Un tempo si pensava fosse sufficiente pretendere di dominare la terra e i fiumi, gli oceani e le montagne, e poi le donne, i sottomessi, i sottoposti, i servi, gli operai, gli animali e ogni altra specie vivente, la materia. Oggi il virus del dominio si espande attraverso territori e linguaggi evoluti ed è in grado di produrre inedite subordinazioni. Per immaginare di potersi sottrarre alla logica del dominio, logica che caratterizza ogni relazione sociale (lo stato, il denaro o anche la rete internet), si potrebbe forse cominciare dal riconoscere che i concetti e le parole che abitualmente utilizziamo per descrivere e comprendere quel che accade non sono più adeguati …
UNO. Si potrebbe pensare di restar fermi, come fa il viandante esausto quando si accovaccia accanto al muro a secco in attesa che la tormenta si calmi. Bisogna muoversi, invece, di continuo. Occorre riprendere un cammino impervio, lastricato di domande e privo di certezze. Quel che probabilmente ci serve, per tentare di dare nuova linfa e restituire dignità alla nostra immaginazione, è qualcosa che non esiste. Non esiste ancora, oppure non è visibile, è una potenzialità, esiste in potenza. Possiamo inventarlo, oppure renderlo visibile, perché sia nuovamente modificato e rimodellato secondo le necessità di chi rifiuta la logica del dominio. Dobbiamo farlo in movimento, dobbiamo pensare e vivere in costante movimento.
Per secoli si è creduto che il diritto di dominare, di impartire ordini e ricevere obbedienza assoluta fosse di emanazione divina. Negli ultimi decenni tale privilegio sembra riservato a chi lo ha conquistato con la violenza o con la rapina ma è soprattutto un privilegio dei mercati finanziari. Chi intenda opporsi a questo e a ogni altro dominio planetario, chiunque aspiri a un profondo cambiamento sociale, è “condannato” a spostarsi dal luogo in cui il sistema lo ha collocato. Deve produrre un movimento. Restare ancorati a quel che si è, o, meglio, a quel che si pensa di essere, aggrapparsi a presunte e fragili identità equivale, in sostanza, a cessare di esistere. Vuol dire essere riassorbiti da ricomposizioni del sistema inesorabili quanto improvvise. Ricomposizioni invisibili agli anticorpi (democratici, di sinistra, etc.) che si pensa di aver messo saldamente e per sempre in campo contro il contagio del dominio.
Ma qual è, oggi, il tipo di movimento utile a non riproporre, spesso senza averne consapevolezza, la logica del dominio? Naturalmente, non abbiamo risposte. Possiamo ipotizzare, però, che un movimento piano, tradizionale, da destra a sinistra ad esempio, sia di ben scarsa efficacia. Meglio, forse, un movimento circolare, oppure, come propone in modo suggestivo Raúl Zibechi, una danza che sappia riconfigurare il movimento ad ogni giro. Il movimento come scommessa della passione e dell’intensità di fronte a una rappresentazione (rappresentanza) statica, destinata sempre a sacrificarlo (il movimento) sull’altare dell’ordine. Qualsiasi ordine. Viviamo anni di cambiamenti profondi, ipotizzarne la durata o la direzione è impresa ardua che lasciamo volentieri ad altri. Per descrivere il convulso e caotico mutare della realtà contemporanea, Zibechi utilizza la metafora di una trottola. Spesso, spiega, saremo tentati di darle una piccola spinta, di aiutarla “generosamente” ad accelerare il ritmo, a intensificare i suoi giri. Sarà bene resistere a quella tentazione, l’esito più probabile sarebbe quello di fermare la trottola. Meglio immaginare di “essere anche noi parte di quel movimento rotatorio. Esserne parte, sebbene non se ne controlli la destinazione finale” . Malgrado non si riesca, cioè, ad avere il dominio del suo vorticoso movimento.
