Con l’uscita di scena di Donald Trump, non c’è più nessuno che non si dica ecologista. Del resto le oligarchie tecnocratiche più innovative hanno già individuato una nuova direzione per lo sviluppo, fondata su innovazione tecnologica e geoingegneria. La conversione ecologica come straordinaria opportunità di business. Quelle oligarchie dicono che la popolarità del capitalismo inizia a svanire, specie tra i giovani. Dicono anche a loro serve una garanzia pubblica sui rischi. Insomma, i problemi provocati dal capitalismo sono molti e sempre più evidenti ma, aggiungono, non significa che dobbiamo smettere di alimentare il capitalismo, piuttosto l’opposto. In questo contesto di rifondazione capitalista, secondo Paolo Cacciari, “è molto difficile riuscire a immaginare una impresa che riesca ad agire, per quanto mossa da buone intenzioni, in modo responsabile, sostenibile, eticamente orientata al bene comune… rimanendo ancorata all’interno di un contesto sociale e normativo performato dalla competizione, dalla proprietà esclusiva, dal ricorso all’indebitamento con pagamento degli interessi…”
“Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria (…). Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo come carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo“
(Friedrich Engels, Dialettica della natura, Editori Riuniti, Roma, 1967)
Una nuova mutazione salverà il capitalismo, il benessere e il progresso come è accaduto nella storia di precedenti “grandi trasformazioni” delle società di mercato? Già Marx annotava che “il capitalismo è una storia incessante di modificazioni”. La sfida permanente che si trova a dover affrontare il sistema sociale che chiamiamo capitalista è riuscire a cambiare pelle ciclicamente per consentire ai suoi meccanismi interni di creare e riprodurre sempre nuovo valore monetizzabile. Cioè, continuare a crescere senza collassare. Per riuscirci ora – raggiunto il limite della crisi ecologica planetaria – deve risolvere una difficile equazione che gli economisti chiamano decoupling: lo sganciamento della curva della crescita del Pil da quella del “consumo di natura”, dell’aumento, cioè, dei prelievi delle materie prime e delle immissioni nella biosfera di scarti non metabolizzabili.
Il climate change, il surriscaldamento del globo, il buco dell’ozono, la acidificazione e la plastificazione degli oceani, la perdita della biodiversità, la desertificazione dei suoli e molto altro ancora fino alle pandemie da zoonosi (malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo, con “salto di specie”), sono il portato di una contraddizione originaria del sistema sociale capitalistico che ha la necessità di incrementare perennemente produzioni e consumi, pena l’implosione su sé stesso, la stagnazione e la depressione economica. Per contro e allo stesso tempo il sistema economico capitalista non può superare la soglia della disfunzionalità e della diseconomicità. Ovvero non deve “segare il ramo” che sorregge l’intero impalcato sociale, non può distruggere le risorse primarie a cui attinge, gli ecosystem service che la natura mette gentilmente a nostra disposizione: aria respirabile, acqua potabile, suolo fertile, foreste e oceani capaci di garantire il ciclo del carbonio-ossigeno e la fotosintesi clorofilliana, insetti impollinatori, processi microbiologici di movimentazione della materia (decomposizione e mineralizzazione), habitat incontaminati e quant’altro permette la rigenerazione della vita sulla Terra. Per riuscire a fronteggiare la crisi ecologica e la “stagnazione epocale” dovuta a rendimenti decrescenti dei capitali investiti le oligarchie tecnocratiche più innovative e reattive hanno elaborato un nuovo paradigma di sviluppo fondato su innovazione tecnologica e geoingegneria. Per dirla con le parole del Recovery and Resilience Facility (Rrf): “digitalizzazione e transizione ecologica”. Il Rrf è il cuore pulsante dei 750 miliardi di euro messi a disposizione dalla strategia Next Generation dell’Unione europea, che a sua volta è il piano attuativo del programma politico del European Green Deal.
