Imparare ad ascoltare con attenzione bambini e bambine, ragazzi e ragazze e a narrare sono qualità che chi insegna dovrebbe curare ogni giorno. Narrare, in realtà, è un atto di cui abbiamo profondo bisogno a ogni età. “La pratica del cerchio narrativo mostra quanto il racconto di sé possa divenire una sorta di dono reciproco… – scrive Franco Lorenzoni -, un terreno fertile di incontro con noi stessi e con gli altri di cui abbiamo necessità nella scuola e anche fuori…”. Tuttavia, quella fertilità per emergere deve essere accompagnata della consapevolezza che il proprio pensiero conti: per questo servono la predisposizione di uno spazio, non virtuale, e di un tempo in grado di creare un contesto particolare. In un libro sulla narrazione orale, Rami di uno stesso albero di Antonella Bottazzi, una ricerca che a Modena dura da vent’anni. La prefazione del libro
La mancanza di ascolto di bambini e ragazzi è uno dei grandi problemi che ha sempre avuto la scuola. Problema che si riesce ad affrontare e talvolta a risolvere solo quando noi insegnanti scopriamo e ci rendiamo pienamente conto di quanta ricchezza ciascun allievo possieda e quanto possa essere rilevante l’apporto che ciascuno di loro può dare nell’avvicinare gli oggetti di conoscenza che proponiamo in classe.
«La conoscenza dell’uomo ha questo di speciale – sostiene Italo Calvino – passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stessi».
Ecco allora che imparare ad ascoltare con attenzione chi abbiamo di fronte ogni giorno è una delle qualità che noi insegnanti dovremmo tenere in maggior conto e curare con più attenzione perché dovrebbe far parte della nostra cassetta degli attrezzi.
Il Movimento di Cooperazione Educativa, fin dalle sue origini, ha sempre dato grande valore all’ascolto e alla narrazione, esplorata nei più diversi modi. Ma questo libro narra un’esperienza particolare perché a Modena, c’è un nutrito gruppo di insegnanti che ricerca intorno alla narrazione orale dal 1999. Ora, se un gruppo sorto alla fine del secolo scorso, prima dell’attentato alle torri gemelle e quando ancora i social non avevano invaso le nostre vite, porta avanti così a lungo una ricerca è interessante capirne le ragioni.
Sicuramente risponde al bisogno che molti abbiamo di confrontarci e lavorare insieme tra compagne e compagni di mestiere, ma sono convinto che il segreto di tanta longevità si nasconda anche – e forse prevalentemente – nell’oggetto della ricerca che da vent’anni le amiche e amici di Modena esplorano in lungo e il largo.
Narrare è un atto elementarmente umano di cui abbiamo profondo bisogno a ogni età. Molte e molti di noi, quando abbiamo scoperto la narrazione orale come pratica collettiva di ascolto attento tra adulti, abbiamo sentito il desiderio di costruire contesti capaci di farlo vivere e durare. Prima ancora di sperimentarlo con bambini e ragazzi come efficace strumento didattico, lo abbiamo vissuto come terreno fertile per noi come persone, perché capace di alimentare l’intreccio tra le nostre memorie più profonde e il nostro modo di guardare al mondo e alla storia.
La narrazione è divenuta così una sorta di appuntamento sentito come vitale e necessario, come luogo protetto, come spazio di ricerca, come allenamento all’ascolto e alla sincerità, in primo luogo con noi stessi. La pratica del cerchio narrativo mostra inoltre quanto il racconto di sé possa divenire una sorta di dono reciproco. Rappresenta dunque un terreno fertile di incontro con noi stessi e con gli altri, di cui abbiamo necessità nella scuola e anche fuori, perché alimenta relazioni in cui ci sentiamo liberi di essere maggiormente sinceri perché siamo consapevoli che stiamo tentando di attenuare l’onnipresente giudizio e pregiudizio, che tanto male fa alla scuola e alla vita.
Leggendo queste pagine di Antonella Bottazzi incontriamo non solo la vitalità pratica del cerchio narrativo, ma anche le molteplici strade di ricerca che apre nel vasto campo delle relazioni educative.
Il testo presenta e ben rappresenta le radici e il terreno in cui è nato e si è sviluppato nel tempo l’albero modenese della narrazione con i suoi diversi e rigogliosi rami. Offre inoltre la possibilità di gustare i molteplici frutti generati in questa lunga ricerca perché permette di arrivare alle diverse sperimentazioni attuate attraverso numerosi link, archiviati nel vasto archivio di Memo, il centro di documentazione del Comune di Modena che ha un vasto repertorio di buone pratiche e negli ultimi anni ha accompagnato la ricerca, contribuendo a diffonderla nelle scuole modenesi.
