La pioggia di messaggi che ho ricevuto in seguito all’articolo sul Sai (Mi sono avvicinato per offrire un passaggio) non ha fatto altro che confermare l’elevato livello di esasperazione che vivono gli operatori dell’accoglienza a causa del sistema dei monitoraggi, che andrebbe abolito o quantomeno radicalmente ripensato, e a questa assurda deriva burocratica.
In molti, da diverse regioni d’Italia, raccontano di avere lasciato il SAI (Sistema di accoglienza e integrazione) perché dopo anni, in alcuni casi anche oltre un decennio, di lavoro nel sistema si sono sentiti umiliati e criminalizzati dal quel Servizio Centrale che ci dovrebbe rappresentare e coordinare.
Quando c’è già un revisore indipendente nominato dai comuni che fa le pulci e certifica ogni singola voce di spesa delle rendicontazioni e poi c’è un controllo di secondo livello che ricontrolla a campione quello che il revisore ha già controllato e certificato, che necessità c’è di un monitoraggio amministrativo in cui bisogna quasi giustificare ogni spesa a gente che a volte ne sa di meno di coloro che dovrebbe controllare? Ci sentiamo criminalizzati da un sistema che non ci rappresenta più, nonostante il Servizio Centrale sia pieno di persone appassionate e competenti, per quanto a volte appaiano scollegate dai territori e dai loro problemi reali.
Il SAI, e prima lo SPRAR, è l’eccellenza del sistema di accoglienza italiano e dovrebbe essere l’unico sistema esistente. Ed è proprio per questo che vogliamo difenderlo e proteggerlo dall’attuale deriva.
Il divario tra l’accoglienza emergenziale e quella del SAI è enorme. A Lampedusa in un centro con 400 posti si possono ammassare 7mila esseri umani.
Nel SAI hai l’obbligo di avere una scarpiera per ogni persona accolta. Per esempio in un appartamento in cui abitano quattro uomini nigeriani devi avere quattro scarpiere e quattro armadi, uno ciascuno. Gli stessi nigeriani che arrivano scalzi dai Cas (Centri di accoglienza straordinaria) e senza nemmeno un paio di mutande di ricambio. Da un eccesso all’altro.
Durante i festeggiamenti per il ventennale della Rete delle Comunità Solidali una cooperativa piemontese ha raccontato che un tutor del SAI si è presentato al monitoraggio con un metro e ha misurato di quanti centimetri fossero larghe le ante degli armadi. Ma ci rendiamo conto del livello di follia?
Mi sono sentito dire durante un monitoraggio che la nostra rete territoriale non era abbastanza sviluppata: noi che facciamo rete anche con le pietre e che, lo dico senza falsa modestia, sul territorio in fatto di accoglienza siamo una sorta di istituzione. Mi sono sentito accusare di non avere avviato nemmeno un tirocinio formativo nel corso di un anno tra i migranti di un piccolo SAI che però in quell’anno aveva accolto solo richiedenti asilo, per i quali i tirocini formativi non possono essere finanziati coi fondi SAI… Ci siamo sentiti dire che il format di bilancio delle competenze che utilizzava la nostra equipe era troppo sintetico e che avremmo dovuto ampliarlo, cosa che abbiamo fatto e il nuovo format ampliato è stato approvato dal Servizio Centrale. Ma al monitoraggio successivo una diversa tutor ci ha accusato di avere un bilancio delle competenze troppo amplio (ma era lo stesso che ci avevano fatto modificare la volta precedente!) chiedendoci di renderlo più sintetico.
Ci fanno giocare con le scartoffie e perdere tempo, sequestrando le equipe per giornate intere per svolgere questi inutili e dannosi monitoraggi, che stanno facendo fuggire dai SAI le professionalità migliori.
Quante volte tutor che non hanno la minima idea dei contesti territoriali in cui sono collocati i progetti ci fanno la paternale suggerendo soluzioni inapplicabili nella pratica?
E via una perdita di tempo dietro l’altra.
Ma per fortuna il SAI non è solo burocrazia. Le equipe nei territori fanno un lavoro difficile ma straordinario, riuscendo a ottenere risultati incredibili anche in casi estremamente complicati. Per fare un esempio basti pensare al SAI di Laganadi, un paese di trecento abitanti in Aspromonte, dove è arrivata una mamma fuggita da un Paese africano, con a carico due bambini nati da violenza sessuale. La donna, vittima di un disturbo post traumatico da stress non era in grado di gestire al meglio i bambini quindi l’equipe dell’ente attuatore del progetto di accoglienza (L’associazione Coopisa – Cooperazione in Sanità) presieduto da Luigi De Filippis, un medico, in collaborazione coi servizi sociali ha ottenuto un affidamento congiunto, ossia una forma di supporto nella gestione dei figli da parte di un’altra famiglia. Purtroppo nel corso del tempo quell’affidamento congiunto era diventato quasi un affidamento giudiziario, la donna poteva vedere i figli solamente in luoghi protetti, le era quasi diventato impossibile stare con loro. Ma grazie al duro lavoro e alla tenacia di una grande equipe di professionisti che l’hanno supportata sia da un punto di vista psicologico sia dell’orientamento e accompagnamento formativo e lavorativo la donna è riuscita a diventare OSS (operatrice socio-sanitaria), a trovare un lavoro che ad oggi continua a mantenere e a riprendere in mano la sua vita e la sua famiglia. Sembrava impossibile ma oggi uno dei bambini è tornato a vivere con lei e l’altro vi trascorre lunghi periodi.
Vi racconto anche la storia della donna che ha espresso la volontà di abortire il terzo figlio a causa delle sue condizioni economiche. Non avrebbe saputo come mantenerlo. Grazie al lavoro degli operatori sociali del SAI, al loro accompagnamento psico-sociale e all’avvio di alcuni tirocini formativi la donna ha capito di potercela fare e non ha abortito. Oggi è madre di tre figli.
Questi sono solo alcuni esempi perché, come dice Luigi De Filippis: “Le storie migliori sono quelle normali, ordinarie”. Quelle con cui nei SAI abbiamo a che fare tutti i giorni e a cui possiamo dedicarci quando le equipe non vengono sequestrate dai monitoraggi e non devono rincorrere regole senza senso.
Perché, come mi ha detto la coordinatrice del progetto SAI di Gioiosa Ionica, gestito dalla Rete delle Comunità Solidali e dalla Società Cooperativa Sankara, il nostro lavoro è ancora importante. “Io sono convinta che siamo ancora importanti perché siamo l’ultima trincea rimasta a combattere una battaglia giusta, quotidianamente, con beneficiari, ex beneficiari, semplici cittadini stranieri che chiedono aiuto o supporto… Se non noi, chi?”. Ha assolutamente ragione, ma lasciatecelo fare.
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