DUE. Il mondo che conosciamo, e quello che esiste ma non conosciamo ancora, è attraversato da forme di dominio sempre più dinamiche e fulminee. Un tempo si pensava fosse sufficiente pretendere di dominare la terra e i fiumi, gli oceani e le montagne, e poi le donne, i sottomessi, i sottoposti, i servi, gli operai, gli animali e ogni altra specie vivente, la materia. Oggi il “virus del dominio”, l’efficace espressione è di Danilo Dolci, si espande velocissimo attraverso territori e linguaggi evoluti, dalle nanotecnologie a sistemi d’informazione sempre più complessi e automatizzati. È un’espansione vertiginosa, in grado di produrre inedite subordinazioni e rovinose dipendenze, di limitare l’autonomia del pensiero critico, di moltiplicare i bisogni e di azzerare le capacità creative e la fantasia.
Per immaginare di potersi sottrarre alla logica del dominio, logica che caratterizza ogni relazione sociale (lo stato, il denaro o anche la rete internet), si potrebbe forse cominciare dal riconoscere che i concetti e le parole che abitualmente utilizziamo per descrivere e comprendere quel che accade non sono più adeguati o sufficienti. Il discorso vale, a maggior ragione, per buona parte delle interpretazioni analitiche che provano a orientare l’azione delle società in movimento verso un cambiamento radicale attraverso la riproduzione di percorsi noti e già largamente sconfitti.
Dobbiamo però evitare di pensare al dominio come a un gigantesco e invincibile moloch. Sarà utile tener presente che, per riprodursi tra le persone, il dominio ha bisogno del concorso dei dominati. Il dominio, che al nostro tempo è il dominio del capitalismo, non è indipendente, dipende da noi. Siamo noi a crearlo ogni giorno, possiamo dunque smettere di farlo. Non in modo assoluto, inseguendo una qualche mitica purezza rivoluzionaria, ma creando comuni momenti e spazi di rifiuto, di ribellione e creazione nei quali affermiamo forme diverse del nostro “fare”. Sono le “crepe” nel capitalismo di cui parla John Holloway. Si tratta di spazi e momenti di un “fare” che si sottrae alla logica del dominio, quindi alla logica del capitale, e crea altre, diverse relazioni sociali. Un fare necessariamente pieno di contraddizioni, come la realtà in cui viviamo.
Le crepe, scrive Holloway, cominciano con un No, una negazione-e-creazione da cui emerge la nostra dignità. Poi, le crepe si muovono veloci, in modo raramente prevedibile, correndo lungo le faglie quasi invisibili della rivolta del fare contro l’astrazione del fare nel lavoro, cioè contro ciò che tiene insieme il capitalismo. La nostra dignità non è però la dignità delle vittime, delle denunce e delle rivendicazioni per un futuro migliore, è la pratica di un modo e di un mondo diversi. La crisi di un capitalismo che non riesce più a imporre la sua dominazione è forse l’espressione più visibile dell’affermazione di questa dignità. Il processo di creazione, moltiplicazione e allargamento delle crepe non è qualcosa di utopico, da preparare per una lontana e improbabile prospettiva, è invece una rivoluzione già in corso in ogni angolo del mondo. Ce ne accorgiamo quando essa si rende visibile, con l’esplosione di rivolte sempre più frequenti, ma esiste nella vita quotidiana, nella ribellione di ognuno di noi.
TRE. Continuiamo a chiamare capitalismo un sistema di relazioni sociali che non è controllato dai capitalisti, dai governi o dalle istituzioni finanziarie ma dalle cose: il denaro, i mercati, i capitali. È un sistema che umilia e impoverisce le persone e la loro cultura, che considera il denaro e le cose più importanti della vita stessa del pianeta e di chi lo abita. Oggi, tuttavia, il capitalismo sembra manifestarsi in modo più evidente come una macchina che corre da sola, una macchina automatizzata, decerebrata e forse impazzita. “Il processo predatorio”, segnalano Geert Lovink e Franco “Bifo” Berardi, “è stato automatizzato. I trasferimenti di risorse e ricchezza da coloro che producono a coloro che non fanno altro che controllare astratte transazioni finanziarie si è incorporato nella macchina, nel software che governa la macchina”.
