Torino, Milano, Padova, Genova, Firenze, Roma, Bari, Palermo, Bari e decine di altre città di tutta Italia. Migliaia di studenti e studentesse sono tornati a portare vita nelle strade. Il 4 febbraio, abbiamo seguito la protesta di Torino, dove in gennaio la polizia ha picchiato duro studenti e studentesse soltanto perché volevano muoversi in corteo. La pandemia e la sua gestione, anziché annichilirli, hanno finito per far crescere questi ragazzi nella loro consapevolezza: oggi non solo respingono con forza l’idea della scuola al servizio delle imprese, ma sanno far emergere tutto il loro profondo disagio esistenziale nel quale sono piombati negli ultimi due anni
Questo articolo fa parte dell’inchiesta Aspettavamo qualche domanda
Scena 1, ore 10
Siamo dalle parti della stazione di Porta Susa, i ragazzi arrivano a gruppi. Sbucano dalle scale della stazione della metro o dalle vie laterali a piccoli gruppi, con gli zainetti in spalla e i giacconi aperti, che a Torino oggi l’aria potrebbe essere quella di una giornata di primavera anche se è ancora inizio febbraio. Dal furgone arriva la musica dell’ultimo di Marracash mentre alcuni scherzano, altri discutono con espressioni molto serie in volto e altri ancora sono impegnati a preparare striscioni e cartelli. Per qualcuno di loro è la prima volta in assoluto.
L’atmosfera pare rilassata, a parte un filo sottile di tensione: poco più di una settimana fa (gennaio, ndr) a poche centinaia di metri da qui la polizia ha picchiato duro e senza ragione gli studenti e le studentesse che volevano muoversi in corteo. Oggi si farà lo stesso, sperando che la reazione degli uomini in divisa non sia la stessa. C’è anche da vedere quante persone arriveranno e quanti saranno quelli che rinunceranno per non incontrare i manganelli. I ragazzi sono ottimisti: per usare un eufemismo, la Ps non ne è uscita benissimo a livello di immagine. E poi, nel frattempo sono successe alcune cose.
L’occupazione del liceo Gioberti
Il Gioberti a Torino è una specie di istituzione, uno dei licei più prestigiosi della città e da sempre la scuola più politicizzata. Dopo la manifestazione della scorsa settimana gli studenti hanno deciso di occupare, fornendo una motivazione capace di far riflettere chiunque e di far provare vergogna a tanta gente, anche se forse non abbastanza: “Occupiamo perché se andiamo in piazza la polizia ci picchia”. A prendere parte all’occupazione sono stati tra i 4 e i 500 ragazzi, poco meno della metà degli studenti e delle studentesse dell’istituto. A Torino è la prima di questo ciclo di proteste: al Gioberti non si occupa da undici anni. “Ci siamo resi conto di quanto aveva ragione chi ha detto che non sai di avere bisogno di qualcosa finché non lo perdi – spiega Elettra Cazzola, una delle anime dell’iniziativa di lotta – e noi negli ultimi tempi di cose ne abbiamo perse parecchie. Molte delle ragioni della nostra protesta, dalla contrarietà all’alternanza scuola/lavoro alla difesa del diritto di manifestare crediamo siano chiare a tutti: ci piacerebbe fosse chiaro però anche che noi non accettiamo questo modello di scuola nel suo insieme, specie in riferimento a quanto è avvenuto dall’inzio della pandemia a oggi”. Durante l’occupazione i ragazzi hanno tenuto dei laboratori su temi come l’abuso di potere e la disobbedienza civile. Ma già da prima si occupano di un altro aspetto che sta loro molto a cuore: quello del disagio psicologico, che è stato al centro di un’inchiesta alla quale hanno preso parte più di settecento ragazzi del liceo. I risultati parlano chiaro: solo il 2,6 per cento degli studenti non prova ansia o stress a scuola, uno su due ha avuto un attacco di panico o di vomito durante le lezioni, solo il 17 per cento dei ragazzi e delle ragazze crede che i docenti si preoccupino del loro benessere psicologico e oltre l’85 per cento di loro è stato male a causa di un voto.
