di Rivoltiamo la precarietà, Bari
Da Rignano Garganico a Bari: la maschera del razzismo istituzionale tra tendopoli e sgomberi umanitari
Le tende allestite nell’ex capannone SET, in uno dei quartieri più centrali e popolari di Bari per ‘ospitare’ momentaneamente i migranti che per quasi nove mesi hanno occupato e vissuto nell’ex-monastero di Santa Chiara, sono l’emblema di come stia evolvendo, o meglio regredendo, l’idea di accoglienza nel cuore dell’Europa democratica. Per giustificare quest’operazione le Istituzioni competenti, affiancate dai mezzi di comunicazione mainstream, da qualche giorno non fanno altro che evidenziare come si tratti di persone che necessitano attenzione da parte di tutti, elogiandoli per la loro innocenza e bisogno di aiuto. Gli stessi che però non sono stati considerati minimamente quando hanno rivendicato prima fuori e poi nel percorso di autogestione della Casa del Rifugiato il diritto all’abitare, alla residenza e ad una vita dignitosa.
Improvvisamente non se ne parla più, ma la realtà ci dice che questa attenzione improvvisa parte da un’ordinanza di sgombero che detta un ultimatum inderogabile verso i migranti, non permettendo loro di rapportarsi alla pari con le Istituzioni, ma costringendoli ad accettare la tendopoli, allestita in tempi da record. Non è un caso però che le tende messe a disposizione dalla Protezione civile – Ministero degli Interni e Regione Puglia siano le stesse utilizzate per fare da tappa buchi ad altre emergenze. Infatti fino a qualche giorno fa erano nel foggiano, per nascondere il degrado presente nelle baraccopoli delle campagne della capitanata. Ma non sono servite a molto, poiché l’operazione di ‘sgombero umanitario’ ideato dalla Regione Puglia per trasferire quest’estate i migranti dal Gran Ghetto di Rignano Garganico nella tendopoli è fallita; così come si è perso nel nulla il progetto regionale ‘Equapulia – capo free ghetto off’. Il perché è rintracciabile nella volontà politica di non affrontare di petto le relazioni di lavoro semi schiaviste imposte dalle aziende di trasformazione del pomodoro e della grande distribuzione verso i braccianti agricoli, e di non aver fatto nulla per introdurre il trasporto e il collocamento pubblico nelle campagne della capitanata.
L’approccio caritatevole e buonista delle Istituzioni locali ha impattato contro il muro dei rapporti di forza a favore della dea produttività e del dio profitto ben gestito da imprese, caporalato in concerto con la criminalità organizzata di zona. Si è creduto che una tendopoli, la fornitura di acqua e luce, delle saltuarie ed affrettate relazioni con i diretti interessati, potesse porre rimedio al luogo simbolo dello sfruttamento istituzionalizzato nelle campagne del mezzogiorno. E così, subito dopo la stagione estiva la gestione umanitaria del degrado e dello sfruttamento, dalle campagne si è spostata e materializzata in città; dove questa volta il Comune e la Prefettura di Bari non hanno tradito le attese, continuando a muoversi sulla scia dell’emergenza quando ormai da anni sono loro stessi a riconoscere, durante convegni e meeting, che si tratta di un fenomeno storico e strutturale.
La questione è che ai migranti, che hanno vissuto per mesi nella Casa del rifugiato e sono a Bari da alcuni anni, è stato riconosciuto lo status di protezione internazionale molto prima della messa in scena offertaci in questi giorni dalle Istituzioni. Avrebbero diritto alla seconda accoglienza già dal giorno dopo in cui sono stati dichiarati rifugiati politici. Solo che ormai il diritto lo si applica all’interno di una zona grigia dentro la quale gli immigrati devono vivere in uno stato permanente di alternanza tra regolarità ed illegalità, tra visibilità ed invisibilità, in base alle convenienze ed opportunità delle diverse circostanze di cui il sistema economico-istituzionale necessita.
L’accesso ai diritti, al soddisfacimento di bisogni sociali come un’abitazione, la fornitura di servizi igienici, sanitari, l’allaccio all’acqua e alla corrente elettrica, il riconoscimento del domicilio e della residenza, ormai si sono trasformati in un optional, la cui concessione non è definita in base all’attuazione di precise politiche sociali, bensì in funzione della disponibilità dei fondi europei o di quelli messi a disposizione dal Ministero. Per mesi le richieste dei migranti sono rimaste inascoltate, poiché etichettati come ‘abusivi’. Poi all’improvviso gli occupanti irregolari, quelli rimasti invisibili diventano brave persone, non pericolose, dei poveracci, costretti a scappare da guerre e carestie, da genocidi e dittature da aiutare in sistemazioni arraffate.
Ecco che riemerge tutta la retorica che considera i migranti delle vittime silenziose da accudire, ospiti transitori ai quali concedere una sistemazione temporanea in una tendopoli o oggetti culturali da mettere in bella mostra il sabato pomeriggio attorno ad una piazza propagandando integrazione, pace e umanità o sulla pagina facebook istituzionale.
Non è semplice districarsi in questo continuo Stato di ambivalenza, in cui il concetto del rispetto dei ‘diritti umani’ si fa pretesto per vittimizzare gli immigrati o ridurli a semplici utenti di concessioni paternalistiche. Ma, come al solito, non si mettono in conto quei percorsi di autodeterminazione e rivendicazione che fanno dei migranti una soggettività in continua definizione. L’esperienza di autogestione e di mutuo soccorso praticata in questi mesi dentro e fuori la Casa del Rifugiato, l’approccio collettivo ed unitario di cui si sono dotati per gestire lo ‘sgombero umanitario’ verso la tendopoli urbana, dimostra ancora una volta il protagonismo e la maturità politica dei soggetti migranti.
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