Viviamo una “crisi” che non passa mai, nella quale le persone si sentono immerse senza poterne tirar fuori la testa. Una stagione pervasa dal risentimento, in cui molti cercano un capro espiatorio: crescono i muri di separazione, le ronde, l’acquisto e l’uso delle armi, l’accanimento contro i più poveri e i migranti. Abbiamo bisogno di ritrovare lo spirito dell’utopia, dice Roberto Mancini* in Utopia (Gabrielli ed., di cui pubblichiamo parti del primo capitolo), uno spirito ma prima di tutto un modo di essere e di costruire legami. Non si tratta di prendere il potere e neanche di accumulare forze per un domani diverso: “L’azione dotata di intensità utopica è sempre responsabile, attenta al presente e alle conseguenze dei comportamenti. Non sacrifica ciò che è a ciò che sarà, non immola il presente sull’altare dell’avvenire…”
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Ritrovare il senso concreto dell’utopia
Questo libro propone una riflessione sulla pertinenza dell’utopia rispetto all’esistenza umana e alla vita della società in una stagione storica chiaramente antiutopica, depressa, pervasa dal risentimento e dalla tendenza alla disgregazione. Inizierò la mia riflessione affrontando dapprima il tema nel suo significato antropologico e sociale, poi lo approfondirò soprattutto per come si delinea nella prospettiva della fede cristiana. Questa particolare angolatura del mio approccio non scaturisce da un’intenzione apologetica, ma dall’impegno a chiarire che cosa per me è essenziale nella lettura della condizione umana.[1]
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Attualmente un lavoro dedicato all’utopia, al suo significato e alla sua importanza per noi, non può essere scritto come se fosse una voce di dizionario. Non mi pare sensato affrontarlo in modo astratto, come un mero genere letterario, evitando di chiarire quale rapporto esiste tra l’utopia stessa e noi. Se non la si considera in modo più comprensivo e concreto, l’utopia fa una brutta fine: o viene trattata come un reperto archeologico, tipico di epoche passate ingenue e illuse, oppure viene adottata volentieri ma in modo settario e come un surrogato di fantasia al posto di un bene o di una felicità che non sperimentiamo, quasi a compensare tutte le frustrazioni subite. Oppure, semplicemente, viene rimossa e ignorata.
Da molti anni anche solo l’accenno all’utopia viene subito respinto perché siamo nel clima cupo e ansiogeno dettato dalla parola “crisi”. Il senso di sfiducia e di precarietà che essa induce si è radicato nello sguardo, nei sentimenti, nella quotidianità di moltissime persone e nella vita dei popoli. Per tale ragione non si può parlare di utopia ingenuamente, senza tenere conto di questo diffuso stato d’animo di segno negativo. Occorre considerare dove ci troviamo esistenzialmente e storicamente. La “crisi” riassume il clima generale in cui le persone si sentono immerse senza poterne tirar fuori la testa, senza che si manifesti uno spiraglio per pensare di poterne uscire. Ma se si rileggono le cronache della seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, poi quelle dei decenni successivi sino a oggi, si ritrova ogni volta questo termine. E si avverte subito che non è come un problema da risolvere, una sfida da affrontare, piuttosto è come un elemento cupo, avvolgente, vischioso, che tocca subire e che spinge a cercarsi qualche rifugio.
Emergono così alcuni tratti caratteristici che dovrebbero indurre a riflettere meglio. La prima è la durata anomala. Una crisi è un passaggio arduo, e breve, nel quale un certo processo di vita va verso la rovina o verso la guarigione. Invece la nostra cosiddetta “crisi” non passa mai, è un’istituzione non una situazione eccezionale, è una condizione permanente, non un’emergenza. Un’altra caratteristica sta nel tipo di atteggiamento che la “crisi” sta suscitando ormai da almeno un decennio. Mentre di fronte a un’autentica crisi singoli o gruppi sociali sono sollecitati a costruire una risposta per risolvere i problemi e soprattutto cercano una prospettiva nuova per farlo, nella situazione in cui siamo quasi nessuno si attiva con lucidità e con responsabilità.
