Fare danza, teatro, fotografia, video con i giovani in Palestina per creare ponti con il resto del mondo. Proporre la sfida di sport estremi come la montagna o il surf agli adolescenti delle favelas in Brasile. Dedicare ogni sforzo a costruire la pace non in astratto ma a partire dall’attenzione all’infanzia, sulla strada aperta in Francia da Celestin Freinet. Ovunque, scrive Franco Lorenzoni, esistono territori educativi che inventano strategie completamente nuove per affrontare i danni della discriminazione che generano violenza. È questa la sfida della nonviolenza. È questo il tempo nel quale insegnanti, educatori, genitori sono chiamati ad assumersi in pieno la responsabilità del loro operare, oltre i confini della scuola e delle nazioni nelle quali vivono

Tornato dalle trincee della prima guerra mondiale, Celestin Freinet divenne socialista e decise che avrebbe dedicato ogni sforzo a costruire la pace, a partire dall’attenzione all’infanzia. Così, oltre a inventare straordinarie tecniche didattiche capaci di difendere la parola e la dignità dei bambini, questo maestro di campagna fondò la prima e unica Internazionale di maestre e maestri (FIMEM), che ancora oggi si riunisce ogni due anni in diversi paesi del nord e del sud del mondo. Nell’incontro tenutosi a Reggio Emilia nel 2016, fu particolarmente interessante ascoltare le parole del dottor Abdelfattah Abusrour, biologo palestinese iniziatore della “Beautiful Non-violent Resistance”, nei giorni dell’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano e dei missili lanciati da Hamas.
Nel 1998 ha fondato a Betlemme il Centro non-violento Aleowwad (Pioneers for life) che da allora non ha smesso di crescere.
“C’è chi afferma che non ci può essere al tempo stesso bellezza e resistenza e io invece affermo il contrario. Da sedici anni ciò che cerchiamo di fare a Betlemme, nel campo di Aida, è organizzare i giovani offrendo loro la possibilità di fare teatro, fotografia, danza, video, per creare ponti con il resto del mondo, promuovere imprenditorialità sociale e mostrare un’altra immagine del popolo palestinese e della nostra cultura. Cerchiamo di offrire un ambiente “sicuro” per stimolare la creatività nei bambini e dare alle donne la possibilità di uscire dallo stress delle condizioni di guerra. L’80% dei palestinesi non ha mai impugnato un’arma e allora perché non puntare sulla non-violenza, nella lotta per i nostri diritti. La guerra finora non ha fatto altro che peggiorare la situazione e dunque il compito educativo principale, per noi, consiste nel separare la lotta contro l’ingiusta occupazione dei nostri territori dalla violenza, che avvelena ogni cosa, lavorando concretamente per il rispetto dei diritti umani”.
Il suo gruppo ha animato la manifestazione che fermò anni fa l’auto di papa Francesco di fronte al muro eretto dal governo israeliano e, “quando abbiamo visto il papa scendere e pregare vicino a quel muro, che è un monumento all’impossibilità della convivenza, abbiamo pensato che lavorare sui simboli può forse dare più risultati che impugnare un’arma”. Quell’azione gli è costata la condanna a non poter più recarsi per due anni a Gerusalemme, dove vive la sua famiglia, ma Abdelfattah non arretra di un passo nella sua determinazione a proseguire le sue sfide impossibili.
“È difficile proporre la nonviolenza a ragazzi che vedono ogni giorno i propri genitori umiliati e assistono continuamente a scene come quella di giovani soldati israeliani che costringono padre o madre a spogliarsi in pubblico a un checkpoint. Solo l’arte e la bellezza ci possono salvare dal vicolo cieco in cui siamo. L’arte ci trasporta in altri mondi ed è proprio questo di cui abbiamo estrema necessità: immaginare un mondo completamente diverso da quello in cui viviamo ogni giorno, allargando la nostra visione delle cose”.
