Torino vista da sopra è seduttiva e godibile, vista da sotto è una città che sa farsi maledettamente complicata, a volte addirittura cattiva. “A dispetto di una vocazione alla solidarietà molto diffusa, questa città, verticale come poche altre, non ascolta i messaggi che arrivano dal basso, dai margini”, spiega Marco Arturi. Una città in cui l’aspettativa di vita degli abitanti della zona precollinare è di 4,3 anni superiore a quella di chi vive nel quartiere operaio delle Vallette. Ma non è tutto nero, nella città verticale: a trasformare non luoghi in territori vivi, malgrado tutto, ci sono molte realtà, dal Gruppo Abele alla Casa del quartiere “Bagni pubblici Via Aglié”, dal circolo Arci Molo di Lilith al centro sociale Askatasuna, dall’Arsenale della pace fino alle esperienze del progetto comunale Torino social factory. “Sarebbe il momento giusto per concedere un po’ di ascolto e di protagonismo ai margini, anzitutto nell’interesse dei giovani…”
Torino vista da sopra è seduttiva e godibile: il reticolo di strade porticate, le meraviglie architettoniche, il Po e la collina, gli angoli suggestivi che a volte ti pare di essere a Parigi, i locali le botteghe artigiane i caffè storici gli eventi, da qualche anno a questa parte anche i turisti, specie stranieri, che arrivano alla scoperta dei tanti tesori nascosti di una città ricca di fascino e di suggestioni. È cambiato molto e il momento chiave è stato il 2006, l’anno olimpico nel quale Torino si è scoperta diversa e ha abbandonato quel pudore o quella scarsa considerazione di sé stessa che le impedivano di mostrarsi al mondo.
Torino always on the move (Torino non sta mai ferma) e Passion lives here (la passione vive qui) erano gli slogan di quella che sarebbe risultata una svolta epocale, come ormai ammettono perfino i detrattori più agguerriti della festa a cinque cerchi. In realtà è durata poco, perché la crisi del 2008/9 da queste parti ha colpito duro ma anche perché una certa attitudine della città a rimirarsi allo specchio si è rivelata controproducente: Torino non si muove più così tanto, specie dal punto di vista culturale – citofonare Appendino, direbbe qualcuno – e la sua passione è rimasta impigliata in una narrazione (anzi, usiamo il termine storytelling che è più appropriato) invariabilmente ambientata nei pochi chilometri quadrati di uno dei centri storici più accoglienti, vivibili e trendy d’Italia. Peccato che si tralasci tutto quello che c’è intorno. Dove la storia cambia, e nemmeno poco.
Torino vista da sotto è una città che sa farsi maledettamente complicata, a volte addirittura cattiva. A dispetto di una vocazione alla solidarietà molto diffusa, questa città, verticale come poche altre, non ascolta i messaggi che arrivano dal basso, dai margini. E dire che sono abbastanza espliciti: i flussi elettorali di tutte le ultime elezioni vedono quel che resta della sinistra affermarsi solo nei quartieri ricchi della collina e in qualche circoscrizione del centro. Tutto il resto della città ha deciso di consegnarsi al qualunquismo a cinque stelle e alle pulsioni autoritarie e xenofobe della Lega. Non è un caso se la sceneggiata delirante dei forconi ha avuto presa qui più che altrove. Vista da quartieri come Barriera di Milano e Falchera, questa è una città che isola, che schiaccia, che esclude. Molti torinesi leggerebbero con disappunto queste righe, pensando che siano dettate da un condizionamento ideologico. E allora lasciamo la parola ai fatti, ai dati, ai numeri. Primi tra tutti quelli di una ricerca della quale non si è mai parlato abbastanza: nel 2015 l’epidemiologo Giuseppe Costa cura il rapporto L’equità nella salute in Italia, nel quale emerge che l’aspettativa di vita degli abitanti della zona precollinare di Torino è di 4,3 anni superiore a quella di chi vive nel quartiere operaio delle Vallette. Dal dettaglio emerge che la differenza tra le sottozone con l’aspettativa più alta e quelle con l’aspettativa più bassa supera i sette 7. Tradotto in termini brutali, se nasci in un quartiere agiato anziché in uno operaio hai buone probabilità di vivere diversi anni in più. Forse possono aiutare a comprendere la situazione reale anche i dati riguardanti la disoccupazione giovanile, che si attesta (dicembre 2019) al 33,4 per cento, con le punte massime che neanche a dirlo si registrano nelle zone ai margini.
