
“Ho iniziato il mio lavoro facendo film per bambini (…). Poco a poco ho trovato in me stesso qualcosa che mi ha avvicinato molto a loro… Anche la nascita di mio figlio ha avuto il suo peso. Se all’inizio si è trattato soltanto di un lavoro su commissione, il rapporto successivamente è cambiato. Ecco perché i miei film ruotano spesso intorno al mondo infantile. Adesso è da tempo che non lavoro coi bambini, che non li ho più davanti alla cinepresa, e comunque vorrei poter guardare il mondo con il loro sguardo. Dopo aver lavorato per anni con loro, ho imparato che sono molto più adulti degli adulti. Se c’è qualcosa che accomuna i miei film e forse lo si percepisce vedendoli, penso che abbia a che fare con il modo di vedere dei bambini” (Abbas Kiarostami)
Dai bambini, è vero, si impara molto se solo lo si vuole, anche quando la comunicazione con loro sembra difficile. Bisogna osservali, lasciar loro lo spazio per esprimersi liberamente, bisogna che si sentano accettati così come sono e ascoltati.
In Dov’è la casa del mio amico? (1987) il piccolo protagonista del film di Kiarostami vuole restituire il quaderno di un compagno finito per sbaglio nella sua cartella, ma non sa dove abita. Chiede agli adulti, ma nessuno gli dà risposta e allora sfugge al loro controllo e si avventura da solo. C’è in lui il desiderio di rivendicare un proprio spazio di libertà, di fare ciò che gli sembra giusto al di là del parere dei grandi: “fare ciò che sembra giusto”, appunto, un piccolo gesto rivoluzionario, che forse in un paese come l’Iran e non solo, un bambino ricorda agli adulti. Non sempre si deve obbedire se ciò che si chiede va contro il proprio sentimento morale.
C’è una muta distanza generazionale, ma questa distanza per Kiarostami può diventare un punto di una felice rottura tra quel mondo, così insensibile come quello degli adulti e quello dei bambini, che non possono rinunciare a mettere un fiore nel quaderno del proprio compagno di banco in difficoltà.
Kiarostami racconta attraverso modelli poetici e metaforici che la censura iraniana rendeva quasi obbligatoria (i film di Kiarostami non hanno mai avuto grande appoggio in patria), e che lo ha spinto a costruire immagini sempre più rarefatte e “astratte”.
In Dov’è la casa del mio amico? c’è un maestro, un inflessibile docente che mantiene la disciplina con eccessiva severità e che non ammette, soprattutto, errori e dimenticanze. La prima lunga sequenza di apertura nell’aula elementare dà subito l’idea di una storia abitata da adulti indaffarati, disattenti, autoritari e punitivi. Di fronte a loro un mondo di bambini su cui esercitano un potere assoluto, bambini a cui s’insegna solo la parola disciplina, si ordina di fare questo o quello, si è sordi alla loro richiesta di aiuto.
In questo contesto un giorno, a lezioni finite, Ahmad si accorge che il quaderno di un bambino, spesso rimproverato dal maestro, è finito per sbaglio nella sua cartella. Per evitargli l’ingiusta punizione, egli decide, allora, di riportarglielo.
Chiede il permesso alla mamma ma lei non ha tempo per dargli retta, presa com’è dalle faccende domestiche. Gli ordina, invece, di fare qualche commissione e esige da lui che completi i suoi compiti prima di uscire a giocare. Ma Ahmed non intende desistere e trova una scusa per fuggire alla ricerca della casa del suo amico. Di mezzo si mette anche il nonno che, vedendolo correre per strada, lo chiama e lo manda a comprargli le sigarette. Finalmente il ragazzo si incammina verso il villaggio del suo amico, ma quando vi giunge resta intrappolato nel dedalo di viottoli ed è impossibile orientarsi. Sul volto del bambino crescono la stanchezza e lo smarrimento.
Ahmed arriva a pochi metri dalla casa del suo amico. È già buio e lui è solo, guarda davanti a sé, in fondo al vicolo c’è la fine del suo viaggio, ma ecco che si sente abbaiare un cane. Ahmad si spaventa e decide di tornare indietro.