Eppure, il capitalismo perde costantemente i suoi equilibri. Le bolle speculative esplodono una dopo l’altra, i fallimenti si moltiplicano, le concentrazioni aumentano, l’economia annaspa e la disoccupazione dilaga. Il declino delle roccaforti, perfino geografiche, del sistema che conosciamo è lampante: gli Stati uniti, ben oltre la fine della loro egemonia, saranno presto un paese instabile. Da diversi decenni, lì e ovunque, le imprese, gli stati e le famiglie si indebitano. Una parola di sole cinque lettere serve a spiegare tutto, ogni processo che si delinea nel mondo. È la crisi. Domina gli articoli di fondo del New York Times come della Gazzetta di Mantova, imperversa nei meeting dei superpotenti e nei commenti delle massaie di fronte ai banchi della frutta dei mercatini rionali. Non dobbiamo averne paura, anzi. Non ci è indispensabile studiare e raccontare la storia, le ricomposizioni e le trasformazioni del capitalismo. Non ci danneremo per cercare di analizzarne i cicli, a noi serve uscire dal capitalismo. A noi interessa la crisi.
E la crisi esiste, non è un’invenzione dei media. I media (e inevitabilmente anche noi) usano il concetto di crisi per segnalare qualcosa di ineluttabile: la crisi è la causa di tutti i nostri problemi. Dovremo dunque aspettare (o fare in modo) che la crisi passi per cominciare a immaginare un domani diverso? Intanto, nel migliore dei casi, potremo soltanto provare a limitarne i danni? C’è una evidente inversione dei fattori causa ed effetto. Potrebbe aiutare, in casi come questo, una rapida rivisitazione dell’etimo. Crisi viene dal greco krisis, una parola che potrebbe segnalare, con una definizione un po’ incerta, una separazione tra un modo di essere, oppure tra una serie di fenomeni, e un altro, diverso dal primo. La crisi segna dunque un passaggio, e il concetto originario sembra contenere il problema e il suo superamento. La crisi è un cambiamento.
QUATTRO. Una delle possibili chiavi da utilizzare per navigare nella crisi aprendo crepe nella logica del dominio è la separazione tra i concetti di dominio e potere. Ne parla Danilo Dolci, che legge il dominio come una patologia del potere, la nefasta disfunzione di un potere che è invece “esercizio sostanziale della libertà di fare o non fare, pensare o non pensare senza la quale l’agognata democrazia resta un orpello formale e demagogico”. La classica distinzione tra potestas e potentia è stata indagata da molti e diversi studiosi, da Baruch Spinoza fino a Tony Negri. Qui possiamo limitarci a segnalare, ancora con Holloway, la necessità di aprire la categoria del potere portando alla luce l’antagonismo tra il potere inteso come verbo e il potere come sostantivo. Il poter-fare, la possibilità di azione e creazione collettiva e il potere-su, il potere-dominio che spezza con la forza il flusso sociale del fare trasformando i soggetti in oggetti.
Il capitale acquista i prodotti del fare umano, afferma il proprio dominio attraverso la proprietà di ciò che viene fatto dalle persone, e, attraverso questo processo, riesce a impadronirsi (ma non completamente) del poter-fare delle persone. Il fare collettivo e libero diventa lavoro astratto e alienato. La rivoluzione arriva pertanto con la liberazione del poter-fare dal potere-su. Dobbiamo emancipare il potere di tutti dal dominio di pochi, costruire un anti-potere. Per Holloway, la lotta per il poter-fare è però anche una lotta contro l’identità e la classificazione, una resistenza al potere-dominio che non può essere una prerogativa degli attivisti ma è viva e agisce ovunque e in ognuno di noi. Nella vita quotidiana di ognuno di noi. La lotta per il poter-fare è, al tempo stesso, una lotta per la comunità e la socialità, poiché il capitale, spezzando la continuità del fare, separa anche l’individuo dalla collettività.
Il nostro punto di partenza può dunque essere la crisi, la vulnerabilità del dominio del capitale. È un punto di partenza che considera la relazione tra potere-dominio e poter-fare come una relazione antagonistica ma interna. Come il dominio non esiste senza i dominati, così il potere-su non esisterebbe senza la sottomissione del potere-di, questo è il suo punto debole. L’uso indistinto del termine “potere” ne occulta invece l’antagonismo a favore del solo potere dei potenti. Per percepire quell’antagonismo, quella nascosta ribellione potenziale, non possiamo che imparare ad ascoltare. Soltanto se si è davvero interessati agli altri, a quel che dicono gli altri, si può arrivare a saper ascoltare, poi sarà indispensabile farne pratica sistematica. Non è estranea alla logica del dominio la dicotomia tra il comunicare e il trasmettere, un verbo molto amico delle culture di avanguardia delle sinistre. Come si può invocare la partecipazione se si finisce inevitabilmente per considerare insignificante l’interazione di chi ci ascolta o ci legge? E come si può pretendere il coinvolgimento effettivo di chi non ha occasioni per essere ascoltato mentre racconta problemi ed emozioni?