Governi, banche e grandi compagnie vogliano fare sul serio. L’aleatorio sintagma “sviluppo sostenibile” (inventato quasi mezzo secolo fa a Stoccolma nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, 1972) verrà finalmente “messo a terra”, rendendo disponibili tutte le risorse scientifiche, tecniche, economiche e normative di cui il Green Deal avrà bisogno. Se ci si debba sentire più contenti o più minacciati da tanta euforia, dipenderà dal contenuto degli interventi che verranno realizzati. Portato via a forza dal proscenio l’ultimo negazionista dei cambiamenti climatici, il sociopatico Tramp, non c’è più nessuno che non si dica ecologista. Una insistente e ben alimentata narrazione mainstream sta inondando la comunicazione pubblica. Le foto a fianco di Greta Tumberg testimoniano una rinnovata “sensibilità etica” dei governanti, a partire dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Senza ritegno persino una multinazionale come l’Eni, dopo aver devastato campi petroliferi in mezzo mondo, ci spiega a-tutta-pagina dei quotidiani a pagamento che: “Le foreste rivendicano la terra”. Banche e fondi pensionistici “decarbonizzano” i propri portafogli. I gestori dei fondi di investimento (a partire dal colosso BlackRock) sono alla ricerca di imprese patentate ESG (con rating positivi di impatto su Environment, Social, Governace) verso cui far convergere flussi di denaro rastrellati nei mercati finanziari attraverso l’emissione di green e transition bond (privati e sovrani), sustainability linked loan, mutui per l’efficienza energetica; impact investing; benchmark climatici e ancora altre tipologie di prodotti finanziari. Siamo entrati nell’era del “capitalismo ecologico”. L’ambientalismo è entrato nei consigli di amministrazione delle multinazionali. La riconversione energetica, assicurano, è un buon affare. Gli alti rendimenti sembrano dare ragione agli investitori più green e “pazienti” (disposti ad accettare rendimenti a medio-lungo periodo). Turn the switch, girare l’interruttore dai fossili alle rinnovabili, in definitiva, dipende solo dal confronto dei Roi: dal ritorno sul capitale investito. E più grandi saranno i volumi finanziari che affluiranno nella green economy, più alte saranno le aspettative di guadagno degli investitori. Ma per riuscirci serve una forte spinta iniziale (“infrastrutture nel segno della sostenibilità”, dicono) e una garanzia pubblica sui rischi. Il mercato – lo riconoscono finalmente – non riesce a fare tutto da solo. Ecco allora i maxi piani Green Deal di partenariato tra imprese, investitori e decisori politici a supporto della grande transizione ecologica dell’economia. A scriverlo in Italia sarà una tark force di sei manager “indipendenti” (da chi? dalle istituzioni pubbliche?). Non è bastata evidentemente la pessima performance della commissione creata per la Fase due post-covid del supermaneger Vodafone Vittorio Colao.
Reiventare il capitalismo
Il World Business Council for Sustainable Development, un’organizzazione di manager e chief executive officer (amministratori delegati) di più di duecento aziende che sommano un fatturato di oltre otto trilioni di dollari e diciannove milioni di dipendenti, ha recentemente pubblicato una agenda di azioni per “Reinventare il capitalismo” (Reinventing Capitalism: a transformation agenda Vision 2050 issue brief, November 2020). “Persino i capitalisti – ci assicurano – stanno iniziando a sostenere che il capitalismo, nella sua forma attuale sta generando risultati insostenibili – socialmente, ambientalmente ed economicamente”. E ancora: “Il sistema attuale sta generando livelli insostenibilmente elevati di disuguaglianza e viola i planetary boundaries. Sia la scienza che la storia suggeriscono che se il nostro percorso attuale proseguirà ci porterà alla catastrofe: tensione ecologica e stratificazione economica hanno dimostrato di svolgere un ruolo centrale in ogni crollo delle civiltà passate”. Ma tutto ciò, sia ben chiaro: “non significa che noi dovremo abbandonare il capitalismo – piuttosto l’opposto“. Infatti: “Il capitalismo è sia la più grande fonte di prosperità e progresso nella storia umana, sia la più grande minaccia per esso. Superare questo ‘paradosso’ è il cuore della idea della ‘reinvenzione’”. Niente di meno che una nuova “versione del capitalismo” capace di “affrontare i fallimenti a livello di mercato e istituzionale” e “cambiare le regole del gioco”. Il Wbcsd afferma quindi che “il capitalismo di cui abbiamo bisogno è un capitalismo che premia la creazione di valore reale, non l’estrazione del valore come fa il modello di oggi”. Un progetto che richiede “un’azione complementare da parte delle imprese, degli investitori e dei responsabili politici. Un’azione volontaria da parte del settore privato che deve andare di pari passo con modifiche alla legislazione e alla regolamentazione”. Insomma un vero nuovo patto sociale nel segno del green.