Il perdurante adattamento al clima della “crisi” comporta il diffondersi di sentimenti di ansia e di angoscia. In merito ricordo che Franz Neumann, uno dei più acuti sociologi della politica e del diritto tra gli studiosi della Scuola di Francoforte, ha osservato come esistano due tipi molto diversi di angoscia. C’è un’angoscia lucida, che ti avverte di un pericolo imminente e ti mette in movimento per agire in maniera congruente. C’è però anche un’angoscia nevrotica, che serve soltanto a spaventarti e ti spinge a reagire con modalità incongruenti[2]. La reazione maniacale assume una forma persecutoria, si proietta la colpa del malessere e della minaccia incombente su qualcuno che funge da capro espiatorio. Allora crescono i muri di separazione, le ronde, l’acquisto e l’uso delle armi, l’accanimento contro i poveri e gli stranieri, le politiche dell’odio e della paura. Il capro espiatorio di solito non è un individuo, è una categoria di persone, giudicate in quanto tali radicalmente diverse, pericolose e inferiori. Una categoria da respingere o da eliminare, ogni volta rappresentata in primo luogo da chi è sentito come “straniero”. Il fatto che governi e politiche populiste, con il loro intrinseco razzismo, si diffondano ovunque nel mondo dimostra quanto sia veloce il contagio dell’angoscia nevrotica nella sua versione persecutoria.
Nell’altra versione dell’angoscia nevrotica emerge la reazione depressiva, quella che porta all’inerzia, alla rassegnazione, alla disperazione politica. Essa si ha quando i popoli si lasciano ridurre a popolazioni senza coscienza, senza capacità di iniziativa, senza responsabilità. In tal caso quasi tutti credono che non si possa fare nulla. E allora, anche se in fondo si sa che siamo sotto una minaccia radicale, si fa finta di niente, si continua a fare quello che si è sempre fatto. È quanto accade oggi in rapporto alla devastazione ecologica del pianeta, che rappresenta una minaccia concreta e imminente di estinzione della specie umana. Eppure governi, collettività e singoli, salvo rare eccezioni, continuano a perseguire la “crescita” economica rifiutando di capire che tale tendenza è distruttiva per gli equilibri della natura e quindi per noi. La stessa cosa accade con l’aggressione sistematica alla democrazia, che viene perpetrata nel silenzio e nell’inerzia di buona parte dell’umanità. Ciò attesta che la nostra è una società ad alta entropia[3], caratterizzata da una tendenza corrosiva che è l’esatto contrario della tendenza utopica.
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Vedere l’inedito
Siamo dunque tra entropia e utopia. Ma l’utopia ha in sé una luce e un respiro in grado di evocare il riscatto dall’entropia. Si tratta non di un riferimento isolato, bensì di una costellazione di significati. L’utopia anzitutto è uno spirito che dà profondità alla nostra prospettiva sul tempo storico. È lo spirito che consente di guardare verso una trasfigurazione della realtà, per adesso non data e non visibile, che nondimeno preme per attuarsi e potrà effettivamente avere il suo luogo nella storia. Ha a che fare, più che con la fantasia proiettata verso l’irreale e più che con la futurologia che pretende di prevedere l’avvenire, con l’immaginazione profetica e politica. Tale immaginazione “vede”, prima ancora che sia visibile, il bene che potrà essere. Infatti «abbiamo bisogno di vedere uno spazio storico prima di poterlo esplorare»[4] e senza sguardo utopico non sapremmo realizzare il meglio di cui ci scopriamo capaci.