Hala Al-Yamani, una professoressa che lavora allo stesso progetto e insegna all’Università di Betlemme l’arte di raccogliere e raccontare storie, si è appena accorta che sul mappamondo che utilizziamo nel nostro laboratorio è indicato Israele ma non la Palestina. “Noi non esistiamo! – esclama avvilita – Per questo è tanto importante che i ragazzi possano uscire dal ghetto in cui ci hanno rinchiusi e girare il mondo”. Da alcuni anni il Centro organizza tournée in giro per l’Europa, in cui le ragazze e ragazzi che apprendono danze e canti tradizionali negli spazi ricavati tra le strette strade di Betlemme, portando la loro arte e la loro vitalità lontano da un territorio sovrappopolato, dove “ogni simbolo rimanda a un’idea di oppressione, perché a Betlemme ormai oltre il 90 per cento del territorio è stato occupato dai coloni”. “In questi anni siamo cresciuti, ora abbiamo dieci operatori pagati a tempo pieno e nove a metà tempo, oltre a venticinque volontari che vengono anche da altri paesi ad insegnarci teatro di strada, documentazione video e altri linguaggi per la nostra arte e la nostra resistenza all’ingiustizia”, mi dice mostrandomi orgoglioso una esposizione fotografica che documenta i modi di guardare la realtà dei bambini. Può apparire illusorio sostenere che la bellezza sia in grado di orientare in senso non-violento la resistenza, ma osservando i video con ragazzi pieni di gioia per aver fatto qualcosa per sé e non solo contro chi offende la loro dignità, si avverte che questa impresa, per certi versi temeraria, è piena di senso e prova ad aprire un varco per un futuro diverso di convivenza.
La scuola, in luoghi d’oppressione e di guerra, spesso sembra non farcela a offrire un’alternativa capace di visioni radicalmente altre, perché non si tratta di insegnare meglio, ma di avere il coraggio di rovesciare ogni cosa.
“Questo accade anche in alcune favelas del Brasile”, raccontava Vilson Groh, un prete della teologia della liberazione straordinariamente attivo, che a Florianopolis, in trentacinque anni di lavoro, è riuscito a mettere su una imponente rete di strutture educative per l’alternativa alla violenza, che accoglie ogni pomeriggio e fino a notte quasi 5.000 giovani dai sei ai ventiquattro anni.
“Il nostro compito principale è strappare i giovani al narcotraffico e a una cultura di morte. Negli ultimi anni abbiamo sperimentato che lo strumento più efficace per contrastare la violenza sta nell’offrire agli adolescenti la sfida di sport estremi come la montagna o il surf. Un ragazzo che gira per una favela con un’arma in mano sperimenta l’onnipotenza. Noi dobbiamo raccogliere quella tensione alla sfida e convertirla in qualcosa di vitale. Sembrerà strano, ma il più grande sostegno in questa impresa educativa l’abbiamo trovato nell’acqua dell’oceano, nella natura che non si può domare. Se hai di fronte un’onda alta metri sai che se sbagli puoi annegare. Lì sperimenti i tuoi limiti e affini la tua capacità di attenzione e di reazione in positivo, hai l’occasione di metterti in gioco lontano da uno scenario di guerra. Poi, naturalmente, organizziamo in parallelo corsi di educazione al lavoro e di formazione per l’ingresso all’Università. La cosa importante è che queste proposte educative le facciamo dove loro vivono, perché un ragazzo che ha sempre abitato in una favela non immagina neppure di avere il diritto a una borsa di studio e invece, ora, in tanti ce la fanno a mutare un destino che sembrava segnato”.
Per questo impegno Vilson ha ricevuto minacce, ma ormai la rete che unisce trenta Organizzazioni non governative ha un tale peso in questa città del sud del Brasile, che difficilmente può essere fermata.
Osservando l’apertura mentale e l’estrema duttilità degli strumenti sperimentati in queste esperienze, torna alla mente che spesso le più radicali innovazioni educative nacquero in luoghi di confine, come quelli sperimentati da Decroly e da Montessori, due medici che incrociarono la pedagogia scuotendone molte certezze. Ascoltando chi osa educare in territori dove sembra non esserci alcuna speranza di cambiamento, si ha l’impressione che questa sorta di pedagogia per luoghi di guerra riesca ad andare oltre l’orizzonte di stagnazione e di morte, che imprigiona nella violenza troppi ragazzi in troppi luoghi del mondo.
Celestin Freinet, radicalmente laico come sanno esserlo i francesi, forse si stupirebbe che il suo messaggio sia stato raccolto, tra molti altri, anche da un gruppo di musulmani praticanti in Palestina e da un prete in sud America, ma credo condividerebbe gli sforzi di chi inventa strategie completamente nuove per affrontare i danni della discriminazione che genera violenza, con la radicalità e l’audacia che lui ebbe a suo tempo.
In questi incontri internazionali la cooperazione educativa dimostra la vitalità di una minoranza di insegnanti che si assumono in pieno la responsabilità del loro operare, oltre i confini della scuola e della nazione in cui lavorano.