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Siamo in attesa della pubblicazione delle “Nuove indicazioni” e la settimana scorsa la professoressa Loredana Perla, scelta dal ministro Giuseppe Valditara per coordinare la riscrittura di quel documento che dovrebbero costituire l’orizzonte di riferimento per chi insegna, in una intervista al Fatto quotidiano ha sottolineato il valore educativo della “coercizione” con le seguenti parole: “Quando il ministro ha parlato di umiliazione credo intendesse approvare la coercizione. A volte si interpreta male la parola coercizione, necessaria a scuola. Dire cioè che gli studenti devono sapere che studiare è un obbligo, con tutto ciò che ne consegue. Siamo nel solco di un dovere, dobbiamo riscoprire la nostra identità”.
Ora basta aprire un vocabolario per scoprire cosa significhi la parola coercizione. Per il vocabolario Treccani indica “l’obbligare gli altri a fare o non fare una cosa, usando la forza o minacciando di usarla; coazione, costrizione, limitazione.”
Nel vocabolario De Mauro la parola indica “il costringere qualcuno, con la forza o le minacce, a fare o a non fare qualcosa contro la propria volontà: subire una coercizione, fare uso della coercizione.”
Trasformare le nostre classi in comunità fondate sul rispetto reciproco non è compito facile ed è opera che deve necessariamente iniziare fin dalla scuola dell’infanzia, perché la democrazia si apprende solo sperimentando nel quotidiano forme concrete di democrazia, come sosteneva il filosofo e pedagogista John Dewey. E allora affidare questo compito complesso a pratiche coercitive non solo è inefficace, ma va nella direzione contraria rispetto ai valori di un’educazione democratica e ai valori della nostra Costituzione.
Gentile professoressa Perla, non è che “si interpreta male” la parola “coercizione”, è che quella parola evoca la violenza, la costrizione e l’uso della forza. È su questi principi e con questi mezzi che si vuole ridare autorevolezza alla scuola e addirittura riscoprire la nostra identità?