Viviamo in una società gerarchica, autoritaria, fondata sulla paura e sulla forza, sull’inferiorità e la superiorità, sulla conquista. E siamo ossessionati dalle urgenze e dalle emergenze, due astrazioni utili a nascondere un’idea del tempo che domina le persone e non segue i ritmi del nostro vivere, oppure, ancor peggio, a nascondere miseri tentativi di prevaricazione, imposizioni da accettare subito, non essendoci «più tempo» per pensare e fare diversamente. Possiamo e dobbiamo esercitare una critica costante su tutto questo ma non possiamo illuderci di esserne immuni. La logica del dominio è anche dentro di noi. È fondamentale saperlo, riconoscerlo, proprio perché, fino a che saremo in grado di criticar(e)ci, il potere-dominio troverà al suo interno la ribellione del potere-di. Un esempio? Nei giorni più alti del movimento del 15 maggio 2011, alla Puerta del Sol madrilena, Guillermo (Kaejane) Zapata, che ha scritto le pagine più intense e lucide sugli indignados, racconta: “ In questi momenti si dispiega una capacità espressiva enorme nella quale chiunque sia riunito in un gruppo crede di essere la rappresentazione del tutto. La sensazione di riprendere un potere è tale che uno arriva a credere che quello che ognuno fa sia rappresentare tutti gli altri. È una logica ragionevole e difficile da disimparare ma è necessario disattivarla. La potenza del movimento viene dalla sua impossibilità di essere rappresentato” (la traduzione è di www.carta.org).
La potenza del movimento, il potere-di. Uno dei “segreti” del sorprendente e straordinario successo della rivolta iberica (come forse anche di Occupy Wall Street) sta certo nella consapevolezza di non doversi proporre la costruzione di un soggetto rivoluzionario ma di saper riconoscere nella gente gli elementi della ribellione e della rivoluzione. Niente di speciale. Tutti possiamo essere soggetti rivoluzionari ma siamo anche tutti conservatori. L’intera storia del Novecento insegna che definirsi è impresa ardua quanto sostanzialmente inutile. Il dominio del capitale, quella cosa che trasforma le persone in cose, le feticizza, passa anche attraverso il sistema di definizioni, identificazioni e classificazioni. Non riesce a farlo completamente, però, altrimenti non potremmo criticarlo. Per averne ancora una volta un’idea, basta trasferirsi dallo Zapata madrileno agli zapatisti del Chiapas. “Il potere dice agli zapatisti: «Classificatevi, quel che non si può classificare non conta!»”, annota il Subcomandante Marcos.
CINQUE. Abbiamo provato, fin qui, a scorrere in modo arbitrario e approssimato alcuni degli elementi che segnano la pratica del dominio ai giorni nostri. Non possiamo certo trascurare, però, il principale veicolo attraverso cui penetra oggi, fulminea, l’ingegneria del consenso indispensabile all’esercizio del dominio. Non si tratta, ovviamente, né dei palazzi della finanza né dei bancomat ma della connessione astratta tra numeri, algoritmi e informazione. Dove siamo? Si domanda il filosofo argentino Alejandro Piscitelli. Siamo immersi in un’era digitale, comunicazionale, veloce e di massa, un’era che fonde teoria e pratica, risponde. Un’era intrisa di un capitalismo disorganizzato, dove le regole sembrano dettate non più da strutture sociali ma da strutture di comunicazione e informazione. L’intensità e la velocità del bombardamento di segni e informazioni vuoti cui siamo sottoposti, la penetrazione della tecnologia nel tessuto sociale attraverso accelerazioni continue, l’immediatezza e la semplificazione dei linguaggi impongono dunque, a maggior ragione, la necessità della critica.
