Qualche anno fa abbiamo chiesto a Maria De Biase di raccontare come e perché insieme a docenti, genitori e ragazzi ha trasformato per diverso tempo la scuola Teodoro Gaza di San Giovanni a Piro (Salerno) in uno strepitoso laboratorio di autoproduzione e di riciclo (per altro pluripremiato), dove ogni giorno coltivare orti sinergici e fare merenda con pane e olio. E dove, pur tra mille ostacoli, l’idea di apprendimento passa attraverso il saper fare e il fare insieme, ripensa le categorie dello spazio e del tempo, rompe schemi educativi e confini di sciocca legalità. Un’idea meravigliosa di scuola, un testo che andrebbe studiato, discusso e utilizzato ovunque per orientare molte attività educative e didattiche. Oggi Maria De Biase è dirigente scolastica dell’IC Torre Orsaia (Sa)
Questo articolo fa parte dell’inchiesta Tutti a tavola
Sono arrivata da Marano di Napoli a San Giovanni a Piro nell’estate del 2007, avevo in tasca la nomina a dirigente scolastico dell’istituto comprensivo del piccolo paese del Cilento e nell’animo la voglia di ricominciare. Mi lasciavo alle spalle oltre venticinque anni di lavoro come insegnante nell’hinterland a nord di Napoli, anni di lavoro spesi nei progetti di educazione alla legalità in realtà devastate dal degrado e dalla cultura mafiosa. Scappavo dalla frenesia delle emergenze, dalle discariche, dai veleni, dall’insopportabile violenza che pervade ogni aspetto della vita umana di quelle zone.
Sono figlia di contadini, nata e vissuta sempre in campagna, in una azienda agricola che, negli ultimi decenni, ha continuato a resistere ai continui attacchi del cemento, alle lusinghe della speculazione edilizia, alle minacce della camorra. Mi portavo dietro l’amore per la terra che avevo respirato nella mia famiglia, l’orgoglio di non aver accettato di far parte di una modernità barbara e arrogante. Ho sempre studiato, mi sono interessata di urbanizzazione delle zone rurali, e la terra dove sono vissuta mi ha fornito la materia prima per approfondire il fenomeno. Ho osservato le conseguenze della cementificazione selvaggia, il potere dei geometri, la perdita di “identità” delle comunità rurali, la negazione di ogni bellezza. Negli anni ho accumulato tante conoscenze ma anche tanto dolore per lo scempio che avveniva sotto i miei occhi. Terra dei veleni, terra dei fuochi viene definita. La terra che i miei nonni, i miei genitori, hanno coltivato con impegno e determinazione, permettendo a me e ai miei fratelli di studiare e di vivere con onestà e dignità è stata inesorabilmente attaccata, violata e contaminata.
Ma, evidentemente, la terra è anche una dimensione esistenziale che mi porto dentro, della quale non mi sono liberata nonostante avessi l’impressione che i miei studi e il mio lavoro mi avessero portata lontano dalle attività del mondo rurale.
Quando ho superato il concorso per dirigente scolastico avevo la possibilità di avere una sede vicino casa, continuando a lavorare nella dimensione illegalità dove, per altro, avevo acquisito notevoli esperienze. Ma ho voluto cambiare completamente vita, avevo voglia di misurarmi con una normalità che non avevo mai sperimentato. Volevo mettere in campo le mie capacità, la mia preparazione, lontano dal dolore di un’appartenenza che sentivo sempre più pesante. Una piccola casa con giardino di mia proprietà, il posto di preside, vacante da quell’anno, mi hanno convinta a scegliere di trasferirmi a Scario, la frazione marina di San Giovanni a Piro. Sono partita lasciandomi alle spalle una grande casa, solida e comoda, tanti amici, mi sono portata poche cose, qualche libro, il mio gatto e un sacco di sogni.
Didattiche centrate sulla ruralità
Ho raccontato tutto questo non per autocelebrarmi ma per spiegare da dove viene il mio impegno per le attività didattiche centrate sulla ruralità, nutrite dal timore che ciò che ho vissuto possa accadere ancora anche in luoghi sani come il Cilento.
