Fare il pane è un rito che dovremmo riscoprire più spesso in tanti non solo per mantenere vivo un patrimonio straordinario di saperi che ha più o meno diecimila anni e che ha nutrito popoli diversi ovunque, alimentando anche arte e poesia. Dovremmo fare nostro quel rito perché quando si prepara e si condivide (cum panis) il pane comincia a sentirsi profumo di comunità e perché il tempo dell’attesa, quello che serve al lievito, è tempo sottratto alla mercificazione della vita. “Il pane è già un mondo – scrive Rosaria Gasparro, per molti anni maestra a San Michele Salentino (Brindisi), dove fa parte dell’associazione Attacco poetico – ed è anche un modo da cui imparare a vivere…”
Questo articolo fa parte dell’inchiesta Tutti a tavola
Ci piace del pane il suo essere così semplice nella composizione, eppure così profondo nel significato. Quel suo raccontare le storie plurali della nostra quotidianità. Il suo odore, l’umanità che contiene, il suo essere contro la fame. Il suo far parte del nostro destino. Ci piace mangiarlo per introdurre dentro di noi la sua pace. Ci piace quel suo essere corpo materiale che rinvia a qualcos’altro, cibo che sfama e che pure non basta. Carboidrato della terra che si trasforma in proteina celeste, come dice Erri De Luca.
“L’universo comincia con il pane” scrive Diogene Laerzio tramandando un detto antico di Pitagora. E infatti nel pane troviamo i quattro elementi che sono alla base dell’Universo: la terra che dà il frumento; l’aria per la lievitazione; l’acqua per impastare; il fuoco per la sua trasformazione, per la cottura.
Il pane è già un mondo ed è anche un modo da cui imparare a vivere. Il gesto del pane, un rito che dovremmo reintegrare dentro di noi. Non solo per mantenere viva una conoscenza che ha più o meno diecimila anni, che ha nutrito popoli diversi, che ha attraversato lo spazio e il tempo, seguendo la via del sole, da oriente – dove pare sia spuntata la prima spiga, nella Mezzaluna fertile – ad occidente; una conoscenza che si è fatta tradizione, che si è arricchita di viaggi conservando sapori e nostalgie, diventando una grande storia, ricca di sapienza e di poesia, di arte e di fede.
Pensiamo al significato reale e simbolico del fare il pane: il prepararlo in famiglia che diventa comunità, il suo farsi cum panis, compagni che condividono il pane; il tempo dell’attesa, della pazienza, quello che serve al lievito per farlo gonfiare; un tempo lento perché come dice Rilke il poeta
“Siamo sempre sospinti.
Ma il passo del tempo,
non è che un’inezia…
Ogni cosa che s’affretta
sarà presto trascorsa;
solo quel che rimane
ci inizia al sacro”.
Il pane ha questa lezione magistrale da darci: dovremmo essere disponibili come la farina a farci impastare dalla vita, a consacrarne la sacralità, per trasformarci in nutrimento per noi e per gli altri. Diventare come il lievito, cellule vive, invisibili ad occhio nudo, capaci di liberare un’energia che riesce a sollevare un peso superiore al proprio. Un lievito in grado di suscitare fermenti di conoscenza, di sentimento, capace di crescere, di aumentare di volume. Un lievito che è in grado di rinnovarsi e consumarsi in ogni nuovo insieme, modificando ciò in cui viene trovarsi.
Imparare dal grano frantumato a rimanere integri, interi, anche quando ci si rompe, a rimanere onesti, a guadagnarsi il pane col proprio lavoro, col sudore della propria fronte. Essere come il pane integrale che non manca di nulla, che è completo, che ci ricorda di sviluppare in maniera armonica tutto il nostro essere persona.
Ricordare che, mentre nelle nostre vite il pane è diventato sempre più un contorno da tenere sotto controllo per mantenersi magri, mentre una parte di mondo lo consuma e lo spreca nell’abbondanza, ci sono milioni di persone che si muovono dalla fame verso il pane poiché non siamo ancora capaci di far muovere il pane verso la fame. Come dice Enzo Bianchi, il pane o è nostro, condiviso, oppure cessa di essere pane.
Lo chiamiamo pane, ma gli altri suoi nomi potrebbero essere dignità, lavoro, benessere, pace. È rivoluzione di pane quella delle primavere arabe, dove alcuni manifestanti brandivano in mano un pezzo di pane, un filone al posto di un’arma. E nel nostro paese, San Michele Salentino, il ricordo va allo sciopero del 29 dicembre del 1943, quando i manifestanti presero d’assalto il forno saccheggiando la farina. La storia delle rivoluzioni e delle rivolte va vista come il tentativo di non ricadere al di là del pane, nel territorio della fame.
La storia del pane – i suoi infiniti legami con le rose, con la storia, con gli altri popoli, con l’olio e il pomodoro, con la pancia e con il cuore, con la memoria e con l’oblio – è una storia troppo lunga e difficile da raccontare nello spazio di un pomeriggio. Vogliamo solo proporvi qualche assaggio, un profumo, un ricordo. Briciole necessarie per continuare ad avere fame di conoscenza e di senso.
Il pane non si butta. Il pane nella poesia. Il pane nella religione. Pane e cacio. Pane e vino. Il pane dei bambini. Il nostro pane e quello degli altri. Il pane di chi vive in mezzo a noi e viene da lontano, che porta con sé il sapore del pane con cui è cresciuto, il pane afghano, egiziano, ghanese. Pane e companatico. Il pane dei ricordi nelle parole nelle immagini nei suoni.
Proviamo insieme a mescolare le nostre farine, i nostri racconti, quello che siamo, in modo naturale e semplice, ognuno con il suo tempo e il suo spazio. Proviamo a sentirci a casa.
Per molti anni maestra a San Michele Salentino (Brindisi), dove vive, Rosaria Gasparro fa parte dell’associazione Attacco poetico.
Questo articolo è apparso per la prima volta nel giugno 2014 su Comune-info. Altri articoli di Rosaria Gasparro sono leggibili qui.