L’esercizio della critica è ostacolato, però, da una estrema difficoltà ad articolare anche solo qualche punto di ancoraggio indispensabile a creare senso. “Quando si parla di Rete”, scrive su Giap Wu Ming 1, “la “macchina mitologica” dei nostri discorsi – alimentata dall’ideologia che, volenti o nolenti, respiriamo ogni giorno – ripropone un mito, una narrazione tossica: la tecnologia come forza autonoma, soggetto dotato di un suo spirito, realtà che si evolve da sola, spontaneamente e teleologicamente. Tanto che qualcuno – non lo si ricorderà mai abbastanza – ha avuto la bella pensata di candidare Internet (che come tutte le reti e infrastrutture serve a tutto, anche a fare la guerra) al… Nobel per la Pace”. Ad essere occultati dal mito, continua Wu Ming, sono i rapporti di classe, di proprietà, di produzione: se ne vede solo il feticcio. Per ampliare la nostra critica alla logica del dominio che investe la relazione sociale Internet, dobbiamo provare costantemente a de-feticizzare la Rete.
Internet, come lo Stato, il denaro, la famiglia, è una forma sociale, una forma delle relazioni sociali, delle relazioni tra persone. Una forma coperta da un pesante velo di retorica che la irrigidisce, la fa sembrare una cosa, e, naturalmente, la nasconde al fine di proteggerla dalle domande essenziali: chi detiene le proprietà? Chi ha il controllo effettivo dei nodi? Quali rapporti di lavoro, spesso brutali e invisibili, si trovano nel ciclo lungo di produzione di uno smartphone multimediale, cioè a monte (l’estrazione di litio o tantalio in Bolivia o Afghanistan) e a valle (lo smaltimento dei rifiuti in Nigeria o Ghana) dell’assemblaggio?
Dobbiamo spegnere i computer e praticare il lancio del cellulare dalla rupe? Beh, qualche giorno di disconnessione, e magari una bella passeggiata nei boschi, non possono che giovare alla salute, ma perfino ai luddisti della penultima ora, dovrebbe ormai risultare francamente ridicolo demonizzare l’utilizzo di iPhone e tablet vari. Allo stesso modo, sarebbe di scarsa utilità limitarsi a inveire contro la rete a causa dello sfruttamento del lavoro cognitivo che comporta, perché promuove transazioni finanziarie che mandano in rovina milioni di persone, o perché, come quasi ogni tecnologia, porta nel dna il peccato originario della ricerca a scopi bellici. Ancor peggio sarebbe dimenticare che è la stessa Rete a favorire, a una velocità e a una intensità impensabili solo fino a pochi anni fa, la veicolazione delle ideologie dominanti e del controllo sociale più repressivo. In fondo, scoprire ciò che la feticizzazione della cornucopia tecnologica occulta non è poi così difficile, segnala ancora Wu Ming: basta leggere le norme di utilizzo di Facebook o le licenze dei software che utilizziamo, ma sarà bene anche dare uno sguardo allo stupefacente video dell’inaugurazione dell’ultimo Apple Store a Porta di Roma.
Ci sarebbe, infine, il recente lavoro dei ricercatori Diana Tamir e Jason Mitchell, neuro scienziati ad Harvard. Il loro autorevole studio spiega come svelare se stessi e le proprie esperienze su Facebook, il social network che sembra voler inglobare l’intera rete, stimoli la regione del cervello collegata al piacere allo stesso modo di una pulsione erotica. Inevitabile tornare al citato post di Giap, dove Wu Ming segnala il pluslavoro di quasi un miliardo di utenti, i quali, evidentemente, mentre assaporano gaudenti il rilascio di dopamina, producono gratuitamente contenuti relazionali e affettivi affinché Mark Zuckenberg li venda. Sarebbe di straordinario interesse conoscere quale zona del cervello del giovane nerd che ha registrato il dominio Facebook.com venga stimolata dall’incasso di una cifra annuale superiore a quella di diecimila punti vendita di Wal Mart.
SEI. Sulle pratiche di liberazione che si connettono e sviluppano attraverso la Rete, dal software libero in poi, sono state scritte valanghe di pagine. Molte di esse peccano certamente di apologia ma se all’inizio di questo secondo millennio c’è un territorio (più che un mezzo) in cui hanno potuto espandersi all’infinito creatività, auto-narrazione e legami sociali è certamente quello della Rete. Quell’espansione, il superamento di ogni argine preesistente, è avvenuto inoltre attraverso una straordinaria polifonia creata da milioni di centri-non centri, da stazioni che ripetono segnali, proposte, significati. Un dato, questo, di essenziale importanza perché si verifica in un tempo in cui è indispensabile che le lotte delle società in movimento contro il dominio vengano fatte da molti punti diversi e con forme differenti. Oggi non abbiamo un particolare bisogno di unità ma di risonanze planetarie. Servono strumenti in grado di cominciare a vibrare in modo improvviso qui quando la ribellione si alza lontana, oltre gli oceani, nelle selve boliviane o nei deserti del Mali.