Avere il respiro dell’utopia è avere il senso della meta, saper aspirare alla riuscita della nostra speranza migliore, che è sempre la speranza per tutti, la speranza per la terra, la speranza di salvezza non piegata all’egoismo del mero “salvarsi l’anima”. In un contesto epocale come quello attuale è indispensabile ritrovare lo spirito dell’utopia[5]. il che comporta di tornare ad ascoltare (o di scoprire) il desiderio più profondo che abbiamo nel cuore. Potremo sentire che è un desiderio di liberazione dal male e di comunione, un desiderio di vita sensata e salvata, proteso verso una felicità che è qualcosa di diverso dal privilegio, dalla fortuna o da un momento di gioia fugace. La possibilità di risalire a questo desiderio è concreta perché esso è radicato nella persona che siamo, nella nostra stessa dignità. La dignità umana infatti non è un valore formale, statico, inerte; come ogni vero valore è una forza in cerca del suo compimento, è come una promessa che tende al suo adempimento. In quanto singoli e come comunità siamo invitati a interpretare tale valore, a svolgerlo, a dotarlo di un mondo corrispondente. Chi lo dimentica o lo tradisce si mette in una condizione di dolorosa contraddizione con sé, in un equilibrio solo presunto, che in effetti sarà sempre instabile e falso.
Per questa ragione la dignità possiede una forza rivelativa e trasformativa irriducibile, che mai è stata sradicata dalla storia[6]. Essa torna a riemergere per ispirare movimenti di liberazione che ogni volta tentano di dare attuazione non solo al valore dell’umano, ma anche a una società abitabile, pacifica, solidale e sostenibile, in armonia con la natura. I movimenti per la pace, per la dignità delle donne, per la giustizia sociale, per il superamento del razzismo, del classismo e del sessismo, come quelli per la tutela della natura e per la democrazia sono espressioni della forza storica della dignità. Una forza che non è mai quella del potere, della propaganda o della violenza, poiché invece è la forza di una verità che senza coazione alcuna convince le coscienze a porci al suo servizio.
La coscienza progettuale
D’altra parte, l’utopia tende a prendere la forma di un progetto di vita, di società, di liberazione da quanto ci opprime. Non è affatto detto che il progetto si risolva in mera ideologia, poiché un vero progetto è così arioso da accogliere l’originalità, le speranze, le esperienze di molti senza omologarle e nel contempo è così orientativo da ispirare passi congruenti per la sua realizzazione senza cadere nell’equivocità e nel la dispersione. Un progetto simile motiva singoli e gruppi ad assumere un atteggiamento di servizio, a collaborare, a cercare di essere fecondi.
La progettualità utopica è indispensabile per dare a chi è disposto a migliorare la società (senza dimenticare di farlo con umiltà e con la disponibilità a lasciarsi migliorare) la forza dell’azione critico-euristica: è la capacità di giudicare e contestare ciò che è inaccettabile e di trovare vie nuove per costruire una realtà più adeguata. Qui il progetto esprime la visione che prefigura e anticipa la meta per cui vale la pena di impegnarsi. Quando manca tale visione ci si divide, si diventa settari, ci si chiude nella rassegnazione e nel conformismo. Quando invece la visione è davvero ispirata, autentica, interprete fedele della speranza umana universale, allora oltre alla meta sa individuare i passaggi di transizione, oltre all’orizzonte ti indica la strada che porta verso il traguardo. In ciò l’azione dotata di intensità utopica è sempre responsabile, attenta al presente e alle conseguenze dei comportamenti. Non sacrifica ciò che è a ciò che sarà, non immola il presente sull’altare dell’avvenire, si ricorda dei valori già dati e da tutelare subito, non pensa solo ai valori che verranno, come invece si afferma nell’accusa rivolta da Hans Jonas al pensiero utopico di Ernst Bloch[7].
