Da anni assistiamo, nelle nostre istituzioni rappresentative, a interminabili e inconcludenti dibattiti politici su ius soli, ius sanguinis e ius culturae. Negli episodi di cronaca che riempiono i giornali, è considerato più o meno importante precisare l’origine straniera, “extracomunitaria” delle persone coinvolte. Lo stesso avviene, pur non sollevando un pari livello di polemiche, con notizie positive: scelte di vita quotidiana che diventano “begli esempi di integrazione” se i protagonisti hanno un nome o un aspetto inconsueto, pure quando sono nati e cresciuti in Italia. Dietro tutto questo, si può intravedere la costruzione sociale della cittadinanza.
È vero, bisogna osservare attentamente, perché spesso la cittadinanza è rappresentata e percepita come qualcosa di naturale, effetto immediato di una causa molto semplice e intuitiva. Sono cittadina italiana perché sono nata e cresciuta qui, da genitori a loro volta italiani. Sottintesa è quindi la genesi della cittadinanza dall’altrettanto (apparentemente) naturale concetto di nazionalità. L’appartenenza alla nazione, anche questa naturalizzata, è apparentemente la causa primaria dell’attribuzione di cittadinanza. In questa prospettiva, la cittadinanza è un dato reale, identitario che solo in un secondo momento acquisisce rilevanza giuridica. In altre parole, il riconoscimento giuridico della cittadinanza non sarebbe altro che il risvolto istituzionale di una realtà oggettiva preesistente.
Il vizio alla base di questa concezione della cittadinanza è proprio la presunta naturalità dell’appartenenza nazionale. I nazionalismi, insistendo sull’equazione tra identità e territorio, propongono inevitabilmente una distinzione tra chi rientra in tale equazione e chi ne è escluso. Ma proprio in quanto prodotto storico, nato in Europa e poi esportato nel mondo, i nazionalismi non sono immutabili. Soltanto inserendo la dimensione nazionale – che oggi ci sembra così inevitabilmente universale – in processi storico-sociali potremo cominciare a rovesciare anche la prospettiva sulla cittadinanza.
A scuotere l’apparentemente naturale idea della cittadinanza sono, più di ogni altro fenomeno contemporaneo, i movimenti migratori transnazionali. Le migrazioni non corrispondono soltanto a spostamenti, ma anche a riposizionamenti, presenze e pratiche sociali che mostrano l’arbitrarietà e le contraddizioni dietro all’attribuzione della cittadinanza. Davvero la distribuzione disuguale di diritti – perché di questo si parla quando distinguiamo tra cittadino e straniero – può essere fondata su presunti criteri culturali e di comprovata appartenenza (che poi non sono in realtà così omogenei come appaiono nemmeno tra la stessa popolazione “nazionale”)?
Nel rendere costantemente palese la natura artificiosa e socialmente costruita delle frontiere statual-nazionali (E. Gellner 1985; B. Anderson 1983), la presenza di con-cittadini esclusi dalla cittadinanza e da parte dei diritti che essa veicola testimonia al contempo la natura dinamica della cittadinanza e della «nazione dei cittadini»: qualcosa che, come suggerito da Jürgen Habermas (1992), non trova la propria identità in affinità etnico-culturali, ma nella prassi dei cittadini stessi che esercitano attivamente i propri diritti democratici di partecipazione e di comunicazione. [1]
Il processo di inclusione-esclusione alla base della cittadinanza per come è stata finora concepita nasconde sotto il pretesto culturale un meccanismo di segmentazione sociale. Lo dimostrano i tanti “italiani senza cittadinanza”, come si definiscono loro stessi [2]: la loro legittima presenza e appartenenza a un territorio non è riconosciuta automaticamente, per il semplice fatto di essere cresciuti qui. Per esercitare dei diritti che a buona parte della popolazione sono attribuiti come connaturati alla loro stessa esistenza, gli italiani e le italiane senza cittadinanza, le famose “seconde generazioni” di cui si parla tanto ma senza interpellarle, devono chiedere il permesso, dimostrare in qualche modo di meritarli – economicamente e culturalmente [3]. Devono provare, come si dice spesso, di essere “integrati”.
