Non ci sono scorciatoie. Cittadini e movimenti sono chiamati a obiettivi ambiziosi quanto urgenti, che riguardano la vita di ogni giorno, a cominciare dallo sperimentare forme di liberazione del lavoro dalla gabbia della produzione di plusvalore. Occorrono teorie e pratiche diverse per pensare al lavoro finalmente “fuori dalla produzione di merci”, dice Paolo Cacciari. Si tratta quindi di capovolgere e riconcettualizzare il lavoro stesso, “non più come ‘lavoro astratto’, impersonale e indifferente tanto al soggetto che compie l’attività quanto all’oggetto dell’azione trasformativa”. Creare redditi di comunità, ovvero mercati complementari e supplementari a quelli tradizionali, è un buon modo per iniziare. L’articolo che trovate in questa pagina segue il dibattito proposto da Alberto Castagnola in Ripensare la società dal lavoro. Alcune proposte, sul quale sono intervenuti anche Francesco Gesualdi (con Smettiamola di preoccuparci del lavoro) e Tonino Perna (Superare il binomio Stato/Mercato).
di Paolo Cacciari
Di fronte al palese, drammatico fallimento della promessa della “piena occupazione”, è gusto e necessario pensare ad una risposta concreta, immediata, praticabile e gestita autonomamente in prima persona dalle persone che questo sistema economico ha dichiarato “soprannumerarie”, economicamente inutili e finanche un peso per la società. L’idea è quella di un “piano del lavoro” dal basso, a partire da una ricognizione dei bisogni reali delle popolazioni, territorio per territorio, per il recupero e la riappropriazione collettiva dei beni comuni naturali e culturali. Un piano specularmente opposto a quello delle privatizzazioni. Un piano non per permettere alle banche di emettere bond e continuare a foraggiare di interessi i possessori di titoli di credito, ma per “mettere al lavoro” il maggior numero possibile di persone.
I campi di intervento possibili proposti nell’articolo Ripensare la società dal lavoro di Alberto (Castagnola, ndr) sono quelli giusti e danno l’idea di quanto vasto potrebbe essere il lavoro solo per rimediare ai danni che una industrializzazione e una urbanizzazione selvaggia hanno arrecato al “capitale naturale” del nostro paese e per reinnescare un processo rigenerativo. Già anni fa Legambeinte e Cgil (Ambiente Italia ed Ires) avevano provato ad avanzare delle ipotesi di intervento sul patrimonio storico e naturale elaborando anche precisi piani tecnico-finanziari. La novità della proposta di Alberto è che i progetti, non solo devono essere predisposti e gestiti autonomamente dalle comunità locali, ma che per la loro realizzazione non fanno affidamento nell’intervento centrale dello Stato. Non si tratta, quindi di rieditare esperienze tardo-keynesiane alla Franklin Delano, i Civilian Conservation Corps, né interventi a spot “anticongiunturali” in attesa di una chimerica “ripresa” della crescita economica (che non verrà mai più), ma di innescare una riconquista del controllo del territorio da parte delle comunità di riferimento, vale a dire del supporto materiale fondamentale del vivere civile.
Ogni progetto di intervento potrebbe e dovrebbe essere inserito in patti territoriali di sussidiarietà orizzontale con gli enti locati, contratti d’area, di bacino, di fiume, agenzie per la riconversione energetica, Esco, aziende per la gestione partecipata dei servizi pubblici locali, fondazioni a proprietà indivisa e inalienabile per la gestione dei patrimoni e quant’altri strumenti si pssono immaginare per una governo dei beni comuni ricentralizzato a scala locale. Una sorta di “federalismo demaniale” alla rovescia, finalizzato alla riappropriazione dei beni pubblici abbandonati, male utilizzati, usurpati. Le esperienze intraprese dal Comune di Napoli possono fare da guida.
E’ stato rilevato da molti, da molto tempo: il principale scandalo (sociale e morale) del sistema economico dominante è la non utilizzazione delle potenzialità lavorative (l’offerta di lavoro) in presenza di bisogni umani insoddisfatti. Le ragioni sono note: il mercato non è fatto per garantire la “piena occupazione”, ma solo il massimo rendimento dei capitali investiti. E le due cose non vanno affatto d’accordo, contrariamente a quanto ci hanno fatto credere. Sovrapproduzione e sottoccupazione si alimentano reciprocamente e i punti di equilibrio – in un sistema globalizzato che conta di un esercito di riserva di qualche miliardo di disoccupati – risultano molto difficili.
Pensare, quindi, di raggiungere l’occupazione in lavori (degnamente) retribuiti di tutte le persone esistenti sulla faccia della terra è un obiettivo illusorio dentro le logiche capitalistiche. Anche se – a mio modestissimo modo di vedere – dovessero resuscitare gli stati e le politiche economiche keynesiane. I margini per un nuovo compromesso tra capitale e lavoro utile ai lavoratori occidentali non ci sono più. In questa parte del mondo, almeno. La ragione è che non c’è più nulla da redistribuire. Nell’ex-primo mondo, nei paesi di più antica industrializzazione la partita della competitività e le possibilità di accumulazione (ai danni dei paesi “arretrati”) si è chiusa da tempo. La finanziarizzazione altro non è che un tentativo di “prendere tempo” (leggere: Wolfgan Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli 2013, ma anche gli scritti del nostro Raffaele Sciortino), di drogare i profitti che l’ “economia reale” non riesce più da tempo a produrre.