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L’utopia come modo d’essere
Tuttavia, l’utopia è anche qualcosa di più radicale. Non è solo uno spirito, una sensibilità, un’intelligenza lungimirante, una capacità di immaginare il bene per adesso latente, un progetto. Nel contempo l’utopia è un modo d’essere[8]. Il mondo è un divenire che tra mille contraddizioni e regressioni non smette di essere un viaggio verso la propria trasfigurazione in comunione. E l’essere umano stesso è eminentemente una creatura utopica. Poiché non siamo già compiuti e chiusi nell’identità che abbiamo; siamo una domanda vivente, una tensione verso l’identità più vera, un viaggio di possibile nascita. Siamo futuro in atto: questa è la fragilità e la meraviglia del nostro essere aperto. Così siamo esposti al fallimento e a perdere la strada, siamo vulnerabili e capaci di soffrire, oltre che per i colpi che riceviamo, per le doglie e la fatica di questa gestazione. Mentre gli altri esseri sono ciò che sono – fin da subito o nel giro di poco tempo –, l’essere umano ha un processo di formazione molto lungo e non di rado si trova a mancare completamente la propria realizzazione. Può pervertirsi sino al limite del disumano e può trasfigurarsi sino alla piena umanizzazione.
L’essere umano è una creatura utopica perché non è ancora in pari con se stesso, non è uno ma due: è ciò che è e ciò che potrà essere; il suo vero luogo non è tutto nella sua situazione attuale ma va cercato nel futuro. Quel futuro che, però, è molto più che una quantità di tempo ulteriore, perché in realtà è futuro qualitativo, vita vera, bene concreto. Che cosa può spegnere in noi questa tensione, portandoci a tradire la nostra costituzione utopica? I principali fattori antagonisti sono l’angoscia nevrotica, l’attaccamento a ciò che abbiamo, l’ignoranza e il potere. L’angoscia nevrotica ci deforma lo sguardo e ci chiude il cuore. L’attaccamento a ciò che abbiamo, per quanto legittimo e comprensibile, rischia di bloccarci nella difesa della situazione data inibendo la ricerca di una condizione di vita liberata. L’ignoranza ci spinge nel delirio di comportamenti sbagliati, aggressivi verso ciò che ci resta ignoto. Ci fa male soprattutto l’ignoranza esistenziale, che consiste non tanto nel non aver studiato, bensì nel non aver mai scoperto un modo di vivere più vero.
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Note
- Naturalmente non sto tentando di fare un discorso accettabile da chiunque, cosa impossibile e anche derivante da una pretesa egemonica, come se uno potesse parlare per tutti. Semmai sto proponendo la mia riflessione al dialogo ideale con altre esperienze, sensibilità e prospettive, il che mi impegna a essere chiaro nel delineare la mia concezione. Il punto non sta nel fatto che essa sia parziale, ma nel vedere se questa parzialità è aperta oppure chiusa e refrattaria al confronto.
- Cfr. F. N eumann, Lo stato democratico e lo stato totalitario, il Mulino, Bologna 1984.
- Nella termodinamica e poi in senso più ampio il termine “entropia” designa sia la dispersione irreversibile di energia, sia l’aumento del disordine in un sistema vivente. Qui lo intendo nel senso della dispersione non solo delle energie naturali, ma anche di quelle umane migliori, con un forte degrado antropologico che compromette le capacità della libertà e della responsabilità, del pensiero critico e dei sentimenti, del desiderio e della speranza. Inoltre lo intendo nel senso di un aumento del caos nello pseudo-ordinamento geopolitico delle relazioni tra le nazioni della terra. Su questo tema rimando a quanto ho proposto nel libro Ripensare la sostenibilità. Le conseguenze economiche della democrazia, Franco Angeli, Milano 2015.
- S. B uck -Morss , Hegel, Haiti and Universal History, Pittsburgh University Press, Pittsburgh 2009, p. 150
- Cfr. E. Bloch, Spirito dell’utopia, La Nuova Italia, Firenze 1981
- Cfr. F. Falappa, L’umanità compromessa. Disintegrazione e riscatto della persona nell’epoca del post-liberismo, Franco Angeli, Milano 2014
- H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990.
- Cfr. E. Bloch, Tracce, Garzanti, Milano 2015
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*Roberto Mancini è docente di Filosofia teoretica all’Università di Macerata
Le utopie sono necessarie come l’acqua, il pane ecc
Chi derubrica l’utopia a sogni irrealizzabili, non ha e non vuole avere alcuna visione del futuro. Le utopie dei migranti possono insegnarci molto.