Precari nella metropoli operaia
La situazione era questa e la pandemia non ha fatto altro che aumentare le differenze di chi già si trovava in difficoltà. Dicono tutto a riguardo le file registrate agli sportelli comunali quando ad aprile il governo ha varato la misura dei buoni spesa destinati a chi si era ritrovato escluso dalla lotteria dei bonus e da qualunque forma di sostegno al reddito. Un esercito di precari, invisibili, intermittenti, lavoratori in nero e disoccupati che la città si rifiuta di ascoltare e di guardare, forse perché ha paura di vedere nello specchio un’immagine ben diversa da quella dello storytelling monco che viene buono per attirare i turisti ma non per chiamare le cose con il loro nome.
Due monarchie (i Savoia e gli Agnelli) hanno lasciato il segno nella coscienza collettiva di una città caratterizzata dalle contraddizioni e da una certa mancanza di memoria. La metropoli operaia per eccellenza che nel 2003 accorre in massa – oltre 110mila persone – a rendere omaggio alla salma dell’Avvocato nella camera ardente del Lingotto e che tre anni dopo si manifesta con meno di 5mila presenze ai funerali dei ragazzi morti nel rogo della Thyssenkrupp; le periferie come quella di Mirafiori sud, dove ogni via porta il nome di un eroe della Resistenza che però resta sconosciuto ai giovani e dove il rumore cupo dell’intolleranza salviniana continua a riscuotere consensi.
Riconoscere chi e cosa, in mezzo al nero, non è nero
Non è tutto nero, nella città verticale. Per rendersene conto basta fare un salto al Molo di Lilith, un circolo Arci nato quasi sette anni fa con l’intento di rendere l’accesso alla cultura possibile anche a chi non ha i mezzi economici: da loro puoi andare a vedere uno spettacolo teatrale o musicale o la presentazione di un libro senza biglietto di ingresso e senza obbligo di consumazione. Oppure al centro sociale Askatasuna, sempre molto discusso per via dell’intransigenza delle sue posizioni e vicinissimo al movimento No Tav, che opera molto a livello sociale nel suo quartiere e si batte in molti modi contro gli sfratti. Poi ci sono realtà “storiche” come il Gruppo Abele e l’Arsenale della pace, che non hanno bisogno di presentazioni. E ancora: la Casa del quartiere di Barriera di Milano, “Bagni pubblici di via Aglié”: un centro interculturale nel cuore di uno dei territori più problematici della città, un luogo di aggregazione e inclusione nel quale convergono le attività di diverse associazioni di volontariato.
Torino social factory, invece, è un progetto del Comune che va segnalato (almeno per l’intenzione): è nato per supportare economicamente progetti di innovazione e di inclusione del terzo settore, con particolare riferimento alle aree a elevata criticità socio – economica. A oggi ha accolto venticinque progetti con uno stanziamento complessivo di 1,4 milioni di euro.
Insomma, a Torino le energie e le intelligenze non sono mai mancate, forse proprio questo nella sua drammaticità sarebbe il momento giusto per concedere un po’ di ascolto e di protagonismo ai margini, anzitutto nell’interesse dei giovani. Soprattutto di quei ragazzi che cercano uno straccio di senso di appartenenza nel fine settimana lungo le strade dei quartieri – divertimentificio, dove spesso non raccontano alle ragazze di lavorare in fabbrica. Perché qui, in quella che è stata la città operaia per eccellenza, ci si vergogna di essere un operaio. E si fa di tutto per nascondere e per dimenticarsi, anche solo per una sera, di essere uno che la città verticale è costretto a guardarla da sotto.
L’articolo di questa pagina fa parte dell’inchiesta TORINO HA BISOGNO DI RIPRENDERE FIATO: da “La città ai ragazzi” di quarant’anni fa alla “Scuola di quartiere” promossa da Acmos in estate, Torino ripensa la relazione scuola-città. Un’inchiesta indaga quel tema e racconta un territorio con cicatrici rimosse (lo dimostrano i fatti del 26 ottobre), ma anche energie per cambiare l’ordine delle cose. Una città che dovrebbe smettere di correre. Interventi di Diego Montemagno, Gabriele Gandolfo, Marco Arturi, Emilia De Rienzo, Marco Revelli Gigi Eusebi, Libera Piemonte, Fooding – Alimenta la solidarietà, MAG4 Piemonte, Camilla Falchetti.