Considerando che gli estensori del documento, per lo più, continuano ad essere pagati in azioni delle società per cui lavorano, c’è da chiedersi dove sta il trucco. Il dubbio è che la loro intenzione non sia tanto salvare la vita sul pianeta, quanto garantire la capacità del sistema economico di continuare a generare, accumulare e riprodurre valore monetario. Temono infatti che le crisi ecologiche – come le nuove “sindemie”, combinazioni sequenziali di pandemie e malattie degenerative endemiche, come quelle causate da stili di vita, alimentazioni e condizioni ambientali insalubri – possano rendere vulnerabili anche le aziende più forti sul mercato. Comunque, si tratta di contrastare la tendenza secondo cui: “la popolarità del capitalismo è iniziata svanire”, specie tra le giovani generazioni. La speranza di una ripresa dei cicli economici espansivi viene dai “mercati dei capitali (che) apprezzano e premiano adeguatamente pratiche commerciali inclusive e sostenibili e, di conseguenza, viene mobilitato più capitale per conseguire gli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile e la transizione verso un mondo di 1,5 °C.”, secondo quanto richiesto dall’Accordo di Parigi sul clima. Come dicono Ferruccio de Bortoli ed Enrico Giovannini su Economia & Politica del Corriere della sera: “Il mondo produttivo è alle soglie di un paradigma storico e chi tardi arriverà peggio alloggerà, come dice il proverbio. Lo spartiacque tra vincitori e perdenti, sul versante del benessere, del reddito e del lavoro, dei prossimi anni passa per la riconversione ecologica, opportunità straordinaria di business per le imprese innovative.” (Il futuro è green, Corriere della sera, lunedì 30 novembre 2020). È così che il principio ecologico della comune appartenenza di ogni essere vivente al mondo e della interdipendenza di ogni cosa, che richiederebbe cooperazione e solidarietà, viene rovesciato nell’esatto suo opposto: competizione, rivalità, appropriazione esclusiva dei beni (materie prime) e dei saperi (brevetti), gerarchie sociali e di potere. L’impresa capitalista riprendendo nelle sue mani (aiutata dalla “finanza sostenibile”) ciò che ha distrutto – l’ambiente naturale – si risolleverebbe dal discredito e riconquisterebbe reputazione, fiducia e autorità. Questo – in sintesi – è il progetto del “capitalismo ecologico”.
Hanno scritto un gruppo di associazioni che hanno partecipato alla tre giorni di novembre ad Assisi dell’Economy of Francesco: “A nome di una visione discutibile dell’economia abbiamo santificato il principio della concorrenza, mettendo in competizione individui, imprese e Paesi in tutti i campi proprio mentre le trasformazioni profonde che subiva il mondo richiedevano di andare nella direzione opposta. L’economia dominante è costruita su un modello bellico a tutti i livelli. Per questo va cambiata!” (Ma io cosa posso fare? Documento redatto da Jean Fabre, membro della Task Force dell’Onu per l’Economia Sociale e Solidale).
Verde pallido
Ma quanto è davvero verde il sistema economico immaginato e promosso dal Green Deal? Una indicazione ci viene dalle conclusioni che si stanno prospettando del lungo lavoro in sede Ue sulla individuazione e classificazione delle attività economiche eco-compatibili, chiamata in gergo dai tecnocrati di Bruxelles “tassonomia verde” (Regolamento UE 2020/852 del giugno scorso). I “criteri tecnici” che la Commissione europea sta elaborando in attuazione del Regolamento e che entreranno in vigore dal 2021, saranno molto elastici.. L’economia si tingerà di un verde assai pallido. Ad esempio, basterà mischiare il metano con l’idrogeno per produrre energia pulita. Poco male anche se l’elettrolisi dell’acqua per produrre l’idrogeno avverrà utilizzando l’energia nucleare (leggi il sito ben informato: www.rinnovabili.it/green-economy/finanza-sostenibile/tassonomia-verde-ue-idrogeno-viola). Qualsiasi combustibile fossile, qualora le emissioni dovessero essere “catturate”, compresse e pompate nel sottosuolo nei giacimenti esauriti di gas naturale, potrà essere considerato positivamente come “energia di transizione” ai fini del raggiungimento della “neutralità” del carbonio entro il 2050. Detto-fatto, l’Eni ha già annunciato un mega progetto di utilizzazione dei giacimenti offshore nel ravennate (vedi Il Fatto, Gasdotti e soldi, 12 ottobre 2020) e c’è da essere certi che chiederà il finanziamento nel piano nazionale del cosiddetto Recovery Fund.
La “tassonomia” europea è molto importante perché orienterà non solo gli investimenti pubblici dei piani nazionali del Recovery and Resilience Facility, ma anche quelli privati.
Nei giorni scorsi si è svolta una interessate settimana di incontri del Forum per la finanza sostenibile (www.settimanasri.it). È emerso che gli investitori istituzionali (a partire dai fondi di pensione), le fondazioni bancarie (Acri) e, in generale, i gestori di fondi del risparmio sono alla ricerca di attività imprenditoriali che possano rientrare nei parametri premianti della sostenibilità ambientale, sociale, gestionale, ovvero nell’“etica Esg” (Environmental, Social, Governace), come la chiama Ugo Biggeri di Banca Etica. I problemi sorgono per il fatto che non esistono metodologie standardizzate universalmente riconosciute e a prova di greenwashing per compilare le “dichiarazioni non finanziarie” e le rendicontazioni sugli impatti ambientali e sociali delle imprese. Per oro esiste la Direttiva della Ue del 1995 che si applica obbligatoriamente solo ad enti di rilevante interesse pubblico e con almeno cinquecento dipendenti. I modelli che sono stati elaborati da esperti di vari istituti specializzati sono inevitabilmente molto complessi e sono complicatissimi da compilare poiché i parametri di cui tener conto e le interrelazioni causali di ogni attività economica possono essere moltissimi. Basti pensare alle problematicità che incorre la applicazione della procedura di Valutazione di impatto ambientale, pur essendo normata da leggi. Ogni tentativo di codificare, modellizzare e calcolare la responsabilità sociale delle imprese estesa a campi – appunto – etici si scontra con il Codice civile che limita il loro scopo ai risultati economici e, soprattutto, con la logica intrinseca e stringente del mercato, specie quello finanziario. Wolfgang Streek ci ricorda che l’essenza del “capitalismo sta nell’investire capitale per creare più capitale per più investimenti”.