Una volta a casa salta la cena e si ritira a fare i compiti e pensando ancora all’amico, decide di farli per sé e per lui. Il giorno dopo consegna il quaderno a Mohamed, un attimo prima della correzione dei compiti. Il maestro non si accorge di nulla, sigla il compito di Mohamed ed esclama: “Ben fatto!”.
Nel film si può notare anche l’utilizzo degli elementi architettonici del cortile e dell’abitazione per sottolineare il regime di chiusura, fatto di obblighi e divieti, cui viene sottoposto Ahmad. E il sentiero a zig zag vuole far intendere quanto il cammino non sia lineare…
“C’è una collina tra i due villaggi – dice Kiarostami – e sulla cima della collina un albero, che nella nostra letteratura è simbolo di amicizia. Il continuo correre di Ahmad rappresenta le difficoltà per poterla raggiungere”.
Centrale nel film è il rapporto tra il protagonista e gli anziani. A partire dalla nonna, che ripete all’infinito una serie di regole di comportamento di tipo formale, come quella di togliersi le scarpe prima di entrare in casa; proseguendo con i due vecchi incontrati a Posteh, che parlano dell’importanza, per un bambino, del rispetto della tradizione.

Da ricordare, ancora, la figura di un altro compagno di Ahmad, incontrato lungo la strada, costretto dai familiari a trasportare pesantissimi secchi pieni di latte. Nel film viene sottolineato il ruolo indiscutibile esercitato dalla tradizione all’interno della comunità e la totale subordinazione a cui i bambini e i giovani dovrebbero sottomettersi.
Un contorno povero, ma intensamente umano. Un Kiarostami, che fugge dallo stereotipo del cinema politico e polemico di altri registi arabi per dare una visione dell’infanzia iraniana che non condanna ma nemmeno assolve la sua società, dove i bambini e i vecchi, vagano, gli uni alla ricerca del futuro (in questo caso molto lontano ma anche molto vicino) e gli altri in cerca del passato, cui si aggrappano malinconicamente.
Elogio della solidarietà fra i ragazzi, il film è peraltro un atto d’accusa contro l’educazione autoritaria e repressiva impartita da una società arcaica a un’infanzia cui non è riconosciuto nemmeno il diritto di essere ascoltata.
Ed è importante sottolineare la strategia narrativa costante con cui si fa puntualmente slittare il momento dell’incontro tra i due protagonisti, rendendo Ahmad davvero troppo piccolo in confronto all’impresa che deve svolgere. Compiti apparentemente piccoli sono in realtà mete difficili da raggiungere per un bambino, compiti che però ne costruiscono il senso di responsabilità e di libera iniziativa.
Infine l’amico è molto di più che l’amico concreto, allude a una ricerca più profonda, è l’esistenza di un amico l’interrogativo centrale: il bambino non avrà mai una piena risposta alla domanda “Dov’è la dimora del mio amico?”, ma anche se una risposta definitiva e certa non c’è, continuare a cercare è la cosa importante. La ricerca è la cosa importante, è tensione verso la vita… raggiungere la meta è adagiarsi…
Ma dietro questa apparente semplicità si nascondono significati più profondi. Il film è una parabola sul bisogno di comunicazione, sul desiderio di cambiare un ordine vecchio con un ordine nuovo.
Una storia dalla trama semplice, quindi, come tutti i film di Kiarostami.“Dov’è la casa del mio amico ?” è ispirato a una poesia di Sohrab Sepehri, citato nei titoli di testa. La poesia dice:
Tu andrai in fondo a questo viale /
che emergerà oltre l’adolescenza, /
poi ti volterai verso il fiore della solitudine. /
A due passi dal fiore, ti fermerai /
ai piedi della fontana da dove sgorgano i miti della terra…
Tu vedrai un bambino arrampicato in cima a un pino sottile, /
desideroso di rapire la covata del nido della luce /
e gli domanderai: dov’è la dimora dell’Amico?