In un mondo che si muove freneticamente sotto il dominio del denaro, a più giovani viene imposto di adeguarsi di continuo, con tempi sempre più ridotti da dedicare alla riflessione, alla costruzione del sé, alle relazioni con gli altri. Per contrastare le nuove forme di povertà educativa la strada aperta dai patti educativi territoriali si dimostra incisiva se chi aderisce è disposto a mettersi in discussione: si tratta di permettere a ragazzi e ragazze di non essere più passivi ma protagonisti dei propri percorsi di crescita, attraverso prima di tutto una didattica laboratoriale ed esperienziale legata al territorio
Questo articolo da parte dell’inchiesta Prendere in mano la propria scuola
Nel mondo in cui i nostri ragazzi vivono, caratterizzato dal consumismo e dallo strapotere del denaro come unico mantra al quale guardare ed aspirare, prevalgono modelli social/culturali spesso aberranti, in cui molti giovani si identificano, certamente distanti da quei valori civici di cittadinanza su cui una comunità si fonda, si organizza e si dà regole condivise. La società nella quale vivono, sempre più segnata da diseguaglianze e squilibri, genera in loro spaesamento, frustrazione, voglia di rivalsa, se non omologazione a modelli dominanti voraci e di forte fascinazione, una società in cui il disagio giovanile è cresciuto esponenzialmente. Di certo sono diversi i motivi sociali, economici, culturali che contribuiscono a rendere critica e problematica la condizione giovanile, in un mondo che si muove freneticamente – in quale direzione non è dato sapere – ma che impone loro di adeguarsi di continuo, con tempi sempre più ridotti da dedicare alla riflessione, alla costruzione del sé, alle relazioni con gli altri.
Una condizione che in Italia si è particolarmente aggravata per il disinteresse verso l’universo giovanile di chi per decenni ha governato, che ha condizionato e “oscurato” gli orizzonti di diverse generazioni di giovani, con effetti “a cascata” che hanno riguardato il degrado sociale, economico e culturale per l’intero paese, tanto più se si confronta con quanto è stato invece realizzato in termini di politiche giovanili in diversi altri paesi europei.
Estendere la scuola oltre l’aula
Per affrontare oggi tali criticità – un vero debito che più generazioni di adulti hanno contratto con i giovani – serve una radicale inversione di rotta, sia della governance a livello nazionale, sia della società e dei diversi attori sociali (istituzioni scolastiche, famiglie, terzo settore) preposti alla socializzazione e alla formazione giovanile.
Occorre prima di tutto una presa di coscienza da parte di tutti che i più scottanti problemi che attanagliano i giovani – abbandono scolastico, disorientamento sociale/esistenziale, neet, precarietà e mancanza del lavoro, migrazione dai luoghi nativi – hanno caratteristiche multifattoriali e complesse, che richiedono unità di intenti e una visione condivisa sul da farsi, per realizzare strategie maggiormente efficaci per combattere disagio giovanile e povertà educativa. Perché ciò accada serve una profonda trasformazione delle politiche educative e delle strategie destinate ai giovani: realizzare ovunque ambienti di apprendimento inclusivi in cui i ragazzi non sono più passivi ma protagonisti, in cui si rimetta al centro la relazione educativa e la crescita della persona, una radicale trasformazione di strumenti e metodologie didattiche, basata su una didattica laboratoriale ed esperienziale, arricchita da un uso consapevole delle tecnologie digitali.
Innovazioni che se realizzate nel concreto e in modo estensivo possono certo migliorare il rapporto tra scuola “istituzionale” e il variegato mondo che fa riferimento all’educazione territoriale diffusa, che in questi anni ha guardato con diffidenza alla scuola “istituzionale”, percepita come reclusiva, troppo arroccata su se stessa e sulle proprie certezze pedagogiche.
Rompere gli isolamenti, creare arcipelaghi
Per realizzare tutto questo serve un cambio di rotta – culturale e relazionale – delle diverse agenzie formative per superare autoreferenzialità e autosufficienza che creano ritrosia a confrontarsi e cooperare con realtà esterne al proprio orticello. Un modus operandi, ancora molto diffuso, che genera l’isolamento in cui scuole, associazioni, enti di prossimità territoriale (ASL, municipalità, ecc) operano – con assenza di coordinamento con gli altri soggetti, prezioso e indispensabile proprio perché operanti sullo stesso territorio e sugli stessi giovani. È indispensabile superare azioni “a macchia di leopardo” e disomogenee, condizioni che finiscono spesso per debilitare le pur positive azioni esistenti e invalidarne potenzialità e ricadute positive sui giovani, cui sono destinate.
La gravità ed estensione dei problemi sul tappeto richiedono infatti a tutti gli attori istituzionali e territoriali uno sforzo per creare “fronte comune”, per arricchire da diverse angolazioni le proprie strategie e migliorare le azioni attraverso la coprogettazione. Proprio in questa direzione i patti educativi territoriali, già avviati e sperimentati in Italia negli ultimi anni, hanno dato prova di essere uno strumento particolarmente efficace per rafforzare e qualificare le azioni per combattere la povertà educativa. Ma per renderli ancora più incisivi e migliorarne la ricaduta sui giovani e sui territori è indispensabile che ciascun soggetto istituzionale o associativo, che partecipa ai patti educativi, vi aderisca con uno spirito nuovo, disposto a mettersi in discussione per superare, da un lato, il modello di didattica frontale, tutto basato sulle materie e librocentrico, oramai antiquato ma ancora ben diffuso soprattutto nella scuola secondaria, e dall’altro abbandonando le facili (e velleitarie) sirene provenienti dal mondo dell’educazione informale non istituzionale, che nel superamento della scuola tout court individua la soluzione di ogni problema.
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Se la circolarità di saperi e conoscenze basati sulla esperienza che si fa imparando, interdisciplinari e multi linguaggio divengono il principio secondo cui ripensare e ridisegnare il sistema educativo e formativo, ne discende che al di là delle diverse fasce di età, la dimensione metacognitiva precede e accompagna costantemente quella cognitiva, in ogni momento dell’azione didattica. Per questo – e in questo momento in Italia è particolarmente vivo il dibattito – è pedagogicamente fuorviante proporre l’educazione affettiva – così come l’educazione civica – come “materie” a sé stanti, corpi separati e non comunicanti, da aggiungere ad altre materie dai curricoli ingessati, inculcate in orari preconfezionati ad alunni passivamente seduti dietro un banco, in febbrile attesa del suono della campanella.
La diffusione su scala nazionale di patti educativi territoriali potrebbe concretamente delineare quel sistema formativo integrato, ispirato all’interdipendenza e integrazione della scuola – istituzione cardine anche perché capillare e presente su tutto il territorio italiano – che condivide e coprogetta, in una cornice di pari dignità con il mondo delle associazioni e del terzo settore, in grado di attuare strategie e alleanze educative finalmente efficaci contro la dispersione scolastica e per il successo formativo dei giovani.
Da noi adulti, cittadini, educatori e non solo, i nostri ragazzi non aspettano altro di essere orientati, per ri-trovare un orizzonte dignitoso a cui guardare, ed è proprio su questa scommessa che ci giochiamo il futuro del paese.
Nicola Cotugno, docente e formatore, è autore del libro Fare scuola a Scampia (Erickson), di cui è possibile leggere su Territori Educativi la prefazione scritta da Eraldo Affinati: