Per tanti resta un verbo che non ha molto a che fare con il desiderio di cambiare il mondo, tanto più in questo tempo di angoscia e disorientamento. Eppure giocare è prima di tutto una palestra di creatività, di fiducia, di accettazione dell’errore (che non si trasforma in fallimento), di riscoperta del legame tra corpo e mente (insomma, fa bene alla salute a qualsiasi età). Per liberare tempo e spazio da destinare al gioco, in primis di bambini e bambine, occorre non solo ripensare le città e il rapporto tra scuole e territorio, ma riconoscere il potere di rottura di quel verbo: “Giocare – scrive Paola Nicolini dell’Università di Macerata – è un atto quasi rivoluzionario, oggigiorno, in quanto contrapposto alla produttività e alla velocità connesse al lavoro…”

Questo articolo fa parte dell’inchiesta
Fammi giocare. La città e il gioco
L’infanzia e i suoi giochi hanno subito per lungo tempo una totale sottovalutazione, perché privi di potere, considerati improduttivi e in attesa di diventare grandi per poter affrontare la vita da adulti con ruoli definiti e impegni seri. C’è voluto del tempo per iniziare a pensare in modo differente, sia l’infanzia sia il gioco.
Mano a mano che cresceva l’informazione scientifica sui primi anni di vita, sulla loro importanza per avviare a percorsi di benessere nel resto dell’esistenza individuale (o no), si comprendeva anche il valore del gioco e del giocare. Diversi sono gli autori che, interessati a comprendere le specificità dello sviluppo psicologico umano fin dai primi momenti, hanno indagato le caratteristiche e le funzioni del gioco, arrivando a comprendere che il gioco offre la possibilità di esercitare un ampio spettro di abilità in modo quasi del tutto inconsapevole, sorretto com’è dalla motivazione, dal piacere di giocare e dal divertimento.
Tra i primi psicologi a occuparsi di infanzia, Jean Piaget ha osservato come la comparsa del gioco simbolico e dell’imitazione differita diano a bambini e bambine l’opportunità di esercitare le proprie abilità di astrazione fin dai primi mesi e di sperimentare diversi ruoli condivisi dal gruppo di appartenenza, identificandosi con modelli presenti nel loro mondo.
LEGGI ANCHE
■ Il gioco, la scuola e la città Gianluca Cantisani
■ Giochi a mezza distanza redazione di Comune
■ La logopedia è una casa sull’albero Cosetta Lomele
■ Tutta mia la città, un deserto che conosco Impunita
■ Lasciamo giocare i nostri bambini Emilia De Rienzo
■ Elogio del tempo perso Sandra Dema
■ Quel che resta del gioco Franco La Cecla
■ Sabbia, legnetti e pigne. Giochiamo? Selima Negro
Sempre Piaget ha fatto riferimento al ruolo del gioco nell’apprendimento delle regole, ma si deve a Vygotskij aver messo in luce come, nell’esercizio del rispetto delle regole per poter partecipare a un gioco, bambini e bambine apprenderebbero a seguire “la linea della massima resistenza”, cioè ad agire contro gli impulsi immediati, spinti dalla percezione che l’osservanza delle regole nella struttura ludica promette un piacere maggiore rispetto a quello che si potrebbe provare nel soddisfare un impulso immediato. Il gioco fornisce così un dispositivo utile alla posposizione della realizzazione degli impulsi, processo fondamentale di auto-regolazione, di socializzazione e di adattamento alla realtà. Vygotskij paragona il rapporto tra gioco e sviluppo al rapporto tra istruzione e sviluppo, sostenendo che il gioco fornisce una base per trasformazioni di ben più vasta portata nei bisogni e nella coscienza rispetto all’istruzione, in quanto promotore di azioni nella sfera immaginativa, nella creazione di intenzioni volontarie e nella formazione di progetti di vita reale. In questa dimensione, infatti, il soggetto è sollecitato a raggiungere livelli di competenza maggiori rispetto a quelli che potrebbe raggiungere al di fuori del contesto ludico, perché le sue azioni si situano all’interno di una situazione sospesa e irreale in un modo tutto proprio, mobilitando involontariamente la “zona di sviluppo prossimale”, così come la definisce Vygotskji (per area di sviluppo prossimo si intende quell’area in cui il bambino/la bambina può estendere le sue competenze e risolvere problemi grazie a un supporto, che sia un dispositivo, uno strumento o l’aiuto di una persona).