Scena 2, ore 11
In piazza arrivano gli agenti della Ps in tenuta antisommossa, che neanche a farlo apposta si manifestano mentre dalle casse esplode Killing in the name dei Rage against the machine. Si tengono a debita distanza, con un atteggiamento (quasi) discreto: comincia a essere chiaro che le direttive arrivate dall’alto non incoraggiano le maniere dure.
Si fanno notare anche alcune persone che indossano una pettorina bianca e gialla: sono gli osservatori di Amnesty international, venuti a seguire con attenzione il corteo visto il precedente della settimana scorsa. Bello che ci siano, ma diciamo pure che la loro presenza ci spiega molto a proposito di una situazione che con la democrazia sembra avere ben poco a che vedere. Qualcuno si chiede se la prossima volta serviranno i caschi blu dell’Onu.
Il corteo si muove, le rivendicazioni stanno scritte sugli striscioni e vengono scandite nei cori. È sufficiente uno sguardo d’insieme per rendersi conto di due effetti paradosso: il primo riguarda il doppio delle presenze rispetto all’ultima manifestazione, con buona pace di chi crede nell’effetto deterrente del manganello. Il secondo sta nel fatto che la pandemia e la sua gestione, anziché annichilire questi ragazzi, hanno finito per farli crescere nella loro consapevolezza: affrontano la piazza con modi che potrebbero farli sembrare dei veterani, hanno le idee molto chiare riguardo al rapporto tra scuola e impresa e sono dotati di quell’irriverenza che non ti aspetti, che emerge chiarissima quando si alza il coro “Noi non siamo la Cgil”.
“Da due anni non si vedeva un fermento del genere, c’è voglia di riscatto – spiega Alessandro, rappresentante degli studenti – siamo qui per trovare una via d’uscita. Siamo ancora all’inizio, sappiamo che la mobilitazione vera è tutta da costruire e che questo non può succedere se non si crea un fronte comune con gli studenti delle altre scuole della città e di tutta Italia. Per questo stiamo realizzando un manifesto che rappresenti tutti e prenderemo parte alle assemblee in programma a Roma”.
Scena 3, l’ora giusta, qualunque fosse
Il corteo si snoda per le vie del centro. Tutto intorno, l’indifferenza di molti passanti che neanche degnano il corteo di uno sguardo offre una fotografia nitida del momento attraversato da una città provata più di altre dalla pandemia ma anche di un intero paese, che guarda (quando di degna di farlo) a questo movimento come a qualcosa di inutile, di inopportuno. I ragazzi parlano a turno di alternanza, precarietà e carenze strutturali, respingono con forza l’idea di quella scuola al servizio delle imprese che ha spiegato bene pochi giorni fa su queste pagine Marco Bersani (La scuola al servizio delle imprese). Ma dai loro interventi emerge soprattutto il rifiuto del disagio esistenziale nel quale sono piombati negli ultimi due anni. “Non ci ricordiamo più come si vive”, urla qualcuno nel megafono, aggiungendo che “non siamo roba e non vogliamo diventarlo”. Una ragazza usa parole che sanno colpire quanto basta: “Ci volete chiusi nelle nostre camere imbottiti di psicofamarci: beh, andatevene affanculo e non dimenticate di portarveli, gli psicofarmaci”.
La manifestazione volge al termine. Francesco Ferreri, studente dell’Itis Pininfarina e rappresentante del Ksa (Kolletivo studenti autorganizzati) ci spiega che l’intento di creare un fronte unico si sta realizzando: la settimana prossima altri quattro istituti della città verranno occupati e tutti i segnali fanno capire che la partecipazione è destinata a crescere di molto. Elettra ci lascia con parole che migliori di così era difficile: “Ci siamo spesso sentiti sminuire nel nostro disagio e nelle nostre difficoltà da persone che dicevano che ci lamentiamo troppo, che in fondo non abbiamo mica fatto la guerra. Ma va bene lo stesso. Quello che conta è essere qui oggi, finalmente insieme dopo due anni di incubo. È poter dire, finalmente: noi“.
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