Gli ambienti naturali hanno rappresentato, nella nostra storia filogenetica, i nostri spazi di vita abitativa. L’uomo ha trascorso il 99 per cento del proprio tempo evolutivo in ambienti completamente naturali. Quella storia è stata brutalmente messa in discussione. Alcune sperimentazioni degli anni Settanta (negli spazi all’aperto, nei territori) e numerose ricerche accompagnano oggi il bisogno e il tentativo di riscoprire le connessioni tra natura, benessere ed educazione all’aperto
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La nostra storia di Homo Sapiens e prima ancora, la storia degli ominidi, si è dipanata tra foreste africane e i grandi spazi della savana. Negli anni Settanta ci furono le scoperte dei coniugi Leakey, relative alle spedizioni nella gola di Olduvai, Tanzania, con la famosa Lucy, la giovane australopiteca di cui fu ritrovato intatto lo scheletro. Le principali scoperte di quegli anni ci mostravano che i nostri antenati erano bipedi e camminavano in grandi spazi aperti, così come i nostri più stretti cugini, le scimmie antropomorfe, vivevano in habitat forestali. Negli anni a seguire, non si è considerato più un unico ambiente naturale nel quale vivevano i nostri antenati, quanto piuttosto una varietà di ambienti, di paesaggi, di condizioni, che hanno determinato i cambiamenti e i passaggi evolutivi fino ad arrivare a noi. In generale gli ambienti naturali hanno rappresentato, nella nostra storia filogenetica, i nostri spazi di vita abitativa e l’uomo, quindi, in quanto specie, ha trascorso il 99 per cento del proprio tempo evolutivo in ambienti completamente naturali.
Sempre in quegli anni, e appena ventenne, lavoravo nel primo servizio educativo istituito e aperto nel 1975 per bambine e bambini da zero a tre anni, l’asilo nido: si apriva uno scenario di ricerca, scienza, conoscenza, sperimentazione condivisa tra i primi gruppi di Coordinamento a livello romano, coniugati tutti al femminile. Si, eravamo tutte donne con una presenza maschile di poche unità su Roma che migrarono, nel giro di pochi anni, nell’attività sindacale.
Tralascio il significato che accompagna la pratica educativa complessivamente e storicamente coniugata al femminile, per soffermarmi, invece, sui significati di una ricerca pedagogico/educativa che vedeva per la prima volta la possibilità e la sperimentazione di osservare e studiare la “socialità” quotidiana dei bambini, fin dai primi mesi di vita e fino ai tre anni.
Furono anni che videro una forte e significativa centralità di riconoscimento del bambino come persona, distinta dall’adulto, con un linguaggio comunicativo tutto da conoscere e scoprire. Un po’ come avere un ET in casa con la necessità di trovare una possibile comunicazione con lui, tutta da costruire e cercare. Eravamo contaminate positivamente (per dirla in termini attuali) da qualcosa che trasformava ogni pezzo di realtà intorno a noi, in ipotesi di ricerca e di progettualità educativa.
Dai mestieri e dalle professioni dei genitori che coinvolgevamo all’interno e fuori del servizio e con i quali si condividevano sensibilità culturali, percorsi educativi, laboratori, esperienze, fino alle realtà territoriali del mercato, degli artigiani, dei laboratori, dei negozi, dalle stazioni ferroviarie o dei depositi Acotral, alla centrale del latte, ai parchi pubblici, all’andare comunque in ogni luogo considerato potenzialmente educativo, utilizzando percorsi a piedi, metropolitana – allora prenotavamo un vagone solo per noi -, treno o bus di città…. tutto diventava possibile e vicino alla sensibilità esplorativa e ludica del bambino, e tutto diventava didatticamente educativo e socializzante (leggi anche Manifesto dell’educazione diffusa).
Una svolta culturale
I bambini iniziavano, così, ad essere visibili, fuori dalle case e fuori dalle sedi istituzionali. Sicuramente una grande svolta rivoluzionaria e culturale che mostrava un bambino viaggiatore, mobile, in continua ricerca, mutevole, disarmante e in continuo apprendimento, un bambino capace di oltrepassare i confini di quel nostro immaginario prettamente familistico e privato in cui era stato rinchiuso fino a quegli anni.
Un bambino che stava recuperando le sue origini e la sua infanzia.
Questa consapevolezza maturata attraverso lo stare con loro, mi motivava a organizzare anche delle opportunità per vivere esperienze in natura, pur disponendo di un grande spazio a giardino, esterno all’asilo nido. L’area del parco degli Acquedotti di Roma si offriva, pertanto, nel territorio con il suo spazio senza confini, muri, palizzate, strade asfaltate e lì si poteva respirare quell’aria agreste, di campagna, quell’aria che i bambini sapevano riconoscere istintivamente appena vedevano i loro amati greggi di pecore. Lì, la loro libertà d’azione si manifestava subito nel suo primo segnale espressivo: il correre e il gridare.
