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Il primo giorno di scuola ha una grandissima importanza perché ogni inizio influenza grandemente ciò che verrà dopo. Purtroppo non insegno più perché sono in pensione da qualche anno, ma ricordo di essermi sempre chiesto come preparare con cura questo primo momento di incontro. Il piccolo suggerimento che mi viene da dare è che in questo nostro primo presentarci o ripresentarci a bambine e bambini (ma anche a ragazze e ragazzi più grandi) dovremmo sforzarci di far emergere con evidenza i due principali elementi che nutrono sempre l’artigianato dell’educare: Il nostro amore per la conoscenza e la capacità di accogliere e di stupirci di fronte a ciò che sanno ed esprimono le nostre allieve e allievi.
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Dobbiamo dunque progettare con cura una semplice proposta e azione educativa capace di dare voce ai loro pensieri, ai loro ragionamenti e alle loro emozioni. Espressione che non necessariamente deve essere a parole, perché ci si può esprimere e presentare agli altri con il gioco, la danza e il canto, con improvvisazioni corporee, piccole costruzioni o con la pittura, così poco praticata. Al tempo stesso credo sia necessario cercare i modi di mostrare ai nostri allievi con sincerità i nostri pensieri e le nostre emozioni, cercando di essere il più possibile aperti e autentici. Trovare le forme, cioè, per donare loro un frammento della nostra passione per la cultura e la ricerca, cercando il modo di mostrare quanto ci piace frequentare un’arte, una scienza, un linguaggio o una nostra peculiare curiosità verso il mondo. Tutto ciò, possibilmente, modificando lo spazio tradizionale dell’aula o ancor meglio uscendo fuori, all’aperto, in giardino (se c’è). Invitare insomma bambine e bambini in uno spazio che abbiamo pensato e preparato proprio per loro, e che in qualche modo mostri la nostra “casa”, il luogo dove dimorano i nostri pensieri e ragionamenti. Non sempre è facile e spesso la realtà ci spiazza, ma la nostra attenzione verso ciò che accade loro non dovrebbe mai lasciarci sopraffare. A questo proposito riporto qui il racconto comico del mio primo giorno nella scuola dell’infanzia di Amelia, così come l’ho narrato in Educare controvento (Sellerio). Una mattinata che ha il sapore dell’impaccio e dell’inadeguatezza inconsapevole che fa ridere.
È autunno e sto faticosamente ricostruendo la casa in campagna pressoché fatiscente che diventerà Cenci. Tra i calcinacci di un improbabile impianto elettrico che sto arrangiando arriva la comunicazione che il giorno dopo mi debbo presentare nella scuola dell’infanzia di Amelia per una supplenza. Penso alla vignetta di Schultz in cui Linus dice “la scuola non comincia, ti salta addosso”.
Più che altro, in questo momento, sento che la scuola mi sia caduta addosso e questa idea della caduta la porto con me senza saperlo perché la mattina dopo, non sapendo bene come cominciare con le ventisette bambine e bambini che ho di fronte, come prima cosa chiedo loro: “Qualcuno di voi si ricorda una volta in cui è caduto?” I bambini mi guardano stupiti e tutti in coro rispondono convinti che no, loro non sono mai caduti. Alle mie insistenze rispondono di nuovo uno a uno, convintamente, che loro non sono mai caduti.
Stupito e spiazzato dalle loro mancate risposte salgo sulla cattedra, mi arrampico sull’armadio e da lassù faccio un salto cadendo a terra tra le risate di tutti. Chiedo loro di saltare e cadere dalle seggioline e dai banchi e, in un trambusto generale, tutti cominciano a saltare e correre e ridere e spintonandosi, mentre cresce il volume dei loro cori e grida e risate.
Dopo un quarto d’ora di scatenamento cerco a fatica di riportarli alla quiete per parlare e raccontarci, ma naturalmente non ci riesco.
L’attitudine a provocare con facilità eccitazione e caos e a incontrare grandi difficoltà nel ristabilire ordine e quiete, già sperimentata negli anni delle supplenze alle elementari, appare ora ai miei occhi come un difetto ancor più grave, nel lavoro con le più piccole e piccoli.
Spaventata dal fracasso non abituale in quella scuola, una maestra più anziana ed esperta si affaccia alla porta e, vedendomi del tutto incapace di gestire la situazione, mi dice con aria materna e comprensiva: “vuoi del pongo?”.
La ringrazio, ma provo un’altra strategia. Chiedo a tutti i bambini di mettersi in cerchio a terra, dò loro fogli e pennarelli e propongo di disegnare la volta in cui sono caduti. Ora che i loro corpi si sono mossi, che hanno sbattuto e si sono rotolati a terra, tutti ricordano che, in effetti, tante volte sono caduti per le scale, dal seggiolone, dal letto o giocando con la sorellina. Nascono così, mentre disegnano, i loro primi racconti e questo mi conforta. L’ipotesi che il corpo in movimento rimescoli ricordi e faccia nascere idee ha la sua conferma e penso che prima o poi imparerò anche a riportarli a quella quiete che non ho e che vanamente inseguo.
Ci vorranno molti e molti anni invece per compiere un altro passaggio, decisivo per chi desidera educare alla libertà. Quello di cui si accorse Pier Paolo Pasolini dopo il suo primo anno di scuola sperimentato con sua madre in Friuli, a Versuta, quando scrisse:
“Capii che erravo credendo che il nostro rapporto dovesse essere un rapporto di reciproco amore: no, io dovevo mettermi in disparte, ignorarmi, dovevo essere mezzo, non già fine, d’amore”.
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