Anche Bruner, per citare un altro grande psicologo, mette in luce come il gioco costituisca un potente formato di apprendimento, evidenziando una serie di elementi che lo caratterizzano. Nell’attività ludica, infatti, il bambino e la bambina sperimentano e ripetono qualcosa che li diverte e gratifica, continuando a giocare fino a quando provano piacere e interesse nel farlo. L’azione del giocare viene percepita più importante del suo risultato, per cui l’attenzione si concentra sul processo e non sul prodotto finale, che può essere inteso come la partecipazione al gioco più che come l’esito del gioco stesso. L’attività è svolta in un contesto collocato “al di fuori del reale”, quindi il rischio dell’insuccesso non è percepito come un errore, piuttosto porta a una riformulazione, a una perdita di interesse o a uno spostamento dell’attenzione verso un’attività diversa. Per questi motivi, la presenza di ostacoli può essere affrontata con leggerezza, in quanto non comporta un fallimento nel senso reale del termine, piuttosto a una deviazione o a un’alternativa. Durante il gioco possono essere presi in considerazione stimoli che normalmente appaiono irrilevanti, portando a sperimentare nuovi modi di guardare la realtà e a costruire nuovi significati. I giochi sono poi spesso ripetitivi e per questo offrono occasioni rassicuranti, in dimensioni spesso fantastiche.
Baumgartner mette in evidenza come, proprio in virtù del fatto che l’attività ludica è fine a se stessa e indipendente dal suo esito, il piacere di giocare da soli o con altri consiste frequentemente nella fase preparatoria, e cioè nel costruire lo scenario delle azioni e i ruoli, nel predisporre i materiali, nell’accordarsi sul da farsi, più che nell’esecuzione vera e propria. Il gioco così orchestrato, infatti, può durare anche pochi minuti rispetto alla preparazione e all’attività di negoziazione che eventualmente precedono, ma è proprio in questa fase preparatoria che il bambino o la bambina mette in campo tutte le proprie competenze e le esercita, progettando trame e possibili azioni, in modo fantastico quanto cognitivamente, affettivamente e socialmente impegnato. Nel gioco bambini e bambine possono esplorare nuovi significati e mondi possibili, trattando gli oggetti come se fossero qualcos’altro e mimando azioni che richiamano la realtà, ma senza ripeterla in modo pedissequo, trasportandola in una dimensione altra, sospesa, peculiare, generatrice di benessere, di piacere e di divertimento. Tutto quel che avviene in un gioco è leggero e percepito senza sforzo, anche quando implica attenzione, memoria, problem solving, ragionamento.
Per queste caratteristiche potenti, il gioco è in grado di sostenere il benessere della persona in tutte le età della vita, di garantire formati di sviluppo e di apprendimento motivanti in quanto percepito come lieve e piacevole. Tutto quanto vale per l’infanzia, infatti, può essere trasferito alle età successive. Giocare a carte, giocare a dama o a scacchi, giocare a morra o a tombola, giocare a pallone o a racchettoni sulla spiaggia, giocare a indovinare o con l’enigmistica sono occupazioni praticate in tutte le età della vita, offrendo un tempo di svago, di spensieratezza, di leggerezza e distanziamento momentaneo dalle pesantezze della quotidianità.