I docenti ma anche tutta la comunità avevano delle grandi aspettative sulla nuova dirigenza ma erano esattamente contrarie ai miei propositi. Per loro ero la preside in arrivo da Napoli, giovane, moderna, avrei di sicuro portato delle novità urbane e certamente avrei favorito delle attività più nuove e più “civili”! Che grande delusione deve essere stato per loro ascoltare i principi a cui avrei legato tutte le attività della scuola. Infatti, i laboratori avrebbero avuto una connotazione eco-centrica e avrebbero ruotato intorno all’educazione alla ruralità. Sono stati, quindi, attivati, fin dal primo anno, laboratori di riciclo, di recupero di vecchi manufatti, di compostaggio domestico, intreccio di salice e ginestra per la costruzione di cestini e oggetti di uso comune, e vero pezzo forte… la costruzione di un orto sinergico!
In questi anni la scuola è cresciuta tanto su questi temi, da quel primo momento in cui Antonio De Falco e Angelo Avagliano ci formavano sull’agricoltura sinergica abbiamo fatto tanta strada e stiamo continuando ad andare avanti. Un anno fa abbiamo avuto la fortuna di ospitare una conferenza di Jairo Restrepo Rivera che ci ha sedotto parlandoci di agricoltura organica. Alla fine del suo discorso ha detto che una “escuelita asì puede cambiar el mundo”.
Orti che coltiviamo insieme
Abbiamo tanti orti che coltiviamo insieme, docenti, alunni e genitori, gli ortaggi vengono consumati nelle mense dove sono limitati i prodotti surgelati, dove è stato eliminato l’usa e getta, si utilizzano piatti di ceramica, bicchieri di vetro e si beve l’acqua in brocca. Abbiamo aderito alla strategia rifiuti-zero di Paul Connet. Non sono permesse le merendine confezionate, né altro cibo spazzatura, si fa merenda con pane e olio – prodotto da noi con le olive degli alberi millenari nei giardini delle scuole -, pane e broccoli, pane e marmellata, insalate varie, finocchi, frutta secca. Tutto sano, biologico, autoprodotto o offerto dalle famiglie. Nessun rifiuto, niente sprechi. La scuola ha proposto corsi di onoterapia e di permacultura, laboratori di produzione del sapone con l’olio esausto che la scuola raccoglie, laboratori sulle R magiche. Sono stati piantati una trentina alberi da frutto autoctoni che cominciano ad alimentare i bambini della scuola. È nata l’eco-merenda.
Gli alunni di quinta elementare, insieme alle maestre costruiscono presso le famiglie che ne fanno richiesta compostiere domestiche, le curano e ne seguono le fasi. A scuola vengono accolte tutte le proposte che ci permettono di lavorare sui laboratori centrati sull’ambiente, sulla difesa del territorio, sul recupero delle tradizioni, sull’ecosostenibilità. Riconosciamo la sobrietà e la solidarietà come valori da insegnare e praticare a scuola.
Qualche anno fa abbiamo aderito al movimento Transition Town, stimolando tutti a lavorare sui temi del cambiamento e della resilienza. Sono arrivati i riconoscimenti da tutta l’Italia per il nostro lavoro e per le buone pratiche che portiamo avanti. Siamo nel Cilento, dove è nata la dieta mediterranea, all’interno del Parco Nazionale. Ci aspettiamo che le istituzioni intervengano e adottino il nostro buon esempio. Per ora tutti tacciono.
Fin da subito cambiarono anche le mie abitudini, nel piccolo giardino di casa mia, insieme ai nuovi amici costruimmo una compostiera e un orto sinergico. Un’attività che da allora porto avanti con sempre maggiore impegno e passione. Autoprodurre il mio cibo mi ha insegnato un nuovo stile di vita che mi ha permesso di cambiare radicalmente approccio all’alimentazione, alla salute, al benessere. Ho recuperato calma ed attenzione, rifuggo dal superfluo e dal chiasso, vivo una vita fatta di lavoro, di semplicità, di silenzio, di studi e di tanta sana solitudine.
