Per ragionare di sperimentazioni didattiche, autonomia scolastica e partecipazione c’è bisogno di alternare racconti di esperienze con approcci più teorici, passare, ad esempio, da come l’arte e la danza possono favorire percorsi sull’intercultura all’importanza dell’apprendimento fuori dall’aula, da come i compiti a casa possono aggravare la condizione di svantaggio di bambini e bambine già penalizzati al bisogno di una scuola basata sulla fiducia e non sul controllo. Di certo, intorno a questi e altri temi emerge sempre più spesso il ruolo fondamentale degli insegnanti nel mettersi in gioco, sperimentare e innovare coinvolgendo studenti e studentesse, genitori e, prima di tutto, il territorio. Appunti di una discussione complessa e importante promossa da alcune associazioni genitori
DanzaMovimentoTerapia a scuola per scoprire la cultura come movimento. Foto di Fernando Battista
Vivere l’attuale momento di difficoltà per ripensare la scuola dell’oggi e progettare quella di domani, facendo uso della flessibilità consentita dall’autonomia scolastica: è il tema intorno a cui si è svolto il 28 marzo il terzo dei cinque incontri (qui il primo e il secondo) del ciclo di formazione e autoformazione organizzato dal gruppo Scuola e partecipazione delle reti Apriti scuola!, Rete romana delle scuole aperte e Scuole per il futuro, in collaborazione con Comune-info media partner.
Il dialogo a più voci provenienti dal mondo della scuola, introdotto e moderato da Solidea Bianchini, ha riconfermato la centralità dei docenti che si mettono in gioco, sperimentano e innovano, con il coinvolgimento di studenti e famiglie, insieme al territorio e alle reti in cui sono inserite le scuole. La sfida è adottare una “visione educativa” a tutto tondo della scuola e impiegare questo tempo prezioso di pandemia per progettare la scuola che verrà, con focus su strumenti, collaborazione e cooperazione per la crescita della comunità educante. Così i relatori, partendo dalle esperienze personali, hanno riportato sperimentazioni, modelli e linguaggi possibili nella scuola dell’autonomia.
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Fernando Battista, dottorando presso il Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Roma Tre, docente di scuola superiore, Danzamovimentoterapeuta-Apid, ci ha raccontato la sua esperienza dell’uso dell’arte, della danza e del corpo nell’intercultura che è anche oggetto della sua tesi di dottorato. La domanda “Da dove vieni?” va ribaltata in “Dove vai? Cosa vorresti fare? Qual è il tuo sogno e la tua aspirazione?”. È un’impostazione dell’intercultura che è o dovrebbe essere anche della scuola per alunni italiani e stranieri. L’intercultura non è una materia, ma una trama che si tesse in tutte le discipline. Insegnare, in una visione ecologica interculturale e umanizzante, è prendersi cura delle persone in senso ampio, capire le storie e i percorsi degli studenti, nella loro dimensione storica, geografica, sociale ed economica, al di là di una certa visione occidentale che può essere anche tossica, specie nella narrazione dei social cui sono esposti i ragazzi e le ragazze. Per questo, non basta l’improvvisazione, serve una formazione specifica per i docenti. Da qui nasce il progetto “Anime migranti”, ora rinominato “Pedagogia del confine”. La ricerca-intervento ha l’obiettivo di ribaltare il paradigma dominante mediatico e distorto e di partire dalla conoscenza diretta dei migranti e delle loro vite per decostruire stereotipi e creare pensiero critico, al riparo da narrazioni tossiche. Lo strumento usato è il linguaggio artistico del corpo e della danza, per superare le barriere e far parlare i ragazzi tra loro. Uno dei temi emersi dall’analisi dei risultati, riguarda una riduzione rilevante del pregiudizio manifesto e latente, e con questo la scoperta di sentirsi trasportati in una nuova prospettiva, un nuovo punto di vista da cui guardare il mondo. Questo permette di riposizionarsi all’interno del proprio essere con una maggiore consapevolezza, da un’esperienza di vita condivisa. Trovare un tempo per riflettere sull’esperienza ha permesso di essere più consapevoli della propria esistenza, e in diversi casi riformulare progetti, sogni o semplicemente guardare al futuro con occhi diversi. L’applicazione di questa modalità nella scuola di appartenenza, in orario extrascolastico, è stata facile, è bastato chiedere. L’importante è comunque trovare un dirigente “illuminato”, e non tutti lo sono. Complicato è stato trovare associazioni che potessero essere partner del progetto. Su questo terreno si sente un certo senso del “possesso”, che ostacola lo scambio e la collaborazione. Proporre questo o altri progetti nelle scuole incontra diffidenza e burocrazia, se non c’è qualcuno che li appoggia dall’interno. Questi sono gli ostacoli maggiori, soprattutto se si tratta di un percorso che prevede più incontri (otto) e non uno solo. Questione delicata è la sostenibilità economica del progetto, anche se innovativo: pro bono è più semplice, altrimenti bisogna passare da progetti PON o europei. Importante comunque la formazione dei docenti, per renderlo replicabile.
