Sono giorni nei quali rimbalza la domanda se è giusto far credere ai bambini che i doni li porta un tizio che si presenta a notte fonda alla guida di una slitta piena di pacchi. Qui diventa un pretesto per ragionare non solo sulla relazione tra Natale e immaginario infantile, ma anche sul grande bisogno di fantasia che segna questo tempo cupo, quella forza in grado di nutrire il desiderio, “la spinta non saturabile ad andare avanti – scrive Ranata Puleo -, a sperare, a nutrire utopie come cammini in cui camminare…”
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“Nella spelonca, tra cumuli di neve, e senza presentire il proprio ruolo, sonnecchiava il piccino…” (I. Brodskij)
Inizio questa riflessione cercando di chiarirmi le idee su chi è, cosa fa un influencer1. Come suggerisce anche l’amicizia con il temine italiano “influenza”, “influenzare”, balza in evidenza un elemento virale nelle comunicazioni dell’influencer, qualcosa che ci affetta/infetta, crea una affezione. Nei tanti traslati operanti nella neolingua dei media sociali, qualcuno, qualcosa, fornisce una spintarella verso un punto di vista, verso un’opinione. Opinioni, doxa per dirla all’antica, bias per aderire al nuovo che avanza, comunque spesso un contenuto di riflessioni e commenti che minacciano di farsi virali (sempre nella neolingua, il patogeno mentale, tramite dispositivo, mezzo e fine della trasmissione erga omnes di quell’opinione). Talvolta si tratta di riflessioni documentate, ovvero corredate da argomentazioni poggiate su testi di riferimento illustri, accreditati dalla ricerca epistemologica (episteme per i greci era una verità opposta alla doxa popolare), tipica della materia di cui si discute. Dunque, scarto gli influencer alla Ferragni e provo a commentare influenzatori di maggior calibro e serietà. Evito ogni riferimento diretto, visto che basta digitare in internet parole correlate al Natale per trovare le considerazioni che qui commento e di cui mi servo per pretesto. In una fase storico-sociale di crisi genitoriale, di caduta delle funzioni attribuite al Padre e alla Madre, di formazione di nuclei mono-famigliari, di legittima apertura alle famiglie arcobaleno, della messa in discussione della maternità come destino individuale, aumenta il disorientamento verso il perturbante-bambino-adolescente e il bisogno di trovare mappe 2. Purtroppo, consigli e consiglieri, lo ripeto, di cui abbonda la rete, resi autorevoli per il solo fatto di figurare in un blog, un sito, una pagina sui media (vale anche per la carta stampata).
Siamo in periodo natalizio e in tutte le famiglie italiane (centro nel nostro Paese la riflessione) si festeggia la nascita di Gesù, Capodanno ed Epifania, secondo la tradizione. Tradizione cattolica e consolidata pratica mercantile (già di fatto anch’essa tradizionale). Protagonisti i bambini, dagli anni del boom postbellico, oggetto principe a cui si rivolgono le aziende che operano sul mercato: giocattoli, vestiario, prodotti di cura, altro, molto, molto altro (per lo più attinente all’area del superfluo assoluto). I doni che i bambini aspettano, li porta Babbo Natale, sempre meno Gesù Bambino, il bambinello che aspettavamo io e mia sorella la notte del 24 dicembre, in decadenza rispetto alla tradizione statunitense direttamente sussunta da Santa Claus, il San Nicola del Nord Europa. È giusto far credere ai bambini che i doni li porta un tizio che si presenta a notte fonda, una sola volta l’anno, agile vecchietto alla guida di una slitta piena di pacchi, trainata da renne, capace di entrare nelle nostre case senza chiavi, o addirittura calandosi dal camino? Prendo in considerazione due posizioni: No, non fatelo, genitori, nonni, zii, è sbagliato! Sì, continuate a farlo, è un pezzo di pura magia quel che accade a Natale!
La prima posizione viene argomentata sostanzialmente dai seguenti snodi critici: 1. i bambini prima dei sei anni non devono esser accostati a fantasie, la loro mente (per caratteristiche cognitive e affettive) non è pronta a distinguere ciò che è vero da ciò che è falso; 2. gli adulti non devono mentire, pena la perdita di fiducia nella loro autorevolezza; 3. nei bambini non devono esser instillate paure come quella rappresentata da un estraneo che entra in casa di soppiatto; 4. ciascuna famiglia può inventare le proprie tradizioni, dimenticando quella del Natale, sfigurato dal consumismo.
