Il contatto diretto con la natura è un’esperienza oggi bandita all’infanzia. Scuole ma anche territori dovrebbero trovare mille modi per favorire quel contatto, ad esempio, offrendo ogni giorno la possibilità a bambini e bambine di rivolgere i loro sguardi verso il cielo rendendo abitabili le terrazze di tante scuole: l’osservazione degli elementi che da sempre scandiscono il tempo allarga il respiro e offre bellezza alla conoscenza, rivelandoci anche che Talete fu guardando il sole che fondò la Geometria. Ogni scuola elementare e dell’infanzia, inoltre, dovrebbe avere uno spazio per coltivare un orto. Scrive Franco Lorenzoni: “In quel metro quadrato di terra oltre alla Storia c’è tanta Antropologia, Scienza e Geografia. Ed anche elementi di Demografia, perché siccità e alluvioni già ora determinano oltre la metà delle migrazioni umane…”
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Entrare nelle metafore e riconoscersi in un albero, osservare il cielo notturno, sentire il proprio corpo nello spazio, confrontarsi con l’incertezza, l’infinito del cosmo e un tempo che non ci appartiene: ecco alcuni doni che la natura offre all’infanzia, se li sappiamo cogliere.
“C’era una volta una terra che guardava sempre il cielo e un giorno vide il sole e gli disse: ma tu chi sei? Io sono il sole. Lo sai che non ti riconosco caro amico mio, lo sai che quando passano i tempi e quando passano gli anni non si riconosce più”.
I bambini amano i paradossi. Spesso li evocano per dire di sé come Debora che, in terza elementare, chiede aiuto al sole per scrivere della difficoltà che trova nell’essere riconosciuta per com’è.
Cielo e terra, alberi, nuvole e animali di ogni sorta sono da sempre specchio per noi umani ad ogni età. Offrono la possibilità di dar nome alle nostre differenze e talvolta alle nostre sofferenze e ci aprono a un contatto più intimo con noi stessi.
Ma il dar voce a chi non ha parole è l’impresa più ardua da azzardare tra noi umani e nel tentativo di colloquio con la natura.
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Anni fa una tredicenne di Milano, giunta nella campagna umbra per un campo scuola, alla vista di un rigagnolo che scorreva al limitare di un prato esclamò: “Ue, qui s’è rotta una tubatura!”
Per riallacciare legami interrotti credo si debba partire dal corpo sempre più negato all’infanzia, provando ad aprire le porte della percezione.
Quando diamo la possibilità a bambine e bambini di sostare a lungo al bordo di un prato o vicino a qualche albero o persino in un piccolo giardino, scopriamo che spesso si apre loro la possibilità di compiere un viaggio da entronauti che talvolta, misteriosamente, li avvicina al pianeta Terra.
Il contatto diretto con la natura, come il silenzio, l’intimità e la noia, sono esperienze oggi bandite all’infanzia, tanto da indurre molti adulti a pensare che i bambini non si sappiano più concentrare e che l’unico modo per tenerli buoni sia stordirli e accerchiarli di gadget sempre accesi.
Il primo gesto propriamente umano sembra sia stato l’indicare con un dito un oggetto lontano. E in effetti, fin dai primi mesi, quel dito che indica la luna o la mamma, mostra un desiderio e una propensione a conoscenze tese a varcare confini.
“È una ben debole luce quella che ci arriva dal cielo stellato – scriveva il fisico Jean Perrin – Ma cosa sarebbe il pensiero umano se non potessimo percepire quelle stelle?”.
Limitare la meraviglia di quel dito che indica l’altrove al solo toccare uno schermo è un vero delitto.
Svegliandoci nella notte e andando a vedere l’alba con un gruppo di bambini di città, un ragazzetto di otto anni della periferia romana, alla vista del sorgere del sole esclamò stupito: “Che strano questo tramonto col sole che sale”. La parola alba gli era sconosciuta perché non aveva mai avuto l’occasione di prestare attenzione al passaggio tra la notte e il giorno.
E allora perché non offrire ai bambini la possibilità di rivolgere i loro sguardi verso il cielo rendendo abitabili le terrazze di tante scuole? Sole e luna sono visibili nei loro inseguimenti e scambi di posizione anche in città e un’osservazione attenta degli elementi che fin dai primordi scandiscono il tempo allarga il respiro e offre bellezza alla conoscenza, rivelandoci magari anche che Talete fu guardando il sole che fondò la geometria.
Ed è incredibile quanto possa essere profonda e spiazzante l’esperienza di esplorare un bosco di notte o il vegliare da soli per un’ora un fuoco sotto un cielo stellato.
In ogni scuola elementare e dell’infanzia dovrebbe essere obbligatorio avere uno spazio per coltivare un orto. Piantare dei semi insegna il tempo dell’attesa, permette un incontro con l’incertezza e approssima tutti noi al senso del limite: qualità umane indispensabili in un tempo in cui la tecnologia frequentata a più non posso sin dai primi mesi di vita, induce alla pericolosa illusione del disporre di ogni cosa a nostro piacimento e di ridurre tutto ai nostri tempi. E invece, nel nostro orto, nessuno può sapere prima se i semi piantati nasceranno e quando. E dobbiamo imparare ad avere accortezza e cura per scoprire se l’acqua che diamo loro è troppa o troppo poca.
In ogni coltivazione c’è un frammento della storia della vita umana sul pianeta da almeno diecimila anni. E se vi prestiamo attenzione, in quel metro quadrato di terra oltre alla storia c’è tanta antropologia e scienze e geografia, ed anche elementi di demografia, perché siccità e alluvioni già ora determinano oltre la metà delle migrazioni umane.
Anni fa, nell’ambito di un progetto chiamato “Giardino armonico”, animato con passione da una cara amica che si chiamava Angela Festa, un gruppo di bambine e bambini di una scuola di Venezia, non disponendo di terra, realizzarono piccoli orti in terrazza dentro grandi vasi. Piantarono semi di ogni sorta, ma si accorsero presto che ogni volta arrivavano stormi di uccelli a mangiarli. Decisero dunque di integrare l’attività con la costruzione di coloratissimi spaventapasseri. Nell’inventare spaventapasseri coi materiali più vari, un giorno una bambina propose di costruirne uno grande, vestito da cameriere, che aveva un braccio alzato verso il cielo e portava in palmo di mano un grande vassoio pieno di semi. Sotto al disegno del progetto scrisse: “Piuttosto che cacciarli è meglio sfamarli”. Quella scritta si trasformò in cartello, che il suo stupefacente “sfamapasseri” portò a lungo appeso al collo, a ricordarci la lungimiranza di cui a volte sono capaci i bambini.
[Articolo uscito anche su Tuttoscuola. Nell’Archivio di Comune, oltre cento articoli sono leggibili qui]