Per apprendere abbiamo bisogno di pensare qualsiasi disciplina non come un blocco monolitico astratto e lontano dalla vita di ogni giorno e dai quartieri nei quali viviamo. Ma prima ancora chi insegna deve conquistare la fiducia dei ragazzi e delle ragazze, offrire materiali per un’esperienza conoscitiva e guidarli per sviluppare la loro autonomia di pensiero e di azione: per farlo occorre lavorare sul territorio e puntare sull’aula cooperativa. Ci sono diversi modi per valutare la robustezza di percorsi di apprendimento di questo tipo: “Possiamo organizzare tanti discorsi teorici sull’insegnamento – scrive Eraldo Affinati -, ma alla fine conta solo quello: come ti guardano i tuoi allievi. Il che vuol dire: come li hai guardati tu…”. La prefazione di Fare scuola a Scampia (Erickson), il libro attraverso il quale Nicola Cotugno, docente all’ITI Ferraris di Scampia (Napoli), racconta la sua lunga esperienza di insegnante tra creazione di siti, letture fra i templi di Paestum, diari di bordo, cortometraggi, patti educativi territoriali, bizzarri Mammut. E sguardi attenti


Ho conosciuto Nicola Cotugno molti anni fa sul campo delle operazioni, all’Istituto tecnico industriale «Galileo Ferraris» di Napoli, a pochi passi dalle famigerate Vele di Scampia, dove ero stato invitato a parlare anche ai suoi studenti. Non dimenticherò mai lo sguardo, complice e affettuoso, che i ragazzi rivolgevano al loro professore di disegno tecnico. Possiamo organizzare tanti discorsi teorici sull’insegnamento, ma alla fine conta solo quello: come ti guardano i tuoi allievi. Il che vuol dire: come li hai guardati tu. Ti sei limitato a svolgere il programma e mettere i voti? Nel 1938 John Dewey, in un libro giustamente famoso, Esperienza e educazione, stigmatizzò questo processo di apprendimento secolare, caposaldo della storia moderna, immaginando un’altra scuola che, per sfuggire alla noia e alla pesantezza dell’educazione tradizionale, trasformasse il docente da somministratore di materiali scientifici, «offerti secondo un piano di gradualità quantitativa, di mese in mese e di anno in anno», come se l’alunno fosse un paziente bisognoso di dosi medicinali, in «direttore di attività sociali».
Il libro che avete fra le mani dimostra concretamente cosa implica tale cambiamento: Valerio entra in azione nel mitico laboratorio 59 facendo faville con FrontPage; Mariano presenta il videogioco sul Partenone all’Università «Federico II»; Salvatore diventa carabiniere; Fabio addirittura ingegnere; Carmela, dopo la visita a Paestum, capisce che deve trovare un nuovo indirizzo di studi; Daniele Obermayer, il più effervescente e talentuoso, eppure forse paradossalmente proprio per questo bocciato due anni, metterà a frutto le esperienze maturate al Ferraris assumendo la direzione di un’azienda multimediale. Le testimonianze che i suddetti ex allievi elargiscono al loro vecchio docente e quindi a tutti noi, ricordando i tempi trascorsi insieme, sono pepite d’oro. Ci fanno capire il nocciolo essenziale. Le discipline non devono essere blocchi monolitici separati perché la vita è un’altra cosa: e così, in omaggio all’«unità dei saperi» sentenziata dai greci, la distruzione terroristica dell’Isis a Palmyra viene compresa nella sua drammaticità soltanto dopo la visita ai templi classici a due passi da casa.
Nelle pagine che seguono Cotugno, che si è innamorato del suo lavoro facendolo, in origine era un architetto, mostra cosa significa predisporre un lavoro di squadra: per adottare il monumento di Castel Capuano, creare un sito web sulle meraviglie archeologiche partenopee, costruire un video a partire da Vista con granello di sabbia della Szymborska, coinvolgendo nella recitazione Pietro e Mario, bisogna prima di tutto conquistare la fiducia dei ragazzi, offrirgli i materiali per un’esperienza conoscitiva, guidarli nelle varie stazioni didattiche e infine scomparire lasciando che siano loro a tagliare il traguardo, magari illustrando i lavori nell’aula bunker di Palermo davanti a Maria Falcone e sotto agli occhi delle telecamere nazionali. Non c’è soddisfazione più bella che veder crescere l’autonomia del proprio scolaro, come un virgulto pronto a staccarsi dalla pianta da cui è germogliato. E pazienza se poi si arriva solo secondi mancando per un soffio il viaggio premio a Quantico, negli Stati Uniti, alla base operativa dell’FBI. Comunque sia l’avventura trascorsa insieme avrà segnato per sempre ragazzi e professore. Compresi coloro che sono tornati indietro, risucchiati dalla camorra. Un vero educatore deve mettere in conto persino i fallimenti che a volte, ammettiamolo, gli rivelano ancor meglio dei successi l’essenza segreta del suo mestiere.
La rivoluzione digitale dovrebbe rivoltare come un calzino tutta la scuola, l’hanno capito in tanti durante la pandemia: purtroppo non sempre è così, molti nostri colleghi continuano a barricarsi dietro la confortevole zona di presunta sicurezza garantita loro dalla semplice ora di lezione frontale. Ma un libro come questo indica che il tempo è già scaduto. Non possiamo più restare fermi alla scuola cripto-ottocentesca. I giovani del Terzo millennio hanno una testa diversa da quella dei loro coetanei di venti o dieci anni fa: procedono per nessi associativi, passano rapidamente da un contesto all’altro, possiedono una rapidità percettiva di qualità inedita. L’intero sistema dell’istruzione nazionale è chiamato a ripensare lo spazio scolastico, procedere subito all’innovazione dei programmi, aggiornare la formazione dei docenti. Urgono, scrive Cotugno, «patti educativi di comunità», anche nel tentativo di contrapporsi alla ferita sanguinosa della dispersione scolastica: lavorare sul territorio, puntare sull’aula cooperativa, senza tuttavia rinunciare agli obiettivi generali. Non bisogna mai abbassare l’asticella, anzi è necessario essere sempre più ambiziosi. Non era in fondo questo ciò che il vecchio maestro di Nicola Cotugno, cioè Luciano Caruso, suo professore di lettere al Liceo artistico, voleva intendere quando esortava i suoi scolari a «studiare due volte»?