A chi conviene davvero l’aumento dell’export? Una domanda strana, capace di provocare risposte stizzite o evasive ma anche fastidiose allergie nelle cabine di comando del malandato torpedone europeo. Le stesse che investono stuoli di autorevoli studiosi innamorati del messianico valore dell’incremento commerciale a qualsiasi costo. Meglio, poi, se l’incremento è segnato dal rifiuto di limiti e regole che ne possano frenare il galoppo liberatorio. Eppure, nella scorsa estate, era stato lo stesso Parlamento europeo ad avvertire che la Ue non ha mai voluto promuovere una seria discussione sui reali benefici e i costi sociali delle politiche di libero scambio che sono alla base della moltiplicazione dei trattati bilaterali. Le solenni celebrazioni dei prossimi giorni riusciranno a spazzar finalmente via questo modesto ma seccante deficit analitico?
di Monica Di SistoLa deriva dell’Europa verso la moltiplicazione dei trattati bilaterali di liberalizzazione commerciale è davvero senza uscita? E’ recente l’ennesimo bollettino positivo per le esportazioni italiane extra UE in cui l’Istat segnala che negli ultimi tre mesi la dinamica congiunturale dell’export si conferma ampiamente positiva (+5,9%) e coinvolge tutti i raggruppamenti principali di industrie, a eccezione dei beni di consumo durevoli (-0,3%). Anche dal lato dell’import si rileva una sostenuta espansione (+8,2%) particolarmente ampia per l’energia (+26,9%). Su base annua, a gennaio 2017 le esportazioni sono in forte crescita rispetto all’anno scorso (+19,7%). Certo, ricorda l’Istat che il coefficiente è condizionato da un livello di vendite particolarmente contenuto a gennaio 2016, nonché dalla presenza a gennaio 2017 di alcune transazioni straordinarie (commesse speciali e vendite di mezzi di navigazione marittima). Ma le esportazioni viaggiano, e anche le importazioni registrano una forte crescita su base annua (+22,3%) da ascrivere per oltre il 60% alla componente energetica (+72,5%).[i]
Il commercio internazionale nel suo complesso, però, continua a essere lento, e, per quanto riguarda l’Italia, il problema è che esso non si traduce in maggiore occupazione: sempre secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione è salito dal 6,7% del 2008 all’11,9% del terzo trimestre del 2016. I numeri umanizzati chiariscono il quadro ancora meglio: gli italiani disoccupati erano nel 2008 1,6 milioni, nel primo trimestre del 2014 sono più che raddoppiati arrivando a sfiorare i 3,5 milioni, nel 2016 sono 3 milioni 89mila [ii]. Tra ottobre 2016 e novembre 2016 registravano circa 57 mila disoccupati in più. Per ciò che concerne i giovani, nel mese di ottobre 2016 si registrava un tasso di disoccupazione pari al 37,6% e nel mese di novembre 2016 si registrava un tasso di disoccupazione pari al 39,4%: il tasso di disoccupazione peggiore degli ultimi anni (dopo il 12,2% registrato nel giugno 2012). La trasformazione non si espande, il primario arretra, e anche per quanto riguarda un settore esplosivo come quello dell’agroalimentare, la vulnerabilità data dal calo dei consumi interni, costante e inesorabile mina le performance estere.
L’approvazione del CETA
La Grande coalizione nel Parlamento europeo, rispondendo quasi pavlovianamente al dettato dell’economia classica: “più esportazioni uguale più benessere”, il 15 febbraio scorso ha approvato il trattato di liberalizzazione commerciale con il Canada CETA, senza tenere in alcun conto le opinioni dei milioni di cittadini scesi in piazza da tre anni a questa parte per fermarlo, gli oltre 3mila comuni e regioni in tutta Europa che gli avevano chiesto formalmente di non farlo, la ferita creatasi all’interno dello stesso partito socialdemocratico tra chi voleva percorrere la via della cautela, dopo la Brexit e l’ascesa di Trump alla presidenza degli Stati uniti, e chi preferiva andare avanti ripetendosi i vecchi mantra senza farsi nemmeno una domanda. Non hanno ascoltato nemmeno la commissione Lavoro dello stesso Parlamento europeo, che in una recente risoluzione, aveva chiesto ai propri colleghi di bocciare il CETA perché i dati in loro possesso dimostravano, nella migliore delle ipotesi, aumenti complessivi per l’occupazione dell’UE non superiori allo 0,018% in un periodo di attuazione da 6 a 10 anni, a fronte di perdite effettive di 204 000 posti di lavoro per l’UE nel suo complesso, tra cui 45 000 in Francia, 42 000 in Italia. Oltre a ciò, la valutazione d’impatto sulla sostenibilità condotta nel 2011 paventa turbamenti settoriali significativi nell’industria europea, destinata a portare, in ultima analisi, un ulteriore aumento della disoccupazione a lungo termine[iii].