La Rete è un formidabile territorio di risonanze e insubordinazioni ma è anche il territorio contemporaneo dove il virus del dominio ha costruito la sua trincea più avanzata. E’ il luogo in cui le relazioni sociali legate al lavoro hanno frammentato il tessuto umano fino a dissolverlo. “Non ci sono più esseri umani che lavorano, ma frammenti temporali assoggettati al processo di valorizzazione, atomi di tempo ricombinati nel ciclo produttivo globale”, l’inquietudine (per essere ottimisti) di Franco “Bifo” Berardi non può lasciare indifferenti. La Rete è stata in grado di rigenerare l’idea stessa di dominio, di reinventarne la semantica. Non a caso nella galassia Internet il dominio è una rete di identificazione. E non a caso la Rete ha partorito le Dot.com, le società di servizi che sviluppano la maggior parte del business attraverso Internet e usano principalmente siti appartenenti al dominio di primo livello .com.
E tuttavia “la questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. È la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo”, l’argomentazione di Wu Ming è rigorosa quanto impeccabile. Dovremo pertanto agire dentro e contro la rete, conclude il suo post, cercare il modo di allearci con coloro che sono sfruttati a monte del ciclo, nella “produzione materiale”. “Un’alleanza mondiale tra “attivisti digitali”, lavoratori cognitivi e operai dell’industria elettronica sarebbe, per i padroni della rete, la cosa più spaventosa. Le forme di quest’alleanza, ovviamente, sono tutte da scoprire”. Dentro e contro, certo, perché anche nella rete la relazione tra il potere-dominio e la sua negazione, il poter-fare, la nostra potentia, deve essere antagonista ma restare interna alla “forma che prende oggi il capitalismo”, deve negarla. In altre parole, non abbiamo bisogno di un simmetrico contro-potere “buono”, alternativo, ma della sua negazione, della dissoluzione del potere-dominio. Bisognerà forse, però, introdurre anche un terzo avverbio: oltre. Oltre la rete, perché è solo valicando come un imponente fiume in piena gli argini conosciuti, è solo vincendo l’inerzia della dominazione che l’ondata delle ribellioni può dissolvere l’istituzione, perfino quella virtuale dei network esistenti.
SETTE. È assai raro e molto difficile che le parole siano migliori del silenzio. Restare in silenzio per un lungo periodo è un esercizio essenziale per cercare di imparare ad ascoltare e ad ascoltarsi. L’informazione, la comunicazione tendono a raccontare il mondo e la vita secondo un ordine “naturale” delle cose che non esiste. Possiamo usare la critica, certo. Possiamo aprire percorsi, disegnare nuovi spazi liberi. Possiamo inventare linguaggi e parole ma dobbiamo anche cominciare a toglierle, le parole. Dobbiamo diventare molto più leggeri, leggeri come il vento, leggerissimi.
Possiamo prendere il potere-di sottrarci alla logica del dominio? È soprattutto una questione di equilibrio. È come andare in bicicletta: se smetti di muoverti, di spingere sui pedali non puoi far altro che cadere. Non puoi sapere se riuscirai a rialzarti. D’altra parte, la bicicletta è uno dei pochi mezzi capaci di mettere armonia tra il tempo, lo spazio e l’andare. Qualcuno ha detto che è l’immagine visibile del vento. Sì, possiamo vivere senza dominio se sapremo riconoscere che il dominio è anche dentro di noi, se riusciremo a smettere di riprodurlo, se sapremo muoverci, andare oltre, diventare parte del movimento senza pretendere di spingerlo verso una destinazione nota, senza cercare di dominarlo. Abbiamo bisogno di leggerezza. Vivere senza dominio non significa reprimere un istinto. Avete mai fatto caso ai bambini quando cominciano a giocare senza sapere di farlo?
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