La scuola nel suo complesso è ancora focalizzata solo sullo sviluppo delle capacità cognitive. È questa una delle ragioni che favoriscono l’abbandono scolastico. Non c’è spazio per la formazione emotiva e relazionale, cioè per la capacità di creare ogni giorno contesti che aiutino bambini e bambine, ragazzi e ragazze “a star bene”, a vivere la cura come attenzione reciproca, come presa di coscienza siamo tutti fragili e che abbiamo bisogno gli uni degli altri. La cura dunque come cura di sé, degli altri, della natura, perché ne siamo parte, e come cura del mondo nella sua complessità

Alla fine di un anno scolastico, durante la festa di fine anno della scuola media, i ragazzi si scambiano indirizzi, foto, email. Daniel se ne sta appartato e, pur essendo un ragazzo a cui piace stare in mezzo agli altri, tace e si guarda intorno smarrito. Se qualcuno lo sollecita a partecipare, caccia tutti in malo modo. Noto il suo sguardo triste e gli vado vicino. Cosa ti preoccupa, gli chiedo. La prima risposta è “niente, niente”, insisto e allora si apre: “È che la scuola sta per finire. Fino ad oggi qui, in questa classe mi sentivo seguito, i miei compagni sono diventati miei amici, Adesso chi penserà a me?”. Tutti i bambini, tutti i ragazzi, anche quelli più difficili, con una storia alle spalle problematica, entrando a scuola dovrebbero sentire che quel posto è speciale. Anche chi si sente a volte triste, arrabbiato, solo, senza spesso neanche capire fino in fondo perché, dovrebbe trovare un luogo caldo e persone disponibili ad accoglierlo, ad ascoltare non solo quello che sa, ma anche quello che sente. Ed è qui il nodo del problema: come si pone la scuola nei confronti dei ragazzi, di tutti i ragazzi? Cerca i migliori, quelli che “meritano” o si adopera in ogni modo perché tutti, ma proprio tutti possano progredire, crescere, diventare cittadini consapevoli?
Daniel è alla fine della terza media e capisce in modo molto lucido quello che lo aspetta. Ha iniziato un percorso. Dopo molte resistenze, finalmente si è attivato, ha cominciato a cambiare, ad aver voglia di imparare, non solo di studiare, ma anche di stare bene con gli altri suoi compagni. Ma sente anche che da solo non ce la può ancora fare, se nell’anno che lo attende, nessuno lo accosterà, lo guiderà, perché la crescita è un cammino complesso, difficile, che non si può fare da soli.
Tanti ragazzi, purtroppo, durante il percorso scolastico, “tolgono il disturbo” perché non hanno sentito la scuola come un luogo in cui poter trovare qualcosa anche per loro, l’hanno percepita come inutile, faticosa, staccata dalla loro realtà, a volte ostile e l’abbandonano, vanno a gonfiare i numeri di quelli che le statistiche raggruppano nella cosiddetta “dispersione scolastica”.
Ogni ragazzo avrebbe bisogno di essere socialmente riconosciuto; allo stesso tempo, però, molto spesso si trova nella condizione di non poter soddisfare appieno i criteri che ne rendono possibile il riconoscimento. La realtà in cui vive è strutturata in modo tale da impedirgli di sentirsi all’altezza. La scuola troppo spesso ancora non gli offre opportunità che lui sappia o possa utilizzare, ciò che offre non tiene conto di chi lui è veramente e soprattutto di cosa abbia bisogno per attivare dentro di sé le risorse che sono presenti, ma ancora sconosciute.
Va bene così? Può uno stato democratico abbandonare a se stessi tanti giovani? Possiamo farlo noi con i nostri allievi? Io credo di no. Lo aveva ben capito Don Milani quando con i suoi ragazzi scriveva Lettera a una professoressa nel maggio del 1967, un libro vademecum del movimento del sessantotto italiano e di ogni insegnante democratico per anni. Un testo scritto per tutti coloro che la scuola non riesce a raggiungere. La lettera è un invito a adoperarsi perché la scuola non sia solo per i ricchi, per i “Pierini d’Italia”, e ha come obiettivo di sollecitare l’adempimento del dettato costituzionale che vorrebbe il diritto allo studio uguale per tutti.
Non a caso a fondamento della scuola di don Milani c’erano due semplici parole “I Care”, “Mi sta a cuore”. La risposta che si aspettano i vari Daniel della situazione e che dovrebbe essere incisa sulla porta di ogni aula.
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Forse bisognerebbe partire proprio da chi abbandona la scuola. Partendo da loro, al contrario di quanto dicono alcuni detrattori di don Milani, si lavora per una scuola per tutti i ragazzi anche per quelli considerati i più bravi. Molti ragazzi non vanno volentieri a scuola, la sentono estranea e una fetta consistente di popolazione soffre di un crescente malessere, di stress, è pessimista, frustrata, e tra loro sempre più numerosi ci sono i giovani. È un problema che non riguarda la scuola questo? Io credo che la riguardi, eccome. Certamente ognuno di noi non può cambiare tutto, ma davvero non possiamo far nulla per i nostri ragazzi, a partire dalla nostra aula?
La scuola nel suo complesso, è ancora interamente focalizzata solo sullo sviluppo delle capacità cognitive. Dovrebbe essere radicalmente ripensata al fine di fornire una formazione emotiva e relazionale, che attualmente non è prevista, dovrebbe trovare un luogo che li aiuti “a star bene”.
