Senza nulla togliere al più che giusto commento di Paolo Cacciari (che il mercato tenda a inglobare al suo interno ogni sfera di bisogni o aspettative per trarne profitto è un fenomeno noto) mi permetto qui di avanzare una diversa interpretazione delle ragioni che hanno portato la “Tavola Rotonda degli Affari” a pubblicare lo scorso 19 agosto la “Dichiarazione sullo scopo di un’impresa”.
L’ipotesi è che il mondo del business e delle grandi corporation americane stia reagendo al duplice attacco del sovranismo alla Trump e della tigre cinese.
Il primo è il frutto delle esternalità negative prodotte dal mantra del profitto per gli azionisti prima di tutto e ad ogni costo: anzitutto la crisi, con il generale arretramento dei redditi da lavoro e dei diritti connessi e la progressiva precarizzazione del lavoro stesso; poi il disastro ambientale, di cui ormai si possono contabilizzare i crescenti costi, anche economici; infine i flussi migratori dalle aree già più povere in partenza, e ora più colpite da crisi e cambiamenti climatici, verso quelle in partenza più ricche e tuttora più ricche nonostante gli arretramenti subiti. I sovranismi, quello americano compreso, recuperano l’armamentario ideologico dei nazionalismi come argine alla globalizzazione, che è vista, non senza ragione, come causa prima dei mali già accennati: disoccupazione e immigrazione (inquinamento e riscaldamento globale minimizzati o negati). Sono perciò protezionisti, ostacolano il libero mercato suscitando guerre commerciali e, quindi, non possono che essere visti con preoccupazione dai grandi capitalisti ormai globali.
La tigre cinese mostra di voler tornare ad essere la manifattura del mondo che fu prima della conquista dell’America e della rivoluzione industriale che da quella trasse le risorse per realizzarsi. Ha saputo disgiungere capitalismo e democrazia, ritenuti in occidente indissolubilmente connessi, grazie al mantenimento del primato della politica sull’economia, lasciata libera di espandersi ma entro binari stabiliti (d’altra parte l’impero cinese è durato più di mille anni, qualcosa nella gestione del potere ha evidentemente lasciato). È quindi una minaccia più che concreta per la supremazia occidentale. A titolo di esempio, un effetto con ripercussioni sull’ambiente dello scontro con la Cina inaugurato dall’amministrazione Trump è stato il rifiuto di quest’ultima di importare dagli Usa, ma a cascata anche dagli altri paesi occidentali, la plastica da riciclare, con la conseguenza che non si sa più dove metterla (vedi qui
27 marzo 2019 )
Di fronte a un nemico, per combattere bisogna ricompattare le fila. Come, se anche in casa propria spira un vento contrario? Disinnescando i sovranismi, rimuovendo od attenuando le cause che ne hanno dettato il favore presso gli elettori. Ecco, allora, che le corporation capiscono che se vogliono generare valore o crescita “nel lungo temine” (long-term”, l’espressione ricorre tre volte nel testo della “Tavola Rotonda degli Affari”, due volte in rapporto al valore e una alla crescita) non possono più ignorare tutti i portatori di interesse con cui sono in relazione (dipendenti, clienti, fornitori, territorio, ambiente, …). Si tratta di un’assunzione su larga scala della cosiddetta CSR (“Corporate Social Responsability”, responsabilità sociale di impresa) che, a mio avviso, non può essere finta. Non si tratta, infatti, solo di blandire il consumatore “critico” con un po’ di immagine per tacitarne la coscienza e spingerlo a comprare lo stesso, ma di cambiare le condizioni reali di lavoro e di vita delle persone per far diminuire il loro consenso ai sovranismi, che dividono là dove serve unità. Inoltre, sullo sfondo c’è il tema del riscaldamento globale, col quale le multinazionali sanno che devono fare i conti (economici) molto più di certi politici soprattutto del fronte sovranista: colpisce vedere tra i firmatari, ad esempio, Exxon, BP ed altri colossi dell’energia da combustibili fossili.
Certo un manifesto è solo un pezzo di carta, bisognerà vedere come sarà attuato. Al tempo stesso, però, è un impegno preso pubblicamente, quindi disattenderlo sarebbe un autogol. Ecco perché sono propenso a credere che non sarà una finta, anche se non ci si possono attendere cambiamenti repentini. È di questi giorni la notizia che la Johnson & Johnson, tra i firmatari della “dichiarazione”, è stata condannata da un tribunale dell’Oklahoma a pagare 572 milioni di dollari perché riconosciuta responsabile con le sue pratiche di marketing di avere alimentato la crisi degli oppiacei che negli Usa ha raggiunto livelli epidemici (vedi qui) Un comportamento, anche se riferito al passato, in palese antitesi con la “dichiarazione”.
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