Lidia Cangemi, dirigente scolastico del liceo Kennedy, ci ha riportato l’esperienza dei modelli DADA e DADA-logica, applicati ormai in numerose scuole. Il modello DADA, nato sette anni fa nei licei Kennedy e Labriola di Roma, si basa sullo spostamento degli alunni, mentre l’aula è affidata al docente. Ci sono così le aule di fisica, di matematica, di inglese, etc. che sono funzionali a quello specifico apprendimento grazie a uno studio nell’allestimento, negli strumenti didattici a disposizione e alla flessibilità per i differenti utilizzi. Due anni fa è nato il modello DADA-logica per la scuola primaria, creato insieme al Centro Italiano Gestalt e alcuni specialisti dell’Università di Roma Sapienza. Parte dal presupposto che l’insegnamento deve lasciare spazio all’apprendimento, il bambino è immerso in uno spazio in cui fa esperienze, in cui sia possibile l’apprendimento continuo anche fuori dall’aula, come previsto dai modelli di outdoor education. L’insegnante è un mentore che guida i bambini nell’apprendimento esperienziale. Cura e amorevolezza coinvolgono tutti, ed è posta la massima attenzione all’ambiente anche secondo gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 e al contesto sociale. Il presupposto è che se bambini e bambine sono felici, questo contribuisce a creare un ottimo contesto di apprendimento che giova proprio delle emozioni positive. Attualmente ci sono oltre 100 scuole DADA e molti docenti sono in formazione. La formazione dei docenti delle scuole DADA-logica è essenziale, perché tutto si basa sul sentire, il corpo che sente e il docente che per primo sente. Si lavora innanzitutto sulle emozioni, ma anche sulle materie su cui si fa reale esperienza di apprendimento. Anche per le famiglie DADA-logica è prevista una formazione: affinché il progetto funzioni i genitori devono acquisire due attitudini, fiducia e affidamento, in modo che scuola e famiglia siano unite nel progetto formativo e il bambino viva in un contesto educativo coerente. Il Covid ha fatto emergere nuove soluzioni interessanti, la pandemia ha spinto a rivisitare il contenitore educativo e gli ambienti della scuola, portando innovazioni utili a superare questo momento emergenziale. Gli spazi fisici devono essere belli e colorati; vanno inoltre conquistati nuovi spazi, soprattutto outdoor. Puntare ad avere bambini più felici, sia come genitori che come educatori in questo momento è un dovere, ma bisogna uscire dall’area di comfort, rendersi conto di quanto sia necessario un reale cambiamento. Poi, quando sappiamo e siamo convinti del perché cambiare il come farlo è più facile. Se l’obiettivo è la felicità dei bambini, gli strumenti per realizzarlo si trovano attraverso l’alleanza tra scuola, famiglie e territorio.