Cura di sé, cura degli altri e cura del mondo
Fin dal primo giorno, quindi, ogni allievo dovrebbe sentire che nella sua classe la prima cosa che si impara è la “cura”: sapere che gli altri si vogliono prendersi cura di lui, in primis gli adulti (che tutti quelli che varcano quella porta “stanno a cuore”). E sapranno presto che anche loro impareranno a prendersi cura degli altri.
La cura come attenzione reciproca, come forza delle relazioni, come presa di coscienza che tutti in qualche modo siamo fragili, che abbiamo bisogno gli uni degli altri, di una comunità solidale, che siamo interdipendenti. La cura come attivazione dell’intelligenza emotiva capace di empatia. Ognuno dovrebbe sapere che con il proprio insegnante e i propri compagni c’è spazio per parlare ed essere ascoltati.
È la cura, infatti, a orientare la vita verso una forma che possa valorizzarne le qualità, difenderne la dignità, svilupparne le potenzialità, favorirne la piena fioritura. È solo la cura che ci permette, che ci regala un maggiore gusto per la vita. Luigina Mortari nel suo libro Politiche della cura (Cortina, 2021), mette in risalto come la cura uno dell’altro favorisce una conoscenza che “non è rispecchiamento di ciò che è già accaduto, ma tensione a far accadere il possibile nella sua forma migliore”.
La cura quindi: come “cura di sé”, della propria crescita nelle proprie potenzialità; come “cura degli altri”, perché vivere è convivere; come “cura della natura”, perché ne siamo parte; come “cura del mondo” nella sua complessità. Sono questi orientamenti presenti in tutte le filosofie antiche che insegnano ad ognuno ad uscire dal proprio individualismo per riconoscersi parte integrante di un tutto da cui si è interdipendente e con cui si interagisce.
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Nulla è già deciso, si cerca insieme in un dialogo costante che parte dall’esperienza, dal pensiero dell’esperienza. Tutto è in movimento, come la vita che mai si ferma.
I gesti più ordinari del quotidiano dovranno essere sottratti dall’insignificanza.
Un attenzione che ci rende attivi e responsabili di chi o di ciò che, senza adeguate cure, potrebbe non svilupparsi mai o non farlo appieno. Si tratta quindi di cominciare ad apprendere un’attività etica, a mettere in moto se stessi, nel riconoscimento che il bene comune è importante per lo sviluppo della propria persona e costituisce “il più alto valore esistenziale”.
Ogni allievo viene coinvolto, per quanto possibile, nelle scelte fondamentali della propria esistenza, nella cura dell’ambiente nel quale si muove, anziché essere considerato semplice esecutore di programmi impartiti dall’alto e senza anima.
Il pensiero della cura non ha come obiettivo quello dell’addestramento al sistema così com’è, ma quello di consentire un’esperienza che permetta di immaginare diversamente, di porre domande, ideare nuove soluzioni. Ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita.
Non so
Nel linguaggio della cura si dice spesso Non so. La poetessa Wisława Szymborska apprezza queste due piccole paroline: non so. “Piccole, ma alate”.
Il “non so” è lo spazio del dialogo, della riflessione, della condivisione, dell’accettazione dell’altro. Il “non so” è aprire porte, allargare orizzonti, imparare a farsi domande prima di darsi risposte. Il “non so” è lo spazio della compassione, è lo sguardo che vuole vedere, che si lascia interpellare, scuotere, inquietare. Il “non so” ti mette in cammino verso l’altro con cuore aperto, fa silenzio di fronte a ciò che ha da narrare di sé, ascolta e impara che la sua non è l’unica verità.
Il pensiero della cura attiva l’immaginazione, la curiosità. Chi, invece è “sine cura” non ha nulla che lo preoccupi, non ha nessun dubbio o incertezza, impone il proprio sapere agli altri. Invece prendersi cura vuol dire impegnarsi attivamente, ascoltare, e saper intervenire dove è necessario per diventare giorno dopo giorno “comunità” .
Non bisogna nascondersi che imparare a stare insieme presenta non poche criticità, in quanto le comunità, piccole o grandi, possono essere luoghi di genuina fioritura umana, così come di assoluta infelicità e i numerosi atti di bullismo ne sono una testimonianza chiara. Ma proprio per questo è importante lavorare per individuare e analizzare quegli atteggiamenti individualistici e a volte di prevaricazione che fanno parte della vita di tutti i giorni e che possono essere di ostacolo alla cooperazione o addirittura far del male o ferire i propri compagni.
Si impara giorno dopo giorno a diventare soggetti elastici e dinamici, sempre in dialogo e in ricerca, disposto a correre l’azzardo del “con”, capace di costruire ponti e abbattere le prigioni della nostra mente.
Ha scritto Theodor Adorno: “Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”.
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Questo articolo di Emilia D Rienzo – insegnante per oltre trent’anni a Torino – fa parte di una ricerca che prova a scavare intorno a diverse parole/concetto con le quali favorire il passaggio da una scuola del “Non si può” a una “Scuola del dialogo”. Il senso della ricerca e i link alle parole approfondite sono qui:
LE ALTRE PAROLE DELLA “SCUOLA DEL DIALOGO”: