quella di “romana” memoria.
Penso che lo stigma che riceve chi ora, in occidente, si schiera con la popolazione di Gaza sia ben poca cosa rispetto a ciò che la popolazione di Gaza sta subendo in questi giorni: se non sopportiamo neanche questo è meglio rassegnarsi ed andare ad ingrossare le fila dei tanti “embedded” nostrani.