Paolo Limonta, maestro elementare e assessore all’edilizia scolastica di Milano ci ha raccontato del movimento ‘E tu da che parte stai?’, nato un anno e mezzo fa, tra insegnanti, artisti, genitori, che ha poi lanciato il progetto della Scuola sconfinata. Il presupposto è che le scuole devono erogare felicità per bambine/i e ragazze/i e perché questo avvenga serve un’alleanza fra tutte le istituzioni del territorio che assumono la scuola a loro cuore pulsante. Le alleanze o complicità sono di varia natura. Tra scuola e genitori, la cui parola d’ordine deve essere la scuola dei bambini e non per i bambini, passaggio fondamentale per costruire la comunità-scuola composta da chi lavora nella scuola e genitori, associazioni di genitori, associazioni sportive, oratori. La prima alleanza che ci deve essere è comunque quella tra istituti scolastici. Troppo spesso l’autonomia scolastica è stata vissuta da alcune scuole in senso competitivo, alla rincorsa del castello pieno di progetti bellissimi, con livelli di iscrizioni predefinite, senza consultare altre scuole e senza definire un percorso comune. Un fenomeno di segregazione inversa: scuole in cui il 95% degli alunni sono figli di genitori italiani e scuole in cui il 65% sono figli di genitori stranieri (ndr per inciso, Paolo ha sottolineato la parola ‘figli di’, perché in un Paese civile i nati e cresciuti in Italia sarebbero cittadini italiani). Altro livello di alleanza e complicità è tra la scuola e il Comune, il Municipio nelle grandi città, che deve portare a uno sconfinamento della scuola nei territori intorno a sé e ad un’invasione da parte di questi. L’ente locale può attivare progetti per allargare la scuola oltre i propri spazi e includere gli spazi contigui all’edificio scolastico. Con l’“urbanistica tattica” sono stati pedonalizzati pezzi di vie o piazze davanti all’ingresso delle scuole, il che consente una maggiore sicurezza di ingresso e uscita, ma anche un effetto benefico di luoghi dove proseguono i percorsi di relazione scolastica tra docenti e studenti coinvolgendo genitori, nonni, zii ed altre persone. La pedonalizzazione può essere fatta da e con associazioni di genitori o chiedendo alla dirigenza scolastica, la quale può avanzare la proposta al Comune o al Municipio. Se c’è la volontà dell’amministrazione locale e se non si impatta su grandi arterie di scorrimento, il percorso amministrativo è relativamente semplice e veloce. Importante è anche il coinvolgimento nelle istituzioni dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze. Stiamo sperimentando da anni i consigli dei municipi dei ragazzi e delle ragazze, eletti dai loro compagni e che portano delle iniziative da realizzare nelle loro scuole o nel territorio, con percorsi privilegiati proprio perché portati da bambini e ragazzi.
Paolo Mai, dopo aver ringraziato per il tentativo di costruire un ponte tra insegnanti e genitori, chiave importante del cambiamento di cui abbiamo bisogno, ci ha raccontato dell’esperienza dell’Asilo nel bosco di Ostia. Le cose belle nascono da un bel gruppo, mai da una persona sola, quando le diversità riescono a integrarsi e costruire una sintesi. L’obiettivo principale è spargere più bellezza possibile nei confronti di tutti. La prima esperienza è stata all’interno della scuola pubblica, come progetto sperimentale. Dopo due anni l’iniziativa ha visto nascere due soggetti: l’associazione Manes e Asilo nel bosco. Tra i motivi della separazione: la frustrazione per le inutili burocrazie per ogni uscita, nonostante ci fosse il placet della dirigente e dei genitori, e vedere i bimbi delle altre classi che restavano a guardare a ogni uscita. Da qui l’intento di realizzare qualcosa che potesse essere d’esempio fuori dalla scuola. Il primo passaggio è andato bene. I bambini apprendono non solo le nozioni, ma anche altro, ad esempio l’autostima e la perseveranza. La fase due è stata quella di rompere la corazza di rassegnazione al peggio che c’è nella società tramite corsi di formazione in cui abbiamo incontrato più di 15.000 persone. Ora siamo nella fase tre in cui proviamo ad accompagnare nella sperimentazione di nuovi approcci nelle scuole statali. Un fattore importante è la complicità tra tutti gli attori in campo nella comunità scolastica. Altro fattore, la formazione e informazione dei dirigenti, degli insegnanti e dei genitori. Inoltre, la gradualità: la natura insegna che i cambiamenti debbono essere graduali. Lentezza e la valutazione/misurazione delle azioni e dei risultati. Questa strategia in alcuni contesti ha funzionato e in altri no. Perciò abbiamo osservato sia le possibilità sia le difficoltà che ci sono. Le difficoltà del sistema sono legate all’autonomia e ai vincoli normativi, tra cui il rapporto 1:25 (insegnante/alunni), la gestione del tempo rigida, la suddivisione del tempo in materie, sconsigliata dallo stesso MIUR. Tra i principali ostacoli, la paura di cambiare, che caratterizza sia insegnanti che genitori. Altro elemento critico è il malessere che si produce nella scuola: i tassi di burn out tra i docenti sono altissimi. Anche i genitori, poi, fanno vite di corsa e non sono contenti e rilassati. Dove invece il modello ha funzionato è nelle piccole scuole, si veda il movimento delle piccole scuole di INDIRE. Nelle scuole piccole, il lavoro è più facile. Un ostacolo di sistema: la scuola è sempre stata uno strumento attraverso cui il potere mantiene lo status quo, dove si formano lavoratori sottomessi, consumatori abulici e cittadini passivi. La struttura della scuola basata sul controllo e non sulla fiducia è il più grosso impedimento ad un cambiamento reale. Per questo è importante costruire un ponte tra le famiglie e gli insegnanti. Il primo sforzo che dobbiamo fare non è culturale, ma relazionale. Un professore che non si comporta bene probabilmente non sta bene perché il sistema vuole che sia così (probabilmente). Anche sentire le responsabilità legali non aiuta. Invece, serve stare bene, ascoltare i bisogni di tutti e la consapevolezza di essere parte attiva del sistema.