La prima obiezione poggia sulla vulgata degli studi di Piaget e di Montessori, e dico vulgata perché l’indiscussa genialità di entrambi gli studiosi è diventata un irrigidimento su una serie di luoghi comuni. Questi quadri teorici hanno subito, grazie a studi sull’età evolutiva e al più recente lavoro delle neuroscienze, una brusca virata verso la loro parziale disconferma3. Ricordo che per Piaget, la teoria degli stadi dello sviluppo affettivo, cognitivo, è diventata un rigido edificio a più piani; per Montessori, matematica e maestra, l’importanza attribuita all’accesso precoce al reale percepito e su cui far agire i bambini, si è convertita in attivismo e spontaneismo infantili che quasi rendono l’adulto superfluo. Disconferma parziale, perché qualsiasi adulto a contatto diretto con un bambino, si rende conto della sua difficoltà, nei primi tre anni di vita (tre, non sei) a governare lo spazio e le sue rappresentazioni, il tempo e la frustrazione legata alle attese, preso com’è da quello che Elvio Fachinelli chiamava il tempo estatico, senza misura4. L’accesso al reale non solo non è inibito dall’investimento magico, antropomorfo, da parte del bambino, ma ne costituisce la soglia. Tempo e spazio del gioco, sono una classe di atti funzionali a capire come funzionano le cose e per caricarle di caratteristiche che spieghino l’inspiegabile; il gioco è luogo affettivo e cognitivo abitato dalla fantasia, concetto su cui provo più sotto brevemente a tornare, vista la vastità del suo contenuto semantico.
Vengo alla seconda obiezione: gli adulti devono insegnare la fiducia nell’altro, ma non è certo raccontando una favola natalizia che rischiano di perdere quella dei loro figli. Semmai l’onestà e la coerenza (per quanto è possibile, in adulti sufficientemente buoni, per dirla con Winnicott)5 si mostrano nei comportamenti quotidiani, nell’esempio fornito dalle relazioni famigliari e amicali, nel rispondere sempre alle domande infantili, talvolta sbagliando la misura, lasciando aperture, aprendo lo spazio di mancanza di cui parla diffusamente la psicoanalisi, quando mancano le risposte, e anche l’adulto le deve cercare, sostando, sospendendo il suo potere di soggetto supposto sapere.
Quanto alla terza obiezione, sulla paura, qui il discorso si complica: dalla paura come riflesso animale (anche se esonerati da molti istinti, a quel regno apparteniamo), a quella che, fin dalla nascita (secondo alcune teorie il trauma iniziale e universale), consente di muoversi in un mondo spesso ostile, opaco, non ancora padroneggiabile con la lingua, con il simbolico, che dunque ha bisogno di figure di appoggio; fino a quella indotta da contesti adulti disfunzionali, violenti, o anche carenti di atti di cura necessari alla lunga neotenia di una creatura piccola. Così, se anche Babbo Natale scendesse dai camini (che esistono in ben pochi appartamenti!), veramente farebbe poco danno, un danno subito riparabile dal contesto gioioso della festa e dal suo simbolismo. E poi, se il vecchietto destasse davvero paura, si potrebbe sempre decidere di dire ai bambini che lo abbiamo pregato di lasciare i regali alla porta di casa!
Per queste prime tre obiezioni mi viene da controbattere anche con un unico altro argomento. Il ruolo dell’adulto di riferimento è anche quello di stare al gioco delle fantasie, dell’investimento magico sugli oggetti, delle proiezioni immaginarie del bambino, accompagnandolo di volta in volta a distinguere ciò che sono le oggettività del suo quotidiano dalle creazioni di un’emotività e di un sentire ancora immaturi. L’adulto che racconta, che gioca, che si presta ai ruoli intercambiabili dei sessi e delle funzioni, che stimola lo scambio fra bambini (facciamo finta che…) è allora davvero una presenza affidabile. Una figura che disinnesca le paure, infondendo fiducia nell’ascolto e nella protezione da ciò che dal gioco sfugge e spaventa.