Negli anni il gruppo ha esplorato in diverse direzioni, sperimentando e costruendo contesti ricchi, talvolta audaci, sempre generativi: dall’esperienza di incontro tra adolescenti e bambini dei nidi al coinvolgimento dei genitori attuato in diverse forme; da una ricerca con adolescenti immigrati di seconda generazione ad esperienze proposte in zone colpite dal terremoto.
Il percorso qui tracciato presenta l’albero della narrazione come tronco ben radicato in grado di moltiplicare i suoi rami che talvolta salgono in alto, sfidando la gravità, come l’esile pianta dei fagioli raggiunge altri mondi in certe fiabe o come l’albero cosmico di diverse tradizioni culturali unisce terra e cielo. E poiché uno dei nodi cruciali dell’educazione sta nell’arricchire e provare ad ampliare l’immaginario di bambine e bambini, di ragazze e ragazzi, è importante constatare quanto il raccontarsi storie partendo da sé apra a nuove prospettive, spesso inaspettate. È ciò che sottolinea Antonella Bottazzi quando scrive:
“Mi piace pensare che ragazze e ragazzi possano vedere il proprio futuro attraverso il racconto della vita di altri e possano immaginare sbocchi mai pensati per il futuro loro e dell’umanità”.
Aggiunge, tuttavia, una notazione fondamentale: si può “riflettere su grandi temi” solo quando si ha “la consapevolezza che il proprio pensiero conta”.
E qui torniamo al punto di partenza, perché non si può affrontare la fatica del conoscere e dell’apprendere se non si sente che il proprio pensiero è degno di essere accolto e ascoltato.
In tanti anni di esperienze intorno alla narrazione orale, i cui primi esperimenti risalgono per noi della Casa-laboratorio di Cenci e del gruppo romano del Mce addirittura a quaranta anni fa, abbiamo più volte constatato che il principio che rende possibile la creazione di un cerchio narrativo, risiede nella concreta predisposizione di uno spazio e di un tempo in grado di costruire un contesto in cui tutti si sentano ascoltati e, dunque, si sentano liberi di narrare storie che in altri luoghi non avrebbero narrato. Storie sopite, acquattate nell’intimità di ciascuno di noi, che forse non avremmo avuto l’opportunità e il coraggio di condividere con altri e che, talvolta, non sapevamo neppure di possedere perché, non trovando la strada per venire alla luce, non avevano mai preso forma.
Più volte ci siamo sorpresi di scoprire come la nostra memoria prenda forme inaspettate quando incontra e si intreccia con altre memorie, quando nel lavoro in coppia ci scambiamo le nostre narrazioni facendo io mia la tua storia, mentre tu fai tua la mia. E nel dare voce a un frammento di vita non tua si crea quella condizione di ascolto generata dalla responsabilità di un gesto e di una postura che intuisce – mi viene da dire fisicamente, perché la voce è corpo – quanto sia delicato l’atto di dar vita a una memoria altrui.
“È possibile entrare nel sogno di un altro?”, ci domandò più volte anni fa Nora Giacobini, grande maestra di narrazione del Movimento di Cooperazione Educativa. Nei sogni notturni probabilmente no, ma se intendiamo il sogno come visione o come memoria narrabile, allora ecco che si apre uno spiraglio in cui la memoria del nostro compagno d’avventura può essere esperienza viva anche per me, ecco che si svela il segreto di quella grande trappola in cui inesorabilmente tutti cadiamo quando ci troviamo a narrare accadimenti ed emozioni vissute, che mai avremmo pensato di condividere.
Paradossalmente la narrazione orale, una volta sperimentata, la sentiamo necessaria perché intreccia l’intimo e il sociale, come in tutt’altro terreno in tanti si illudono di fare nei social. La differenza cruciale è che, mentre dietro a uno schermo spesso ci si nasconde, si può fingere e prevale la “maschera sociale”, perché ha grande peso ciò che gli altri si aspettano da noi, quando ci ritroviamo nel cerchio narrativo la relazione diretta e lo scambiarsi parole corpo a corpo ci spingono a esplorare noi stessi con ben più profonda autenticità. Lo dice bene Wilfed Bion quando afferma:
“Pare che abbiamo bisogno di rimbalzare su un’altra persona, di avere qualcosa che rifletta indietro quello che diciamo prima che possa diventare comprensibile. C’è bisogno a volte di essere presentati a noi stessi”.
La narrazione orale che prende forma nel cerchio narrativo qui ben raccontato, credo dimostri compiutamente questa possibilità. Dobbiamo essere grati alla testarda costanza del gruppo di Modena, per i tanti stimoli che offre a una ricerca destinata a durare ancora.
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L’autrice, Antonella Bottazzi, è insegnante di scuola primaria, ha partecipato per molti anni agli incontri formativi sulla narrazione orale presso la Casa Laboratorio di Cenci. Collabora con il gruppo di narrazione orale di Modena, dove conduce stages di formazione per docenti ed educatori.