Dividere i cittadini dai non-cittadini non è quindi un riflesso banalmente identitario, ma ha un carattere funzionale a produrre e perpetrare delle disuguaglianze economiche e sociali, che vengono ufficializzate tramite l’istituto giuridico della cittadinanza e le molteplici tipologie di status legale, da cui deriva una maggiore o minore precarietà culminante nella condizione di irregolarità in cui tante persone sono costrette. Nell’esistenza di diverse gerarchie che stabiliscono le linee della legittimità e dell’appartenenza, è possibile individuare
l’infiltrazione nello spazio delle società europee di una frammentazione giuridica (di status giuridici differenziati) tipica degli stati coloniali del passato, ovvero una sorta di ri-attualizzazione della vecchia distinzione tra cittadino (gli europei) e suddito (gli abitanti delle colonie) attorno cui si organizzava il diritto coloniale. [4]
Oggi la contrapposizione coloniale centro-periferia, cittadino-straniero, continua dunque ad avere effetto sulle vite delle persone migranti che vivono all’interno del nostro stesso spazio nazionale. Per questo ci ostiniamo a chiedere di mostrare il proprio “buon livello di integrazione” a chi di fatto è già parte di una società: abbiamo ancora cucita addosso la missione civilizzatrice con cui ci arroghiamo il diritto di stabilire cosa è la “norma”, garanzia morale-culturale derivante dalla legittima appartenenza, e cosa non lo è.
Allora qualcuno rientra nella norma per nascita, qualcuno no, ed è ammesso a pieno titolo nella società soltanto dopo aver dimostrato di meritare lo status di cittadino, con tutti i diritti ad esso connessi. Ma quanti cittadini italiani per nascita conoscono perfettamente e in modo omogeneo elementi quali la lingua, le leggi, la cultura (ammesso che vi sia una cultura), che consideriamo imprescindibili quando ci relazioniamo con uno “straniero” che aspira a essere considerato cittadino?
D’altronde, segmentare la società operando la distinzione cittadino-straniero (e straniero regolare-irregolare) anche tra persone che abitano lo stesso spazio ci sembra così normale perché, fin dalla sua origine, il concetto di cittadino ha operato per esclusione. Esclusione non soltanto tra chi vive dentro e fuori i confini nazionali, ma anche all’interno della stessa nazione tra uomo e donna, tra possidente e indigente. Queste categorie, che determinavano l’accesso ai diritti di cittadinanza, venivano naturalizzate attraverso il filtro della cultura, della morale e, da ultimo, della razionalità: il cittadino si distingueva dal non-cittadino e dalla donna proprio per questi attributi [5].
Era quasi inevitabile allora che le stesse caratteristiche con cui si diversificavano i ruoli sociali della popolazione nazionale fossero negate al suddito delle colonie europee. Venute meno le colonie, si continua a differenziare la popolazione con il pretesto delle differenze nazionali e culturali, per distribuire in modo diseguale i diritti che, nel concreto, corrispondono a possibilità e privilegi socio-economici. E sono pochi i discorsi sulla cittadinanza nell’opinione pubblica che mettono veramente in discussione questo stato di cose, aspirando a ripensare gli equilibri sociali. L’idea di riorganizzare la cittadinanza secondo un cosmopolitismo reale, un “internazionalismo domestico”, potrebbe apparire adesso difficilmente realizzabile, ma prima o poi ci accorgeremo della sua necessità:
[N]on vedo quale offerta potrà essere abbastanza “generosa” da farvi considerare questa prospettiva. Cosa potrà farvi rinunciare alla difesa dei vostri interessi di razza che vi consolano del vostro declassamento e grazie ai quali avete la soddisfazione di dominar(ci)? Tranne la pace, non ne vedo. Per pace intendo il contrario di “guerra”, “sangue”, “odio”. Intendo: vivere tutti insieme pacificamente [6].
Fonte: Melting Pot. Laura Morreale fa parte della Redazione community del Progetto Melting Pot Europa e collabora con Comune
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Note
[1] L. Zanfrini 2007, Cittadinanze. Appartenenza e diritti nella società dell’immigrazione, Roma-Bari, Laterza.
[2] https://www.facebook.com/italianisenzacittadinanza
[3] https://jacobinitalia.it/i-confini-della-cittadinanza
[4] M. Mellino 2009, Cittadinanze postcoloniali. Appunti per una lettura postcoloniale delle migrazioni contemporanee, Studi Culturali, p. 8.
[5] S. Mezzadra 2008, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre corte, pp. 44-46.
[6] H. Bouteldja 2016, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie, p. 39.
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