In conclusione è molto difficile riuscire a immaginare una impresa che riesca ad agire, per quanto mossa da buone intenzioni, in modo responsabile, sostenibile, eticamente orientata al bene comune (quantomeno al bene di tutti i suoi stakeholders) rimanendo ancorata all’interno di un contesto sociale e normativo performato dalla competizione, dalla proprietà esclusiva, dal ricorso all’indebitamento con pagamento degli interessi.
Edgar Morin (L’anno dell’era ecologica, 2007) ha scritto:
“Potrà svilupparsi un capitalismo ecologico che fabbrichi e venda in non-inquinante, il sano, il rigenerante (…) tuttavia il problema ecologico ci obbliga a prendere in considerazione la struttura della vita e della società umana (…) Abbiamo bisogno di una bio-antropologia, di un’ecologia generalizzata”.
Bergoglio nella Laudato si’ l’ha chiamata “ecologia integrale”.
Pietro dice
Difficile rispondere a questa “valanga” di considerazioni sparse proposta da Cacciari, ma ci provo.
1) come già scritto in precedenza la Commissione UE ha avviato nel 2018 un ambizioso progetto di riforma per sviluppare una “finanza sostenibile che utilizzi sempre minor energia fossile e che si sempre più rivolta a sistemi produttivi di tipo circolare”. E’ un male? Io non credo proprio visto che è l’unica possibilità che abbiamo di sopravvivere. Superata la soglia di 450parti di cO2 in atmosfera (e stiamo a 400 già) per
Pietro dice
Ancora una volta provo a rispondere al diluvio di “considerazioni sparse” proposte da Cacciari.
1) Che la finanza cerchi di operare in una direzione “sostenibile” (ossia riducendo sempre più l’utilizzazione di energia fossile nei processi produttivi che dovranno sempre più essere orientati a una economia circolare e mai più lineare) è cosa buona e giusta! E già questo mi parrebbe in grado di mettere in grave contraddizione (se non crisi aperta) il modello capitalista sin qui conosciuto. Difficile sintetizzare, ma questo implica una TOTALE trasformazione dei beni e servizi dalla loro progettazione alla loro realizzazione, trasporto, distribuzione, riciclo per la 2°,3°,4° vita ecc..Da proprietari di beni diverremo sempre più “fruitori di servizi” con un impatto immensamente meno rilevante per tutti, in primis per l’Ecosistema.
2) I sistemi produttivi, oltre che alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, dovranno ispirarsi e tener conto dell’”impatto generato e subito dalle attività dell’impresa tenendo conto dei fattori ESG” (cfr.per tutti art.4, comma 2, regolamento 38/2018 IVASS). Questo significa che questi fattori (ambientali, sociali e di governo societario) devono essere tenuti ben presenti nella definizione delle strategie dell’impresa oltreché nel modello di business che si intende perseguire. Devono essere tenuti in considerazione perchè sono potenzialmente in grado di produrre rischi e mettere in crisi l’attività (rischi fisici, tecnologici, reputazionali, legali, tecnologici, transazionali, ecc..). Il fatto che nei CdA “entrino gli ambientalisti” oltre a essere, quindi, MOLTO auspicabile è del tutto riduttivo perchè, come detto, bisognerà tener conto anche dell’impatto sociale dell’attività utilizzando un adeguato sistema organizzativo.
3) Come giàscritto in altro mio intervento, la Commissione UE ha posto in pubblica consultazione, fino all’8 febbaraio 2021, un documento molto rilevante sulla Sustainable corporate governance che, oltre a proporre innovazioni molto rilevanti per ridurre il c.d. Shortermismo (ossia la propensione a ottimizzare risultati nel breve termine, favorendo, al contrario, investimenti e attività che possano generare valore condiviso nel medio-lungo termine) interviene anche sui sistemi di remunerazione (agganciandoli a performance ESG) e sulla possibilità degli stakeholder (portatori di interesse) di agire contro gli amministratori della società quando questi non tengano in debita considerazione i fattori ESG.
