Come ci si smarca dalla guerra? Siamo in grado di fare la pace praticandola, insomma rifiutando l’antica distinzione tra mezzi e fini? Cosa significa creare luoghi per l’altro in questo tempo? Cosa immaginano oggi educatrici ed educatori russi e ucraini? Un punto di vista, intorno a queste e altre domande, che nasce all’interno di una lunga e complessa esperienza internazionale di percorsi educativi e azioni territoriali, quella del Cemea

Per abbracciarsi, ci ricorda la poetessa Chandra Livia Candiani, si fa così: “Ci si avvicina lentamente / eppure senza motivo apparente / poi allargando le braccia, si mostra il disarmo delle ali, / e infine si svanisce, / insieme, / nello spazio di carità / tra te/ e l’altro”. E ci dice “disarmo” e ci tace “distanza”. Ma solo perché la dà per scontata, visto che quel che descrive è un incontro, un avvicinarsi. Nella sua situazione lo spazio c’è: ma oggi, in questo tempo di scontro, di attacco e di offesa è proprio quello che manca. Per abbracciarsi serve spazio, perché abbracciarsi è accogliere e l’accoglienza è convessa, aperta, e vuota: una tazza di disponibilità con le braccia per bordi e noi lì in fondo.
Accogliere è concepire questo spazio, questo luogo per l’altro, questa nicchia protetta dove l’altro può sostare, dove entrambi possiamo svanire alle nostre differenze e risvegliarci nella comune carità. La guerra, al contrario, è convessa, protesa, spronata. Arriva e fende, disarticola, buca. Di fronte alla sua lama cadono le alternative si fondono le argomentazioni si azzerano le prospettive. Il territorio con i suoi vissuti, luoghi, sapori, emozioni si appiattisce e si fa mappa, le dimensioni si schiacciano, come le interpretazioni, si vive in uno spazio bidimensionale in cui c’è solo avanzare o retrocedere e retrocedere lo dice la parola stessa è da perdenti.
La guerra istupidisce chi la soffre e chi la fa. O forse, con più sapienza, punta a istupidire, a rendere obbligatoria l’azione, chiama ad entrare in gioco senza se e senza ma e giudica e condanna chi cerca di sottrarvisi.
Un dubbio
Non scrivo con una soluzione, se ne compiaceranno gli interventisti, ma con una convinzione, anzi un dubbio. Come ci si smarca dalla guerra? Come possiamo evitare di giocare a scacchi come da piccoli, quando a pezzo mangiato si rispondeva mangiando, colpo su colpo, alla cieca, fino a girovagare con i pezzi rimasti in una landa sconnessa e svuotata?
E come possiamo rinsavire da questa evidenza dei giudizi, in cui, proprio per la guerra, così torbida e intricata, sappiamo benissimo chi è il buono e chi il cattivo, e se ci mettiamo a ragionare c’è subito un sentimento straziante che spazza ogni dubbio e ci spinge all’azione?
No. Io questa logica non la riconosco, non la trovo mia, non mi sento di parteciparci e soprattutto sento il bisogno di dirlo, per metterci la faccia, per espormi a critiche e reazioni, ma a chiarire che per fare la pace bisogna preparare e praticare la pace.
Russi e ucraini, insieme
Aderisco alla Federazione internazionale dei Centri per l’esercitazione ai Metodi dell’educazione attiva, i CEMEA. E alla FICEMEA aderiscono russi e ucraini, insieme. Russi che oggi stentano a dire la propria idea, ucraini che a fatica cercano di immaginare un futuro libero (leggi anche Ciò che vogliamo fare). E allora per loro e in ogni modo possibile con loro, cerchiamo i modi di agire, di dirci, di praticare il pacifismo e la pace, andando in Ucraina con i Corpi Civili di Pace; convocando in quelle terre le Conferenze e i Negoziati; ristabilendo una sovranità collettiva sulle scelte di difesa che abbia l’autonomia di pensiero che un continente come l’Europa deve saper dimostrare; nutrendo di arte e cultura russe e ucraine le nostre rassegne e musei. Idee non mie, non esaustive, minimali forse, ma che lasciano uno spazio libero, tra noi e la condanna dell’altro, tra l’altro e il rifiuto della relazione.
Per fare pace si fa così, si comincia così, con un passo indietro, poi, allargando le braccia…
LEGGI ANCHE:
Al confine con l’Ucraina Acmos
Noi insegnanti russi, contro la guerra aa.vv.