
“Non bisogna che gli educatori insegnino a essere liberi, debbono essere liberi essi stessi”. C’è, in questa dichiarazione d’una studentessa diciottenne il rifiuto di tutta una pedagogia paternalistica, fondata sulla parola, e al tempo stesso l’esigenza di una pedagogia nuova che abbia le sue radici nell’esempio, nella ricerca e nell’azione comune”. Così inizia un editoriale di Ada Marchesini Gobetti del gennaio del 1965.
Ai tanti adulti che si interrogano sul loro essere genitori, non accontentandosi di suggerimenti superficiali e luoghi comuni consolatori, spesso infarciti di frasi fatte contro i ragazzi d’oggi, consiglio vivamente di leggere Non siete soli, un denso volume che raccoglie tutti gli editoriali che Ada Marchesini Gobetti pubblicò sul “Giornale dei genitori” dal 1959 al 1968.
Il libro è curato con sensibilità e perizia da Angela Arceri, che ne scrive un’introduzione dedicata a “L’educazione secondo Ada”. Un ampio scritto in cui mette in evidenza radici biografiche e influenze culturali che l’hanno portata a scegliere d’essere compagna solidale di Piero Gobetti, condividendone il breve e intensissimo impegno politico. Segue la solitudine vissuta negli anni del fascismo e un incontro con Benedetto Croce, che la portò a “praticare l’esercizio del pensiero come un dovere morale”. C’è poi l’adesione convinta alla resistenza, vissuta assumendosi importanti responsabilità anche militari, fino alla scelta di dedicarsi all’educazione sin dal primo dopoguerra, come compimento coerente di un’idea politica tesa a una trasformazione concreta di donne e uomini, da ricercare in un agire e un pensare che si può costruire solo insieme, abbattendo steccati e superando chiusure.
Convinta con Calamandrei che “la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé” e che per far sì che “si muova bisogna metterci dentro ogni giorno il combustibile: e cioè la volontà, l’impegno, la speranza”, Ada Gobetti prova a tenere viva la speranza dedicando tutta la sua intelligenza a ragionare e a fornire strumenti per rendere più critica e aperta la relazione educativa primaria, quella tra generazioni.
Poiché la relazione con i figli ci mette sempre in causa, ecco che progetta e realizza un Giornale dei genitori, pensato come una sorta di palestra dove allenarsi e prendere coscienza con piena consapevolezza dell’importanza sociale, dunque politica, del ruolo dei genitori, che non devono mai “rinunciare a capire”, perché questo comporta, inevitabilmente, il “rinunciare ad educare”.
Di fronte a ragazzi che “indubbiamente oggi sono disorientati”, e a genitori che “si mostrano e si dichiarano il più delle volte smarriti, impotenti, sprovveduti, (…) che ancora conservano, pur senza rendersene conto, molte caratteristiche dell’adolescenza: incerti, instabili, disorientati essi stessi, quale sicurezza possono dare ai loro figli?”. Così si domanda in una lettera del 1962, ragionando sul vuoto prodotto da genitori che “non sanno offrire modelli a cui i figli possano ispirarsi o contro cui possano polemicamente ribellarsi; troppo assorti nei propri problemi, difficilmente sanno uscire da se stessi per dare ai figli quell’amore completo e disinteressato capace di colmare da solo ogni lacuna di preparazione culturale e pedagogica”. Come si vede bene sono gli stessi problemi che abbiamo davanti oggi. Ecco perché rileggere questi editoriali fa bene e ci porta a compiere una sorta di meditazione laica intorno al mestiere e all’arte dell’educare, necessaria più che mai.
I 60 testi si configurano come brevi saggi capaci di scavare in profondità questioni educative e sociali: dall’analfabetismo sessuale alla nascita del primo figlio, dall’atteggiamento da avere verso i giochi di guerra ai problemi della pubertà e dell’adolescenza, ragionando sul diritto di dissentire riguardo all’educazione religiosa proposta dalla scuola o a diversi altri temi sollevati in quegli anni dal cinema, come quello dell’incomunicabilità o delle alienazioni di quella che allora venne chiamata gioventù bruciata. Insomma lo spaccato di un’epoca particolarmente feconda, raccontata da chi non vuole solo provare a comprendere il mondo, ma desidera dare il suo contributo fattivo per trasformarlo.
“Se la società umana continuerà a esistere – e non sarà travolta da rovinose follie – dovranno pure a un certo punto crollare le assurde frontiere di razza come di classe, perché possano affermarsi liberamente i diritti comuni e i valori dell’umanità”.
Così scrive, aggiungendo:
“Certo è difficile a volte individuare il pregiudizio, scoprire il volto laido del razzismo sotto aspetti apparentemente innocui o addirittura attraenti. Ma è proprio questo il punto in cui bisogna in ogni modo vederci chiaro. Altrimenti, senza questa chiarezza, dove andremo a finire?”.
Una preoccupazione costante, presente in tante pagine, riguarda la “gracile libertà democratica” presente nel nostro paese, che non è stato all’altezza delle aspettative e aperture emerse dalla liberazione. Ada Gobetti tuttavia, consapevole che “melanconia e delusione e amarezza non possono essere elementi educativi”, sente la necessità di tornare e tenere vivo quel “generoso unirsi agli altri nel ‘resistere’ e nell’agire”, necessario ad ogni impresa educativa che abbia come orizzonte l’intera società. Se c’è una lezione che ha appreso nei lunghi anni del fascismo, è che la causa di ogni chiusura e arretramento sociale si annida nel conformismo, contro cui è indispensabile uno “sforzo” a cui è necessario educare ed educarci senza risparmiarci.
Nel 1962 scrive:
“Educazione è partecipazione: non si possono educare i ragazzi isolandoli dal mondo che li circonda, chiudendo loro gli occhi a ciò che accade, restringendo gli interessi al “particulare”: bensì abituandoli a considerare come cosa propria tutto ciò che è umano, a non porre limiti al desiderio di conoscenza e di esperienza, ad accettare responsabilità personali e collettive, a credere nella capacità propria e altrui di rimediare ai mali esistenti e di prevenire le rovine future”.