Federica Paoli, da molti anni insegna in un quartiere considerato difficile nel quadrante di Roma Nord Est, in particolare Casal Monastero, ha condiviso la sua esperienza di maestra e collaboratrice della dirigente scolastica. L’intervento è stato l’occasione per ripercorrere alcune tappe dell’autonomia scolastica, cui siamo arrivati per gradi, in concomitanza con altre riforme della società che cambiava, dalla l. 820/71, che ha istituito il tempo pieno, alla legge delega del 1973 e poi i decreti delegati del 1974, pietra miliare ancora oggi; poi la l. 517/1977, che ha permesso l’inserimento nella scuola comune (primi in Europa) degli alunni diversamente abili, fino ai gloriosi programmi del 1985 che hanno cercato di rispondere, e lo fanno ancora in parte, ad una scuola che era inadempiente nei confronti delle istanze della società complessa, una scuola centralista che non rispondeva più al cambiamento del mondo produttivo, alle sfide della trasformazione della famiglia e alla mutazione dei flussi migratori, fino ad arrivare all’art. 21 della legge 59/1997, che ha posto le basi dell’autonomia scolastica. Oggi ci troviamo a oltre venti anni dalla legge sull’autonomia che ha rinnovato profondamente la scuola e offre gli strumenti per quella flessibilità, organizzazione, efficacia ed efficienza necessaria a realizzare l’integrazione e l’utilizzo delle risorse per il successo formativo e scolastico degli alunni e per evitare la dispersione scolastica. In una breve digressione autobiografica, Federica ha raccontato di provenire da un contesto “borghese”: dopo una laurea in filosofia e una prima esperienza nel carcere minorile di Casal del Marmo, è approdata a San Basilio, considerato nell’immaginario collettivo romano una sorta di giungla amazzonica del crimine, ed essersi fermata lì per l’incantamento di una comunità educante in cui si lavora tutti insieme per vedere orizzonti e non confini. Non sempre se si è periferici si deve rimanere marginali. La scuola di Federica collabora da anni con il Terzo settore e partecipa a tutti i bandi possibili e immaginabili perché è alla costante ricerca di fondi. Il gruppo di lavoro è coeso e numeroso, guidato da una brava dirigente scolastica, Stefania Forte. Si progettano politiche di condivisione e tutto è incentrato sul rapporto con le famiglie. Il Comitato di quartiere vuole far diventare il quartiere il primo ecocompatibile ed ecosostenibile? La scuola assume questo come fulcro a cerchi concentrici, laddove la scuola stessa ha un ruolo propulsore. È stata allestita una sala multimediale per conferenze; si usano gli spazi verdi della scuola per gli orti urbani aperti al pubblico: è stata messa una compostiera per il recupero degli scarti alimentari dalla mensa e la scuola distribuisce il compost a chi lo chiede; sono state messe macchinette per la raccolta plastica e alluminio con buoni per materiale scolastico. La scuola è in una rete di scuole per il contrasto al bullismo che lavora in collaborazione con la questura. Si fanno laboratori di cinema (anche con la redazione di Comune-info, leggi Ciak, impariamo a litigare bene), cori dei ragazzi e degli insegnanti, la scuola senza zaino e la didattica integrata. Ogni giorno si cerca di fare una scuola differente: è faticoso, costa lacrime e sangue ma i riscontri positivi non mancano, a tutti i livelli.
Maurizio Parodi, dirigente scolastico e molte altre cose, si è agganciato alla discussione sui bisogni, sul benessere e sulle barriere che si frappongono quotidianamente, non sono solo fisiche o burocratiche, ma anche epistemologiche e pedagogiche, per focalizzare il tema dei compiti a casa. Nodo nevralgico nel rapporto tra scuola e famiglia, che si presta, al contempo, a invasioni di campo, rispetto reciproco di ruoli oppure disconoscimento. A questo tema complesso (come emerge dal sito www.bastacompiti.it, in cui è presente una petizione con molte sottoscrizioni) Maurizio ha dedicato la sua attenzione negli ultimi quindici anni. L’importanza del tema, che però non appassiona i professionisti della pedagogia, emerge dalla pratica quotidiana, che decide della qualità del lavoro degli studenti e delle loro famiglie. Per il relatore, nel primo ciclo di studi i compiti sono inutili e addirittura dannosi, valorizzano un sapere usa e getta, nozioni che non lasciano il segno, dopo tre mesi gli studenti non ricordano nulla. Inoltre spesso i compiti sono controproducenti perché aggravano la condizione di svantaggio di chi è penalizzato. Pratica discriminatoria perché indiscriminata: se uno stesso compito può essere gestito diversamente da studenti diversi, il rischio per alcuni è l’esposizione a fallimenti annunciati. Dunque alla fine aumenta lo svantaggio. Rispetto alla questione partecipazione e comunità educante, il relatore ci ha proposto una riflessione rivelatrice: attraverso i compiti la scuola tende a totalizzare l’esperienza dei ragazzi perché sono costretti a rinunciare a musica e sport, perché devono fare i compiti. Si danno compiti a bambini che fanno il tempo pieno, dopo otto ore di presenza come polli in batteria, in regime di alimentazione cognitiva forzata. Non è un problema di riforme pedagogiche più o meno evolute o sofisticate. Un minimo di buon senso dovrebbe consentire di prevenire questo tipo di fenomeni degenerativi. Colonizzare il tempo delle famiglie assegnando alle famiglie il ruolo di insegnanti complementari o lasciando soli i ragazzi. A scuola si deve imparare a imparare, ma invece i compiti fanno sì che si impari proprio nel posto dove non ci sono gli insegnanti. Il mercato degli insegnanti privati segna il fallimento della scuola. Maurizio ha osservato che gli insegnanti non tollerano alcun tipo di interferenza, tant’è che i patti di corresponsabilità educativa si risolvono spesso nell’assegnare i compiti alle famiglie, senza alcun tipo di riscontro. È corretto non tollerare interferenze sulle metodologie, ma un genitore dovrebbe poter chiedere perché si fanno cose difformi dalle indicazioni nazionali. Ci sono genitori che interferiscono nella didattica soprattutto nella scuola primaria. Succede però che allo stesso tempo ci sono insegnanti che decidono delle sorti delle famiglie. Abbiamo gli studenti più disamorati d’Europa dalla scuola perché la pratica dei compiti determina rigetto, crea conflitti con le famiglie sul mancato svolgimento dei compiti ed è difficilissimo intervenire, non esistono vincoli normativi ma non ci sono molti insegnanti che si pongono il problema. Gli insegnanti sono convinti che a scuola si insegna mentre a casa si impara a imparare. Bisogna poi evitare l’ossimoro dei compiti per le vacanze: sono vacanze per gli studenti e si debbono rispettare. Sembra una cosa banale, ma è difficile da applicare. Sembra che gli unici che beneficiano delle vacanze siano gli insegnanti, i quali invece impediscono le vacanze agli studenti. Inoltre ciascun insegnante dà i compiti senza coordinarsi con gli altri docenti. Per questo è stato messo a punto uno strumento “regola compiti”.
Il dibattito successivo agli interventi, molto stimolante, che si può ascoltare nella registrazione facebook dell’evento, suggerisce diverse piste di approfondimento di cui si potrà tenere conto nei prossimi passi del percorso.
A cura di Rita Coco, Francesca Della Ratta, Gianna Foschi
Prossimo appuntamento:
Domenica 18 aprile 2021, ore 18:
PATTI TERRITORIALI DI COMUNITÀ, SCUOLE APERTE
E RUOLO DEI DI COMITATI E ASSOCIAZIONI DI GENITORI