4) Gli azionisti di cui si parla, in molti casi siamo NOI. Il Fondo pensione ad esempio, non è una Entità astratta/esterna. Ha un CdA formato pariteticamente da rappresentanti del datore di lavoro e sindacati eletti dagli stessi lavoratori aderenti. Il Fondo è+ portatore dei valori e scelte determinate dagli iscritti. Ma la stessa considerazione può valere per gli azionisti di una società. Oggi per detenere il controllo bastano percentuali dei diritti di voto molto inferiori al 50% delle azioni circolanti. Questo perchè gli azionisti (di minoranza) non esercitano pressione (engagement) sui manager per diverse ragioni (difficolta tecniche, disinteresse, complessità, eccc.). Su questo nessun dubbio: si deve lavorare per rendere più efficace il bilanciamento di interessi, nel nostro stesso interesse…
5) Il Codice civile (art. 2086 come modificato dal dlgs. 12.1.2019, n.14) specifica tutti questi aspetti e se non si è presa in considerazione questa prospettiva (ESG) è solo perchè sinora non se ne è avuta più di tanto consapevolezza e gli avvocati non se ne sono resi conto. E’ un discorso complesso da fare in poche righe ma i contenuti sono proprio questi.
Chiudo qui. D’accordo sulle considerazioni che riguardano il modus operandi del Governo, nulla da dire alle critiche espresse sulle scelte che si intendono fare….Oggi su Avvenire c’ è un articolo di G. Melandri in merito alle encliche del Papa. io non credo che questo approccio debba essere ispirato necessariamente solo da un pensiero religioso, ma possa invece essere considerato come un agire laico nell’ottica di perseguire un interesse collettivo e comune.
Sarò sicuramente un illuso ma a me pare che le trasformazioni in essere sono davvero rilevanti per un futuro più consapevole
Pietro dice
per chi volesse approfondire:
https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2020-0240_EN.html
Edoardo Nannetti dice
Ho letto l’articolo di Paolo Cacciari e la risposta di Pietro, entrambi molto articolati e pertinenti. Mi pare di aver capito alcuni punti cruciali che provo a elencare. Caratteristica tipica del capitalismo è la necessità di realizzare in tempi brevi o medi i profitti sul capitale investito, se non altro perchè risponde ad investitori che ragionano su un rendimento almeno in un arco di tempo che lo renda fruibile più volte nell’arco della vita. Poichè una seria politica economica di stampo realmente ambientalista richiede investimenti con rendimento a lungo termine ed anche sena rendimento d’impresa ma ‘solo’ a vantaggio diffuso della collettività, si rende necessario un intervento dello stato che, nella prospettiva europea indicata da Pietro mi pare serva a garantire rendimento nel medio periodo a prescindere da quello effettivo che avverà nel lungo. Già questo fatto entra in conflitto con l’impostazione liberista dominante che esclude una sovranità statuale democratica che condizioni gli indirizzi dell’impresa ed il mercato. Lo stato, così come è oggi succube dei mercati, si orienterà piuttosto a declinae il carattere ‘verde’ di un investimento nel senso edulcorato descritto da Cacciari, cioè che salvaguari un rendimento a breve e che non faccia venir meno la base del consumo dei beni ambientali presochè gratuito. Anche la dinamica finanziaria mi pare vada in questa direzione in relazione alla crisi monetaria, alla necessità di sostenere un potere d’acquisto che il sistema non può garantire senza la rapina ambientale pena l’imposibilità alla lunga di vendere prodotti garantendo profitto. Le azioni collettive da parte dei portatori di interessi e degli azionisti non mi sembra garantiscano un granche: dipendono sempre dall’ambito e dalle condizioni che saranno concessi (se i criteri per considerare un investimento rrf sono quelli descritti da Cacciari l’azione collettiva è già spuntata), per non dire del fatto che l’efficacia di simili azioni dipende dalle condizioni politiche e dall’esistenza di forze organizzate, laddove i processi di atoomizzazione le hanno da tempo disintegrate; per non dire del fatto che la globalizzazione allontana il luogo della produzione o del potere di decidere la produzione, da quello degli effetti negativi e così allontana ancora di più la reazione collettiva e organizzata. Una simile reazione richiederebbe di connettere le lotte ambientali con lotte sociali e relativi soggetti politici: ecco allora che entra l’altro tema, quello del’ecologia integrale, che rguarda insieme l’ambiente ed i rapporti sociali, l’antagonismo di classe ed i rapporti di potere in genere. Tutto questo mi sembra andare nella direzione del giudizio conclusivo di Paolo Cacciari: andare a vedere nel concreto le politiche del capitalismo verde pallido, smascherarne l’inganno, lavorare per l’ecologia integrale che implica la rottura di rapporti di potere a livello nazionale quanto planetario, ricostruire una vera sovranità democratica quindi anche soggetti politici che al suo interno diano efficacia a queste istanze in un progetto che mostri ed agisca i nessi.