L’ultima obiezione è particolarmente interessante: le tradizioni, in senso proprio, vengono da lontano, sono fatti culturali assai complessi, sono le spalle su cui poggiamo per leggere il nostro mondo. Certo, esistono in ogni cultura effetti di schismogenesi, di scostamento dai rituali, commentavano Margaret Mead e Gregory Bateson, atti anche singolari, soggettivi, che pian piano li mutano. Un cambio di paradigma sociale di fatto è già avvenuto, nel momento in cui siamo entrati nel modo delle merci, della compra-vendita di forza lavoro, di sfruttamento della Terra, di consegna acefala ai dispositivi della tecnica 6. Qui, in questo quadro socioculturale di onnipotenza sfrenata, va letto anche il Natale, a cui forse potremmo restituire aspetti antichi, l’attesa tipica di un giro di stagione, il donare come viatico verso la primavera futura, come momento di riflessione – per noi adulti – sulla sofferenza, sul dolore, per i quali il nostro sostare presso le loro manifestazioni, è un dono, è la cifra di una possibile riparazione. Non ultimo, è davvero importante evitare di fare di Babbo Natale un giudice morale, un signor nessuno che si arroga il diritto di dispensare doni solo ai bimbi buoni, castigando i cattivi. L’infanzia è una fase della vita in cui – e qui Piaget è ancora attuale – il giudizio etico è precocemente presente ma si presenta investito dalla preoccupazione che i propri errori possano provocare un ritiro affettivo da parte degli adulti di appoggio e comportare un difficile percorso di emendamento.
Chiudo sulla fantasia. Certo, immaginare e fantasticare sono processi differenti ma è indubbia la loro continua sovrapposizione. L’Immaginario, l’esistenza del fantasma come figura tipica di questo piano, influenza costantemente sia la nostra comprensione del reale, sia l’uso che facciamo di segni e simboli della lingua. E niente è più reale nel nostro mondo interiore dell’investimento su di essi, mondo in cui i registri dell’immaginario e del linguistico si annodano si differenziano, tornano a embricarsi. Fantasia nel vocabolario, è parola attestata fin dal medioevo, indica la facoltà umana di interpretare i fatti, i dati dell’esperienza; solo più tardi si accresce dei tratti del fenomeno raro, inaspettato o dell’imitazione teatrale. Del resto l’etimo phantasìa, viene dal verbo greco phàinein, mostrare, far vedere. I sensi ci informano sulla materia delle cose e noi diamo ad esse dei nomi, dei significanti capaci di contenere molti significati, anche in conflitto fra loro. Slavoj Žižek – eretico lacaniano – dà conto diffusamente di simulacri, illusioni, immaginario, virtuale come simulazione digitale, in molte sue riflessioni. Ci invita, proprio in virtù di quel cambio di paradigma verso il godimento consumista indotto dall’attuale capitalismo di mercato, della pervasività del virtuale digitale, a distinguere fantasy da fiction: la prima è la fantasia delle favole, dell’immaginario collettivo e individuale, la seconda è apparenza, finzione che seduce, che porta alla completa estroflessione della psiche verso l’oggetto, ciò che luccica negli scaffali e che mai davvero ci soddisfa7.
La fantasia nutre e alimenta il desiderio, la spinta non saturabile ad andare avanti, a sperare, a nutrire utopie come cammini in cui camminare8.
Note
1 Nel testo uso il maschile come neutro
2 Come si noterà utilizzo molti termini che debbo agli interessi e ai percorsi psicoanalitici che nutrono la mia formazione pedagogica
3 J. Piaget Il linguaggio e il pensiero del fanciullo Giunti-Barbera, Firenze, 1955; AAVV Dopo Piaget Ed lavoro Roma, 1985; P-L. Völzing La capacità argomentativa nel bambino Giunti-Barbera, Firenze,1985; M. Montessori La mente del bambino Garzanti, Milano, 1991; i contributi che disegnano diversamente lo sviluppo della mente e dell’affettività, dalle teorie della complessità fino ai recenti studi sul pensiero, sono sterminati
4 E. Fachinelli La mente estatica Adelphi, Milano, 2009
5 D. Winnicott Gioco e realtà Armando Roma, 1974; id. I bambini e le loro madri Cortina, Milano 1987
6 G. Bateson Naven. Un rituale di travestimento in Nuova Guinea Einaudi, Torino, 1988
7 S. Žižek Il godimento come fattore politico Raffaello Cortina Ed. , Milano, 2000
8 E. Galeano Le vene aperte dell’America Latina Sperling & Kupfer, Milano, 2013