Preside terra-terra
Intanto a scuola, se da una parte si costituiva un buon gruppo di docenti e di personale che mi stavano vicino e mi sostenevano, dall’altra tanti mi erano ostili e boicottavano le attività e, nella migliore delle ipotesi, si dichiaravano perplessi. Sono stata definita “terra-terra” da qualche collega che riteneva così di offendermi! Invece l’appellativo di preside terra-terra è diventato, negli anni, quello che meglio mi definisce.
La maggior parte dei docenti è orgogliosa del proprio ruolo che rappresenta uno status sociale stimato e prestigioso. Stiamo parlando di una società, quella cilentana, che ha sofferto per secoli povertà e isolamento, legata a un’economia agricola e pastorale che a stento garantiva la sopravvivenza. I docenti, rappresentano una classe sociale che, a costo di enormi sacrifici, si è affrancata dalla povertà e dalla precarietà rientrando a pieno titolo nel ceto impiegatizio, lavoratori dal salario sicuro. Io, che invece gli ripropongo, a scuola, un mondo dal quale si erano con fatica liberati non vengo immediatamente approvata. La sfida è proprio questa. Con queste attività non si ritorna indietro ma si è nel proprio tempo, nella contemporaneità. Coltivare la terra, a scuola, favorisce l’acquisizione di una consapevolezza verso attività connesse al cambiamento, riposizionando la figura del contadino che abbandona l’immagine di povertà e di arretratezza e riconquista dignità con le sue competenze culturali, formative, sociali e tecnologiche.
Rompere gli schemi scolastici
Prendendosi cura dell’orto sinergico ci si prende cura anche di se stessi e degli altri, in totale comunione, con effetti positivi, poiché esso è la metafora dello stare insieme. Curare l’orto insegna agli alunni modalità virtuose da trasmettere e diffondere agli adulti e alla cittadinanza locale. Li aiuta a superare lo sterile schematismo dei saperi preconfezionati in favore di apprendimenti dotati di senso e di efficacia. Gli alunni e i docenti scoprono e recuperano: l’aiuto reciproco, la condivisione, la solidarietà, l’apprendere con allegria e applicare, quanto osservato in natura, alle personali relazioni umane, rompendo gli schemi scolastici, favorendo i rapporti interpersonali, superando i pregiudizi e rivelando le risorse altre di ognuno. In questi anni ho osservato sempre con attenzione i bambini che si prendono cura dell’orto e non mi è sfuggito il piacere del toccare, dell’odorare, di tutti i sensi attivati. Con i docenti abbiamo notato l’apprezzamento da parte dei ragazzi di avvicinarsi ed entrare nelle conoscenze attraverso modalità diverse che superano lo schematismo dell’eccessivo uso del cognitivo in cui l’alunno non è più solo testa ma conosce in tutta la sua interezza di corpo ed anima, cervello ed emozioni. I ragazzi coltivando l’orto hanno l’opportunità di scoprire la dimensione dell’attesa, parola quasi sconosciuta dai ragazzi, che insegna la pazienza, e la sintonia con le categorie spazio e tempo che in natura non corrono ma scorrono.
In un momento come questo, di crisi e di precarietà una scuola che realizza orti appare come una forma di resistenza contro l’omologazione dei gusti e l’appiattimento degli apprendimenti. Molti ragazzi recuperano speranza e ipotizzano nuovi percorsi e progetti per il loro futuro di contadini contemporanei. So che è un processo lento e faticoso ma sento che la scuola è un’istituzione che più di tutte può stimolare i giovani a intraprendere strade differenti, lontane dallo sviluppo e dal progresso ma verso esistenze più sane e umane. Tutto è possibile grazie alla passione di tanti docenti, genitori, collaboratori scolastici e sostenitori esterni.
La crisi internazionale, il disorientamento sulle cose da fare, la riscoperta dell’importanza del fare fanno riemergere i progetti di confine, i progetti che hanno scommesso sulla speranza dell’improbabile.