Se così è la “piena occupazione” la si deve trovare altrimenti. Liberando il lavoro dalla gabbia della produzione di plusvalore. Ripensando al lavoro fuori dalla produzione di merci. Riconcettualizzando il lavoro stesso. Non più come “lavoro astratto” (impersonale e indifferente tanto al soggetto che compie l’attività quanto all’oggetto dell’azione trasformativa) ma come lavoro vitale e vitalizzante, cioè: lavoro come forma di impiego socialmente utile delle facoltà umane di ciascun individuo. Lavoro collettivo, cooperante come energia sociale che una comunità umana ha a disposizione per soddisfare i propri bisogni e desideri. Insomma, bisognerebbe capovolgere i termini della questione economica: non sono i saggi di rendimento che determina la quantità (e la qualità) di lavoro da impiegare, ma ciò che una comunità decide di volere produrre.
La principale criticità della proposta Ripensare la società dal lavoro, è allora è il sistema di finanziamento dei lavori. Il sistema della “produzione dal basso”, di crowfunding, di raccolta di risparmi popolari (vedi la esperienza del pastificio “recuperato” Iris grazie ai Gas) ed altre forme di finanza creativa popolare e democratica, sembrano non essere sufficienti a garantire la liquidità necessaria per interventi di ampia portata. E’ necessario allora inventare sistemi di finanziamento (sia per garantire gli investimenti che per i compensi) alternativi. Servono le monete locali. Agli enti pubblici allora non si chiedono denari, ma la possibilità di sottrarre le comunità locali e le loro reti di imprese e distretti di economia solidale dal giogo del costo del denaro e dalla morsa degli interessi. Non si tratta di “uscire dall’Euro”, ma di uscire da qualsiasi sistema finanziario che sia governato dalla remunerazione degli “investitori”, cioè, che sia fondato sul debito. L’esperienza del Sardex – per rimanere in Italia – può diventare uno straordinario punto di riferimento.
I compensi dei lavoratori non saranno “salari”, ma “redditi di comunità”. Non girerà “denaro”, ma una moneta-credito che la comunità riconosce a chi ha svolto delle attività da lei stessa scelte. Si tratta di creare un vero e proprio mercato complementare e supplementare a quello tradizionale, in cui gli operatori comprano e vendono senza ricorrere al denaro, evitando di pagare il prezzo del suo (salatissimo) costo e senza aggravi di interessi. L’aspetto forse più interessante è che in questi circuiti di credito (il più antico è la Wir Bank svizzera), già teorizzati da Keynes il prezzo (valore di scambio) dei prodotti è fissato dalle aziende stesse sulla base di un rapporto diretto tra produttore e utilizzatore dell’opera.
Paolo Cacciari () ha lavorato all’Unità ed è stato più di un semplice collaboratore del settimanale Carta. Consigliere comunale e assessore a Venezia per vari periodi, attualmente collabora con la Rete per la Decrescita con cui è stato tra gli organizzatori della terza conferenza internazionale sulla decrescita (Venezia, 2012). Tra le sue pubblicazioni Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Carta e Intra Moenia, 2006. Il comune non pensa solo all’immondizia, in: Cambieresti? La sfida di mille famiglie alla società dei consumi, i libri dell’Altreconomia, 2006. Decrescita o barbarie, Carta, 2008, ora disponibile gratuitamente su decrescita.it, e con altri La società dei beni comuni, Ediesse, 2011. Altri articoli di Paolo Cacciari presenti nell’archivio di Comune sono QUI.
DA LEGGERE
Il reddito e il tempo di vita [Diversamente occupate]
Il reddito di cittadinanza permette a tutti, donne e uomini, di riappropriarsi della propria forza di contrattazione e del proprio corpo, non più a disposizione, a qualunque costo, dei ritmi e delle richieste dettati da altri e dal mercato. «Riprendiamoci il corpo, riprendiamoci un tempo di vita». La ribellione delle Diversamenteoccupate
Lavorare meno e viver meglio [Florent Marcellesi]
Nei movimenti spagnoli di resistenza all’austerity si ragiona della proposta di riduzione dell’orario di lavoro a ventuno ore e di reddito di cittadinanza. I lavoratori vanno tutelati ma l’idea di lavoro va ripensata. Attività domestiche, di volontariato, artistiche, sociali: c’è vita oltre la crescita
Dalla precarietà alla convivialità [Gustavo Esteva e Irene Ragazzini]
Pezzi di società latinoamericana mettono in discussione le condizioni di precarietà costruendo relazioni di mutuo soccorso e solidarietà tra buen vivir e convivialità. Un lungo saggio le analizza e le confronta con il contesto europeo
Il non-lavoro è un modo di fare la rivoluzione? No, di viverla [Philippe Godard]
Abbiamo interiorizzato il lavoro da non poterlo più mettere in discussione, se non ragionando sul senso della vita. Ebbene, è ora di farlo
Trabajar menos, vivir más: un tema per archeologi? [Eduardo Galeano]
Il grande scrittore-uruguayano ragiona sul tema del lavoro. Storie e analisi su come ovunque le conquiste operaie vengono gettate nella spazzatura. Galeano dice anche che è il momento per ridurre il tempo di lavoro e ampliare gli spazi di libertà
La ribellione del lavoro indipendente [Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli]
L’arcipelago dei lavoratori indipendenti è uno spazio in cui dilaga la precarietà. Tuttavia è anche un mondo con cui milioni di persone non garantite affermano la propria autonomia nella società. E resistono a una storia di austerità che dura da un paio di secoli
Marco Giustini dice
Dall’esperienza dei WIR nasce il modello della FAZ. Che unisce moneta libera, finanziamento senza interesse e reddito di cittadinanza.
http://www.faz.im