paolo cacciari dice
Gentile signor Pietro, caro Edoardo,
davvero grazie per la attenzione che dedicate ai miei articoli. Ciò che vorrei dimostrare (vedi anche: Ombre Verdi. L’imbroglio del capitalismo green, Altreconomia, 2020) è la fallacia – per dirla con Polanyi – di ogni tentativo di mitigare la pressione (impatti con effetti negativi) sulla natura e sulla comunità umana del sistema economico rimanendo all’interno di rapporti sociali di produzione, consumo e riproduzione di stampo capitalista. Ciò perché la logica interna costitutiva essenziale di tutte le forme di capitalismo fin qui conosciute (non solo quelle neoliberali) è l’estrattivismo predatorio, l’appropriazione e la capitalizzazione di tutti i “fattori produttivi”: terra (intesa come materie prime, animali, piante…), lavoro, saperi, istituzioni comunitarie e mezzi di scambio (moneta), ma anche strumenti mutualistici del welfare (fondi pensioni, assicurazioni, sanità, istruzione…). Con ciò non voglio dire che non si vivrebbe meglio con meno petrolio e più solare, con meno plastica e più “bioeconomia”, con meno consumi usa e getta e più condivisione circolare, con meno aerei e più biciclette… ma che una conversione ecologica strutturale e giusta (integrale, per tutte e tutti) la si potrà raggiungere solo uscendo dai meccanismi (non solo economici) che conducono alla ricerca della massima produttività, del profitto, dell’accumulazione e dei prestiti a debito con gli interessi.
La finanza responsabile e sostenibile (SRI, investimenti socialmente responsabili, nuova branca della finanza dei fondi gestiti) tenta di far affluire capitali (raccolti da investitori istituzionali o da risparmiatori privati) alle imprese che si impongono determinati criteri più stringenti delle normative di legge vigenti in materia di impatti ambientali e sociali (inquinamenti, diritti dei lavoratori, ecc.). La mia tesi è che si tratta di una illusione se non di un vero inganno (così come lo sono state le varie politiche attuate in nome dello “sviluppo sostenibile” e della “responsabilità sociale dell’impresa”, più o meno allargata, negli ultimi 50 anni). Non solo i criteri RSI e ESG non metteranno in crisi “il modello capitalista”, ma lo stimoleranno ad espandersi sfruttando nuove opportunità: lo spazio e le onde elettromagnetiche con i satelliti 5G; i corpi viventi con i brevetti sui genomi, sui vaccini e sui farmaci; i deserti con gli impianti a concentrazione solare; i mari con la dissallazione delle acque; le grandi dighe sui fiumi per l’idroelettrico e così via privatizzando e capitalizzando le risorse comuni naturali (chiamate “capitale naturale”) e cognitive (chiamate capitale sociale). Insisto: un buon banco di prova per verificare se mi sbaglio saranno le scelte che i vari governi faranno sull’impiego dei fondi europei del Recovery and Resilience Plan. Ci scommetto una pizza che il governo italiano promuoverà il pericolosissimo impianto progettato da Eni di stoccaggio della velenosa CO2 nel sottosuolo di Ravenna. Una volta si sotterravano i rifiuti nelle cave di ghiaia esaurite, oggi lo si fa lo stesso con il gas di scarico delle centrali.
Temo che molte delle campagne in corso sullo “sviluppo sostenibile” siano fumo negli occhi. L’“economia circolare” – secondo gli studi esistenti in Europa – non riutilizza che un modesto 7% dei materiali impiegati. Per di più non tiene conto che una grossa parte delle merci che qui si “consumano” sono in realtà prodotte in paesi terzi (neocolonialismo del carbonio, land and water grabbing, smaltimento dei rifiuti, ecc.). Per quanto ci si possa sforzare nel progettare oggetti, macchine, edifici smontabili, riparabili, riusabili (per allungare il loro ciclo di vita utile e dilazionare la loro re-immissione nelle matrici ambientali) prima o poi i materiali si deteriorano (entropia). Così come le patenti ESG attribuite ad alcune imprese si basano su cervellotiche e complicatissime “tassonomie”, su criteri parziali e arbitrari, nient’affatto trasparenti e controllati da nessuno. Peggio, i promotori di asset finanziari green mischiano i titoli certificati ESG (“diversificazione del rischio” lo chiamano) all’interno di prodotti finanziari che contengono titoli di qualsiasi azienda, così da renderli più presentabili.
Non sono sicuro che una seria azione di conversione ecologica e rientro nei “confini planetari” richieda investimenti a lungo termine. Probabilmente gli interventi più efficaci contro il surriscaldamento del globo e la difesa della biodiversità sono “niente investimenti”, ovvero quelli che lasciano riposare e rigenerare gli ecosistemi. In questo caso non si tratta di investimenti “fissi” di capitali, ma semmai di “ristori” e compensazioni in attesa che altre forme di lavoro vivo remunerato possano svilupparsi.
In definitiva vorrei sostenere che la sostenibilità ambientale e sociale è inconciliabile con la natura economica, giuridica, proprietaria delle imprese di capitale, il cui valore non dipende dal bene comune sociale, ma dalle quotazioni di Borsa. (Perché mai un azionista non dovrebbe interessarsi alle quotazioni dei suoi titoli? Se un investitore fosse mosso da condotte etiche e al bene comune investirebbe in imprese non profit).
Combinare profitti e sostenibilità (Profit, People, Planet) è più difficile di far passare un cammello nella cruna dell’ago.