Scrive Giovanni Fiorentino nel libro Il bambino nella rete:
Se Chatwin richiama la necessità anche fisiologica del viaggio per una crescita serena ed equilibrata dei bambini, ancora più urgente è la necessità di un moto costantemente alimentato, un’energia mentale che nasce sotto le coperte e ci si ostina a confinare nei limiti del gioco, ma ha bisogno di espandersi e comprendere: il bambino, ha bisogno in maniera essenziale di ciò che in tedesco si chiama Spielraum …. Spielraum non è solo e principalmente una stanza in cui giocare… il suo significato principale è Libertà d’azione, abbondanza di spazi, muovere non solo i propri gomiti, le proprie gambe, ma anche e di più la propria mente, fare esperimenti con le cose e con le idee per il proprio svago o, per dirla molto più semplicemente giocare con le proprie idee…. Il bambino (il piccolo principe) è l’eroe perché ha la fragilità necessaria a consentirgli di riconoscersi, incarnare, vivere qualsiasi storia, da eroe, da protagonista.
Il bambino è mobilità mentale, nomadismo, necessità di Spielraum, disponibilità al viaggio, al gioco e al rimettersi in gioco, è la disponibilità a vivere le storie di qualsiasi eroe, è cammino, incontro con le potenzialità dell’immaginario e del mutevole, viaggia nella storia ma sfugge allo sguardo dello storico…
In questa visione aperta, sconfinata, in questo nomadismo non solo territoriale, ma dell’essere, che ci restituisce il linguaggio di Giovanni Fiorentino, noi troviamo quella storicità del nostro essere Homo, in quello spazio e tempo mutevole, erratico che ha accompagnato le nostre origini e la nostra storia evolutiva. Spazio, tempo e storia che accompagnano sin dalla nascita ogni bambino. Cos’altro è, per noi adulti, quel gesto comune e ordinario di allestire un piccolo balcone con piante e fiori di ogni colore, se non quello di delineare quel confine che separa ma può anche unire tra il dentro (casa) e il fuori(natura) come a indicare quel nostro desiderio atavico di “natura”? Quello stare ancora in contatto anche con noi stessi in una percezione immediata e istintiva che ci fa stare bene.
È un diffuso bisogno di natura, oggi abbastanza affermato e riconosciuto, eppure, al contempo, questo bisogno va di pari passo con una convivenza sempre più negata nella pratica e nella nostra vita, anche se la consapevolezza cresce grazie a studiosi e scienziati, a chi si occupa di ambiente e natura, a chi progetta architetture nuove, aree verdi, scuole innovative, design.
Studi e ricerche sullo stare in natura
Molti sono stati gli studi e le ricerche scientifiche sui benefici dello stare in natura. In questo c’è da riconoscere il lavoro e l’impegno che Stefano Mancuso, scienziato di fama internazionale, sta portando avanti, così come altri studiosi, riuscendo a tradurre la conoscenza scientifica in opportunità di conoscenza e consapevolezza anche per i “non addetti al settore”.
“Educare in natura”, attraverso le molteplici pratiche ed esperienze anche in Italia, sta acquisendo un suo riconoscimento e una sua diffusione su tutto il territorio nazionale, consentendo quindi non solo un rapporto diretto e una vicinanza tra bambini e natura, ma soprattutto anche quello di aprire canali e possibilità di apprendimento, conoscenza e formazione, attraverso pratiche più espansive e mobili, oltre i limiti e le lacune di una scuola fortemente burocratizzata, istituzionalizzata e ripiegata su sé stessa.
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Qui, la scienza, ci viene in aiuto, a sostegno di una visione che nel mettere al centro la natura, dipana al contempo, le possibilità di un educare espansivo, multidisciplinare, trasversale, aperto, possibilista, capace di mettere in discussione le forme di un sapere unidirezionale in cui il bambino è solo destinatario e non artefice o protagonista della molteplicità delle risorse e delle intelligenze che entrano in gioco in lui stesso e nei saperi.
Consideriamo due presupposti: l’apparato sensomotorio è l’apparato più antico dal punto di vista dell’evoluzione umana ed è anche l’apparato che il bambino usa quando ancora non parla e che lo avvia alla sperimentazione e alla conoscenza. È quell’apparato al quale la scuola ha rinunciato. L’altro presupposto è che studi e ricerche hanno dimostrato che il beneficio dello stare in natura, sul quale oggi siamo tutti d’accordo, deriva anche da ragioni scientifiche, come ad esempio le sostanze emesse dalle piante, chiamate “monoterpeni” che hanno potenzialità terapeutiche. I monoterpeni sono costituiti da numerose molecole di origine organica e sono prodotti da molte piante, alberi e da funghi e batteri (Marco Mencagli e Marco Nieri La terapia segreta degli alberi) e compongono le resine e gli olii essenziali.