Il gioco consiste infatti in qualsiasi attività liberamente scelta a cui ci si dedichi, singolarmente o in gruppo, nell’infanzia, nell’adolescenza, in età adulta o nella vecchiaia. Ha come fine la ricreazione e lo svago, sebbene sia in grado di sviluppare ed esercitare nello stesso tempo capacità abilità fisiche e manuali, cognitive e sociali.
“È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé” sostiene Winnicot. La creatività, la ricchezza aggiuntiva che mettiamo in qualsiasi lavoro facciamo, nasce dal gioco, dalla nostra capacità di tornare a essere, di continuare a essere quelle persone che eravamo nell’infanzia. Di qui l’importanza del gioco per l’essere umano adulto, per ogni persona impegnata in attività produttive.
I benefici del gioco nella vita degli adulti e degli anziani, così come nella vecchiaia, sono molteplici e vanno forse persino al di là delle opportunità che il gioco offre nei primi anni di vita.
Innanzitutto il gioco, grazie alla generazione di divertimento in grado di scatenare, allevia lo stress in quanto può attivare il rilascio di endorfine, il farmaco naturale del corpo che aiuta a sentirsi meglio, promuovendo un senso di benessere generale e offrendo persino l’opportunità di alleviare temporaneamente il dolore. Giocare rafforza l’energia e la vitalità, migliora la resistenza alle malattie e la qualità della vita.
Alcuni giochi come puzzle o memory potenziano le funzioni celebrali e possono prevenire i problemi di memoria. Le interazioni sociali che si originano intorno a giochi da fare in piccoli gruppi di amici o in famiglia aiutano a consolidare i legami e tengono lontano depressione e senso di solitudine.
Anche l’apprendimento migliora se una nuova attività è presentata in modo giocoso, divertente e rilassato. Giocare stimola anche l’immaginazione, migliorando l’adattamento e la capacità di risolvere i problemi.
Divertirsi insieme ad altri favorisce la fiducia e l’intimità.
Sviluppare una natura giocosa può aiutare a rilassarsi in situazioni stressanti, rompere il ghiaccio con gli estranei, crearsi nuovi amici e anche nuove relazioni professionali, mantenersi giovani ed energici. George Bernard Shaw sosteneva che “non smettiamo di giocare perché invecchiamo, ma invece invecchiamo perché smettiamo di giocare”.
Per tutti questi motivi giocare è un atto quasi rivoluzionario, oggigiorno, in quanto contrapposto alla produttività e alla velocità connesse al lavoro. Parafrasando una celebre massima, a buon diritto si potrebbe sostenere che un gioco al giorno leva il medico di torno, invitando perciò a lasciare un tempo al gioco in tutte le età della vita. Perché il tempo dedicato al gioco non è sprecato: è tempo guadagnato alla vita, e alla vita buona.
Bibliografia
BAUMGARTNER, E. [2002]. Il gioco dei bambini, Carocci, Roma.
BRUNER, J. S., & JOLLY, A., SYLVA, K. [1976]. Il gioco. Ruolo e sviluppo del comportamento ludico negli animali e nell’uomo, trad. it., vol. IV, Armando, Roma 1981.
PIAGET, J. [1945], La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1972.
VYGOTSKIJ, L. S. [1972] Immaginazione e creatività nell’età infantile, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1990.
WINNICOT, D. [1971], Gioco e realtà, trad. it., Armando, Roma 1974.
APPUNTAMENTI In occasione della settimana internazionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, l’Università di Macerata, l’azienda di giocattoli Clementoni S.p.A. e l’Unicef, con la partecipazione attiva di studenti e studentesse del corso di laurea in Scienze della formazione primaria che seguono l’insegnamento di Psicologia dell’educazione, dedicano un convegno di due giorni all’esplorazione del gioco in tutte le sue numerose sfaccettature: Università di Macerata: Giocare fa bene a tutte le età (unimc.it). Le iscrizioni al convegno vanno inviate tramite il modulo presente al seguente link
Paola Nicolini, Università di Macerata