La strategia dell’Ue fin qui messa in campo parte da ottimi propositi. Leggo dalla proposta di risoluzione del Parlamento europeo (segnalata dal lettore Piero) per una revisione con rafforzamento degli obblighi delle imprese quotate a redigere i report annuali delle “dichiarazioni non finanziarie” (NFRD): “Le imprese devono prendere in dovuta considerazione le preoccupazioni sociali e ambientali generali, quali i diritti dei lavoratori e il rispetto dei planetaary boundaries”. E ancora: “Le aziende non sono entità astratte distaccate dalle sfide ambientali e sociali odierne. Le aziende dovrebbero dare un contributo più attivo alla sostenibilità poiché le loro prestazioni a lungo termine, la resilienza e persino la loro sopravvivenza possono dipendere dall’adeguatezza delle loro risposta alle questioni ambientali e sociali”. Va inoltre considerato che “la crescente concorrenza globale per l’accesso alle risorse naturali si traduce spesso in uno sfruttamento insostenibile dell’ambiente naturale e umano da parte delle imprese”. Non si potrebbe dire meglio.
Peccato che la pratica traduzione di questi principi sacrosanti sia affidata al buon cuore delle stesse imprese che sono chiamate solo a divulgare informazioni (peraltro non vincolate dal “requisito della garanzia del contenuto”) sugli impatti delle proprie attività. Saranno gli investitori, gli azionisti, i lavoratori e gli altri stakeholder a confrontare i rapporti e a valutare dove mettere i propri soldi, dove andare a lavorare e vivere. Un’idea, a me pare, molto illuminista di un mondo che conta su un sistema di soft law e sulla due dilingence fiduciaria dei conduttori delle imprese. Ma in questo mondo dominato dagli interessi economici, non può funzionare. A dirlo è lo stesso Parlamento europeo: gli strumenti posti in essere al fine di ottenere una condotta aziendale e commerciale più responsabile e sostenibile “si sono rilevati inefficaci” (punto C delle considerazioni). Ci sarebbe bisogno di una “standardizzazione giuridica”, di “obblighi e incentivi concreti ad agire e non solo a comunicare informazioni”, di una nuova legislazione sulla due diligence e sugli obblighi degli amministratori, “attraverso l’introduzione di obblighi concreti, proporzionati e applicabili e obiettivi quantificabili, sulla base di una valutazione d’impatto”. Insomma, aggiunge nel suo parere la Commissione ambiente e salute del Parlamento, ci sarebbe bisogno dell’“adozione di un quadro legislativo che imponga alle imprese di stabilire, attuare, valutare e aggiornare una strategia di sostenibilità aziendale”. Nel frattempo ci dovremo accontentare di iniziative volontarie delle imprese sulla scorta di autodichiarazioni che assomigliano più a pubblicità ingannevoli che non a leali collaborazioni sulla via della sostenibilità e della giustizia sociale. Non credo infatti che la Ue sia pronta a convertirsi in un superstato capace di pianificare e guidare la finanza e l’economia industriale.
Come transitare ad un sistema socioeconomico post-capitalista è – per me – questione aperta ancorché urgente che si pone di fronte alla crisi catastrofica ambientale e sociale che la pandemia ha reso drammaticamente evidente. Come possono agire le persone colpite e sofferenti? Quali movimenti sociali possono emergere (a partire da quelli non organizzati in corporazioni)? Quale ruolo potrebbero svolgere le istituzioni comunitarie concrete ad ogni livello: locale, nazionale, continentale, planetario (a partire da quelle non statalizzate)? Confrontiamo le idee in campo.
Paolo Cacciari
Edoardo Nannetti dice
Caro Paolo, sono sostanzialmente d’accordo con la tua valutazione di incompatibilità intrinseca tra capitalismo ed ecologia integrale e devo dire che stai facendo un lavoro prezioso andando a vedere le carte della presunta nuova linea verde del capitale. La vocazione del capitalismo è quella di estrarre volore profitto da qualsiasi cosa e gli esempi che fai, anche per il futuro, sono inquietanti quanto fondati. Un solo punto del tuo discorso non mi ha convinto, dove dici che non occorrono investimenti a lungo termine ma dei non investimenti, ma forse è solo questione di spiegarsi. Io penso che anche solo per i ‘non investimenti’ occorrano degli investimenti: il territorio, la natura è stato così violato che necessita di cure che sono investimenti e richiedono tempi lunghi; in generale poi non esiste territorio allo stato brado che non rischi se non c’è cura. Se però la tua affermazione significa che bisogna evitare il rischi che anche investimenti a lungo termine siano predatori ed estraggano valore, cioè il capital riesca almeno in parte a rinunciare a profitti a breve ma ne programmi a lungo termine perchè investimento chiede remunerazione, allora ti seguo infatti ho parlato anche di investimenti senza alcun profitto che non sia un bene comune diffuso inutile al capitale. Importantissima la questione che poni alla fine: quali lotte quali soggetti sociali ecc per superare il capitalismo. Inviti ad aprire una discussione su questo: è necessaria e, se trovi il modo di introdurla, sarà utile svilupparla. Un caro saluto.
