Sono ormai molti gli indizi che spingono a ritenere che la pandemia in corso non sia che una manifestazione dell’emergenza climatica e ambientale già da tempo in corso. Quel che la crisi non eliminerà più per decenni è la necessità di adottare un modo di vivere e convivere radicalmente diverso da quello a cui siamo stati abituati. Dobbiamo cominciare a delinearne qui e ora i principali tratti, tenendo a mente che sarà inevitabile il conflitto tra la conversione ecologica e molti degli interessi costituiti
Numerosi indizi, dal rapporto tra inquinamento e diffusione del virus a quello tra spillover e distruzione di habitat selvatici, fino a quello contagio e insalubrità di molti insediamenti umani, inducono a concludere che la comparsa del coronavirus non è che una manifestazione della crisi ecologica e che questa pandemia non è che una manifestazione dell’emergenza climatica e ambientale già da tempo in corso.
Cesserà – ce lo auguriamo – l’isolamento a cui siamo costretti, ma senza alcuna certezza che non si renda di nuovo necessario di qui a poco per questa o per un’altra ragione. Quello che la crisi climatica e ambientale non eliminerà più per decenni a venire è la necessità di adottare un modo di vivere e convivere radicalmente diverso da quello a cui siamo stati abituati, di cui dobbiamo cominciare di delineare qui e ora i principali tratti.
Il primo compito è soprattutto di carattere culturale e spirituale, ma con ineludibili conseguenze in campo pratico e politico: riconciliarci con la Terra. E’ un tema al centro della critica che tutta l’ecologia integrale (secondo cui giustizia sociale e ambientale sono inseparabili) rivolge da decenni al dominio che il pensiero unico e l’economia hanno imposto ai nostri comportamenti, e che trova un importante riscontro nell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, oltre che nel richiamo esercitato da numerose culture indigene di popoli nativi non ancora completamente obliterate dallo “sviluppo”, a misura della radicalità del cambiamento che si impone.
La prima conseguenza di questo cambio di paradigma è l’obbligo di ridurre il nostro impatto sull’ambiente riducendo radicalmente molte produzioni e azzerandone completamente altre: esattamente ciò che ci si impone oggi per ridurre il rischio di contagio; sul lavoro, negli spostamenti, in famiglia, coi vicini.
Per farlo occorre che i diretti interessati, che non sono solo gli addetti di ogni singola azienda, ma tutta la comunità che ne subisce in vario modo l’impatto, recuperino o conquistino un potere decisionale nel definire quali produzioni sono essenziali e quali no: oggi, di fonte al dilagare del contagio; domani, nel far fronte alle manifestazioni della crisi climatica e ambientale.
Ciò richiede che venga garantito comunque un reddito adeguato a chi, transitoriamente o per sempre, non avrà più accesso al lavoro o alle fonti di reddito su cui ha contato finora.
Ma assumere ed esercitare quel potere decisionale è un processo complesso, che richiede la disponibilità di molto tempo, di cui è necessario riappropriarsi ridistribuendo su una platea molto più ampia le attività che sopravviveranno alla eliminazione o riduzione delle produzioni superflue.
La crisi acuita dall’attuale pandemia, ma già in incubazione da tempo, lascerà dietro di sé, in tutto il mondo, un panorama di contrazione e sconnessione di tutte le attività economiche, finanziarie e produttive; inutile cercare di salvare la continuità produttiva di molte imprese condannate comunque al fallimento o alla chiusura. Meglio dedicare gli sforzi a riprogettare quelle vecchie e studiare quelle nuove.
Per affrontare la crisi climatica e ambientale occorre avviare una radicale conversione ecologica nei comportamenti e in campo produttivo: per lo meno negli ambiti principali: energetico, agro-alimentare, mobilità, assetti idrogeologici, edilizia, salute, istruzione e ricerca. Il problema è il come.
L’obiettivo principale è recuperare resilienza rispetto ai vincoli esterni: quelli imposti dalla finanza, dalle catene globali delle forniture, da mercati di sbocco evanescenti. In una parola, ri-territorializzazione della maggior parte delle attività suscettibili di un reimpianto locale.
Gli eurobond sono un palliativo che non elimina la soggezione alla finanza internazionale, ma in tutti i paesi c’è una quota elevata di debito pubblico illegittima o odiosa che non va onorata anche in base al diritto internazionale. La situazione va equilibrata restituendo a ogni comunità locale il controllo della circolazione monetaria che alimenta a propria economia locale e limitando agli scambi internazionali le valute sovranazionali.
Il principale ostacolo alla conversione ecologica è costituito dalle guerre in corso e dall’industria delle armi che le alimenta, costringendo milioni di persone a fuggire dal proprio paese. La principale guerra del futuro, di cui già si intravedono le prime pesanti manifestazioni, è quella contro i migranti, il cui numero è destinato a crescere con l’avanzare della crisi ambientale.
Continuare nelle politiche di respingimento non fa che aggravare le cause della crisi attuale e futura. Accoglienza e inclusione sono quindi condizioni irrinunciabili che possono contribuire anche a promuovere politiche volontarie di ritorno per la rigenerazione dei territori e delle comunità da cui profughi e migranti sono stati costretti a fuggire.
La conversione ecologica è indisgiungibile dal conflitto con molti degli interessi costituiti che dà concretezza e credibilità alle proposte di un green new deal e può mobilitare una parte consistente dei cittadini di tutti i paesi dell’UE per imporre ai rispettivi governi una vera svolta per tutta l’Europa.
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