Per giustificarsi del voto favorevole, la maggioranza è riuscita persino a fare del premier canadese Justin Trudeau un campione anti-trumpista: lui che era arrivato a Strasburgo per godersi l’approvazione del trattato, “caldo” di un abbraccio con Trump cui aveva appena concesso una più stretta integrazione con gli Usa nell’area di libero scambio col Messico Nafta, senza opporsi alle annunciate sanzioni e al peggioramento delle clausole a sfavore del Messico decretate da Trump. Il combinato disposto del CETA con questo Nafta+, peraltro, permetterà alle oltre 40mila multinazionali Usa con sedi operative in Canada, di esportare più facilmente nel mercato europeo con le stesse condizioni di vantaggio garantite dal CETA alle imprese canadesi. Insomma Trump oggi non ha più così bisogno di avanzare nel Trattato transatlantico con l’Europa (TTIP), che al momento ha congelato, prima di essere sicuro di aver ottenuto, nero su bianco, vantaggi più che chiari di accesso al nostro mercato e di ridisegno delle regole di produzione e di qualità di prodotti e servizi, che al momento costituiscono circa i 2/3 delle barriere non commerciali che impediscono a molti prodotti e servizi americani di essere più presenti in Europa. Un abbraccio mortale da cui liberarsi con risposte sistemiche.
Il Consensus Europeo sullo Sviluppo
Il nuovo Consensus Europeo sullo Sviluppo [iv]presentato nel novembre scorso dalla Alta rappresentante italiana Mogherini, propone un progetto per allineare la politica di sviluppo dell’Unione con l’agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, partendo da una risposta condivisa della comunità internazionale alle sfide poste dalla globalizzazione. Ma c’è un problema nel ruolo affidato da questo documento al commercio internazionale. Ricalcando i limiti della strategia europea Trade for all[v] cui si ispira, il Consensus non considera la stessa Europa come un pezzo importante di quella sfida per lo sviluppo sostenibile che intende mettere in campo. Eppure i Paesi membri sono stati abbastanza soli nell’affrontare l’austerity, invece di trovare un sostegno in strategie globali a sostegno di politiche sociali ma soprattutto di politiche economiche più inclusive. Secondo Eurostat, 123 milioni di cittadini dell’Unione europea (un quarto della sua popolazione) sono ora a rischio povertà e questo dimostra che l’UE ha bisogno di invertire con forza le sue logiche sia all’interno sia all’esterno dei suoi confini.
Lo stesso Parlamento europeo, nel report adottato sulla comunicazione “Trade for all” il 5 luglio del 2016 ha avvertito che “non c’è stato un dibattito serio nell’UE circa i costi delle politiche di libero scambio (come ad esempio le regolazioni di settore: chiusure di industrie, perdite di lavoro, di produzione, delocalizzazione di interi settori industriali nei paesi terzi, e l’aumento delle importazioni) e in generale mancano analisi “costi / benefici” e che “la mancanza di tale dibattito onesto conduce varie parti interessate a mettere in discussione la logica e la direzione delle politiche di politica commerciale e comunitarie dell’UE in generale, mentre un dibattito onesto impedirebbe questo risultato sfortunato” [1].
A Roma il 25 marzo prossimo vivremo il 60esimo anniversario dei Trattati di creazione della comunità economica europea, peccato originale di uno spazio politico fondato sull’economia e non sulla sostanza. A dicembre 2018, movimenti e sindacati vogliono trasformare l’ennesima Assemblea ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio che si terrà a Buenos Aires nella “nuova Seattle”, per far saltare definitivamente il banco delle politiche commerciali neoliberali. Comunque la si pensi, è arrivato il momento di bloccare questa deriva commerciale fideistica e ripensare gli scambi come strumento di un rinnovato patto sociale a dimensione regionale, spazio da riprogettare a partire dal criterio vincolante della sostenibilità sociale ed ambientale. Un’economia che funzioni non può poggiare sulle gambe d’argilla di una società impoverita e tradita e di un ambiente al collasso.
[1] 2015/2105(INI) http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//NONSGML+TA+P8-TA-2016-0299+0+DOC+PDF+V0//EN
[i] https://www.istat.it/it/archivio/197264
[ii] http://www.infodata.ilsole24ore.com/2017/01/24/occupazione-disoccupazione-italia-europa-dal-2008-al-2017/
[iii] http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2011/september/tradoc_148201.pdf
[iv] https://ec.europa.eu/europeaid/sites/devco/files/communication-proposal-new-consensus-development-20161122_en.pdf
[v] http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2015/october/tradoc_153846.pdf
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