PIERA dice
Il diluvio di considerazioni pertinenti, esplicitate in questi articoli e/o commenti va, sintetizzato e razionalizzato a seconda dello scopo primo per cui sono esposti; ne consegue che, la loro lunghezza e descrizione sarebbe facilitata e compresa ad ogni livello di cultura e di … tempo disponibile .
Il lettore, scarsamente partecipe sarebbe piacevolmente e consapevolmente coinvolto in effettivo in ogni similare discussione che, lo investisse anche diagonalmente nel campo specifico trattato !
Edoardo Nannetti dice
Capisco il punto non irrilevante che poni. Credo che quello che invochi è una figura che definirei ‘traduttore’ o ‘comunicatore’, figura indispensabile che servirebbe da ponte. E’ una figura molto rara purtroppo, per cui non si riesce facilmente a ridurre la distanza tra elaborazioni teoriche e senso comune. Che fare? la risposta rientra nel tema posto da Paolo Cacciari alla fine del suo ultimo commento qui sopra….e non è risposta facile. Ma forse tu intendevi che anche in questa sede si possa fare qualcosa e da qualche parte si deve pur cominciare.
Edoardo Nannetti dice
torno ad intervenire in relazione all’invito dell’amico Paolo Cacciari, nella sua risposta al mio ed altri commenti, ad aprire la discusione sul che fare per transitare ad un sistema post-capitalista, quali movimenti, quale politica, quali istituzioni. Segnalo un intervento di Carlo Formenti tratto dal suo ultimo libro “Il capitale vede rosso”, che credo affronti il tema proposto da Paolo. unisco quindi il link
https://sinistrainrete.info/politica/19279-carlo-formenti-la-crisi-del-populismo-di-sinistra-e-il-socialismo-possibile.html
Pietro Negri dice
PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA
Leggere le pagg.54 e ss….
Forse se riuscissimo a realizzare quello che che c’è scritto non sarebbe poi così male….74 mld di euro per l’ecosistema….che Eni vada rottamata nessun dubbio…..ma c’è molto molto di più….ah un cosa…quel che dice il Parlamento europeo si sta realizzando per legge…
paolo cacciari dice
Gentile Pietro Negri, non ho capito di quale documento devo leggere le pagine 54 e seguenti. Se vorrà indicarmelo lo leggerò sicuramente.
Grazie Paolo Cacciari
Davide dice
Articolo Stupendo!!
P.S. forse e’ sfuggito al redattore ma ci sono un paio di errori ortografici.
-Tramp si scrive Trump
-Tark Force (1a citazione di 2 ) immagino intedeva Task Froce.
-popolarità del capitalismo è iniziata svanire (manca una a)
Cmq tanto di cappello per l’articolo, e’ un po’ che non ne leggevo di questo livello. Saluti.
Ettore Crocella (Comitato senza confini di Brescia dice
Bene,apriamola questa discussione! A Brescia, come Comitato Senza Confini da tempo abbiamo pensato ad un seminario, in presenza che affronti i temi sollevati da Paolo Cacciari. E’ fondamentale il confronto, la discussione e l’elaborazione , ma soprattutto il lavoro concreto per ampliare mondi che già esistono.
Il sistema capitalistico continua imperterrito la sua marcia adattandosi e sfruttando anche le nostre idee e lotte che non siano dirette ad una modifica radicale dello stato di cose presente. Movimenti e mobilitazioni anche molto forti raggiungono al massimo risultati parziali e corrono il rischio di finire nel sangue.Proposte per “migliorare ” il sistema e le conseguenti contestazioni non risultano alla fine “produttivi” perchè si sviluppano all’interno di parametri stabiliti dal sistema stesso. Ci si ferma ai” sintomi”, incapaci di mettere in discussione nel concreto “il terreno”, cioè l’ordine sociale esistente anche se tinto di verde . Il cibo di prossimità oltre che non processato e prodotto a salvaguardia nostra e della natura, la salute ( basata sulla precauzione, prevenzione e libera scelta, l’economia basata sulla partecipazione e sull’uso qualitativo razionale ed etico dei beni, piuttosto che sullo scambio quantitativo di essi)…. …quante esperienze esistono e come espanderle e riprenderle in ogni villaggio, comune o quartiere? Mi pare che tutte le proposte per quanto serie che si vanno facendo anche come società della cura corrano il rischio di fermarsi alla propaganda se non potranno essere maturate in una concreta esperienza alternativa che si possa presto trasformare attraverso forme confederative democratiche in un virus letale per il sistema. Ritengo indispensabile che si creino circuiti di economia alternativa che deve essere studiata come parallela e antitetica al capitale….si dovrebbero studiare dei meccanismi che permettano di conferire e far circolare le proprietà ed il denaro solamente all’interno di circuiti virtuosi ..etc. Apriamo questa discussione sul da farsi da subito