Tra gli effetti prodotti dai monoterpeni, gli autori indicano l’effetto stimolante sul sistema immunitario, sulle ghiandole secretrici dei succhi gastrici, sulle ghiandole a secrezione mucosa nelle vie respiratorie, ecc… Nel 1982, in Giappone l’Agenzia governativa delle foreste promosse li Shinrin-yoku che tradotto in inglese è forest bathing e in italiano è semplicemente “bagno nella foresta“. Studi e ricerche che si sono susseguite negli anni hanno rilevato poi che il forest bathing produceva effetti rilevabili nei dosaggi ormonali, al contrario di quanto avveniva in altri gruppi studiati in città e interveniva sui linfociti che intervengono nel controllo dei virus e delle cellule neoplastiche. Possiamo anche citare il Bioenergetic Landscape, una tecnica che studia e utilizza le proprietà energetiche degli alberi per creare spazi verdi particolarmente favorevoli al nostro benessere o i meccanismi con cui le piante attraverso la traspirazione, riescono ad attirare l’aria viziata convertendola in nutrimento e assorbendo particelle aeree di agenti inquinanti.
Tra le specie da considerare per l’alto potenziale emissivo, troviamo il leccio, la sughera, il faggio, la quercia spinosa, seguono poi il castagno, l’eucalipto, il pioppo, la betulla.
Un bosco in città
In tal senso è da citare ancora Stefano Mancuso con la Fabbrica dell’Aria realizzata a Firenze da biologi, architetti e designer sotto la sua direzione. Questa rappresenta un’importante operazione di riqualificazione per un centro polifunzionale, ex complesso industriale, attraverso una grande serra che filtra, rinfresca e umidifica l’aria. L’aria presente nell’ambiente viene aspirata all’interno della serra, filtrata dalle piante e immessa nuovamente nel locale. In tal modo risulta una riduzione degli inquinanti atmosferici del 98 per cento; pensiamo alla conseguente positiva ricaduta sull’ossigenazione sana e pulita dei bambini, nonché di noi adulti.
Tra le ultime ricerche in campo, proprio in merito ai bambini, esiste lo studio di ricercatori finlandesi delle Università di Helsinki, Tampere e della Finlandia orientale. Un cortile in ghiaia in una città nordeuropea è stato trasformato in un pezzo di bosco. L’esperimento ha coinvolto per 28 giorni, 75 bambini di età compresa fra i tre e i cinque anni in tre diversi ambienti: cortili standard con poco o nessun spazio verde, cortili trasformati con l’aggiunta di elementi di biodiversità e asili nido orientati alla natura dai quali i bambini entravano ogni giorno nei boschi vicini. Obiettivo era verificare il comportamento del sistema immunitario in ambienti così diversi. I risultati a distanza anche di un solo mese hanno evidenziato un considerevole miglioramento del sistema immunitario nei bambini che giocavano nelle foreste attraverso gli effetti sui microrganismi che convivono con il nostro corpo. La ricerca apre a futuri approcci anche profilattici per ridurre il rischio delle malattie immunomediate nelle società urbane dove la perdita di biodiversità limita l’esposizione ai microbioti e aumenta quella ai batteri patogeni.
Lo studio è pubblicato sulla rivista Science Advance con il titolo Biodiversity intervention enhances immune relation and health associated commensal microbiota among daycare children.
Noi non teniamo conto di questa nostra storia evolutiva e di ciò che la lega ancora oggi ai bambini e a noi adulti. È proprio questa nostra storia, questo indissolubile legame con la natura, a spingerci alla ricerca di luoghi verdi, spazi aperti e naturali. Questa innata tendenza umana è stata spiegata in termini evoluzionistici, con il concetto di biofilia, “la tendenza innata dell’uomo a concentrare il proprio interesse sulla vita e sui processi vitali”. Esisterebbero, pertanto, dei veri e propri archetipi di ambiente che l’uomo porta dentro di sé da moltissimo tempo, così come dichiara Edward Wilson nel suo volume Il futuro della vita (“La terapia segreta degli alberi”).
Riusciamo già con questi pochi riferimenti a studi e ricerche ad individuare quali e quante sono le connessioni e le relazioni esistenti tra natura, benessere, educazione all’aperto, formazione, apprendimento, scuola, salute e… virus? Spero di si…