Il pensiero della decrescita, quello dei commons e il pensiero ecofemminista – come raccontano in due importanti interviste, pubblicate da Comune, Massimo De Angelis e Serge Latouche – hanno cominciato a immaginare e a creare mondi nuovi. Secondo Paolo Cacciari, gruppi e comunità in tutto il mondo sperimentano già pratiche concrete “inevitabilmente esposte alle perturbazioni dell’economia di mercato”. Molto spesso si tratta di “pratiche promiscue, ibride, contraddittorie, per una parte interne ai processi di valorizzazione capitalistica e per un’altra prefiguratrici di altre modalità di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del patrimonio naturale comune…”. Un bagaglio enorme attraverso il quale dimostrano che, nonostante tutto, “possiamo anzi osare processi inversi”, qui e ora è possibile vivere in un altro modo
di Paolo Cacciari*
Propongo una lettura incrociata delle due importanti interviste con Serge Latouche (Capovolgere i modi di pensare e di fare) e Massimo De Angelis (L’arcipelago dei commons) che Comune ha recentemente pubblicato. Ambedue, poi, le confronterei con quanto dice Vandana Shiva nella intervista a Lionel Astruc, La Terra ha i suoi diritti. La mia lotta di donna per un mondo più giusto, pubblicato da Emi, 2016.
Il pensiero della decrescita e quello dei commons – secondo me – sono collegati e si integrano. Latouche fa discendere la proposta di una società della de/a/crescita dalla constatazione del fallimento suicida del progetto della “occidentalizzazione” del mondo: «l’universalizzazione dell’Uomo Economico». Proprio nell’era della massima pervasività dei rapporti sociali capitalistici (alcuni chiamano questa l’era del Capitalocene) appaiono evidenti i limiti di capacità di carico del pianeta. La crisi ecologica è l’effetto di ciò che Vandana Shiva chiama il “progetto maschile” di “morte della natura”. Scrive Latouche: «É ormai l’umanità stessa dell’uomo che è minacciata dai progetti di transumanesimo», dalla «cibernathropia (mescolanza di uomo e macchina)». Siamo prossimi all’«Apocalisse umanitaria» di cui scrive De Angelis. Ma emergono anche resistenze irriducibili dei popoli indigeni, dei contadini, delle popolazioni impoverite e di quanti non hanno smesso di usare il proprio cervello. I nostri autori non credono alla leggenda neocolonialista secondo cui le popolazioni dei “paesi sottosviluppati” desidererebbero imitare i modelli sociali ipercapitalistici. Nemmeno nelle aree geografiche più ricche sembra che prosperi la felicità, la joie de vivre, il “buen vivir”. Latouche, De Angelis ed anche Shiva vedono al fondo della crisi che viviamo una «perdita di senso della società della crescita» (Latouche); «Viviamo in un’abbondanza materiale, ma priva di senso» (Shiva); «La competizione economica […] è una corsa che ci ammala, di stress, di cuore, di cancro, di ansie e paure» (De Angelis).
Oltre la pedagogia delle catastrofi
La sfida, allora, è quella di come riuscire a non farsi annientare dalla Megamacchina (così bene descritta già da Lewis Manford in: Il mito della macchina, 1967) e che oggi appare nelle vesti della superpotenza delle imprese transnazionali, dei conglomerati industriali-finanziari. É qui che a me sembra che il pensiero dei commons (Massimo De Angelis, Omnia sunt communia, 2017) e quello ecofemminista (Vandana Shiva e Maria Mies, Ecofemminism, Zed Press, London 1993) possano integrarsi e dare gambe sociali alla critica al modello di sviluppo capitalistico e superare il rischio di un semplice attendismo palingenetico in cui incorre la “pedagogia delle catastrofi”.
I commons ci aiutano a delineare una idea di ordinamento sociale alternativo, liberato dal pensiero unico e dall’immaginario sviluppista, economicista, produttivista. Se superiamo le insidie di una traduzione dall’inglese che può generare equivoci (i “beni comuni” intesi solo come risorse, come common pool resources, giacimenti naturali, patrimoni preesistenti, bagagli di conoscenze e altro ancora) e pensiamo invece ai commons come un sistema di relazioni sociali di tipo cooperativo, capaci di auto-normarsi, allora possiamo immaginare forme comunitarie dove persone e cose si specificano e si integrano. Nei commons le esigenze umane sono connaturate con quelle ecosistemiche. Genius loci e genuis popoli sono inestricabili. Società insediata e ambiti territoriali si compenetrano. I commons sono una particolare forma di governace autonoma, di comunità auto-organizzate, alle diverse scale, capaci di relazionarsi tra loro, quindi, anche di federarsi. Come ha scritto John Holloway, i commons possono diventare quel «fattore agglutinante dei diversi soggetti attivi, una qualche forma di socialità, di “comunalità”, un qualche tipo di comunanza tra coloro che fanno, una qualche forma del mettere in comune» (John Holloway, !Comunicemos!, in Herramienta, tradotto e pubblicato con il titolo: Mettiamo in comune il 3 novembre 2013 su Comune). O come hanno scritto Geroge Caffentzis e Silvia Federici:: «Le iniziative di commoning sono qualche cosa di più di un semplice argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. Esse sono semi, forme embrionali di un modo alternativo di produzione in divenire» (Creare beni comuni e mondi nuovi, in Comune 2015). Ha scritto Raj Patel: «É il nesso che si instaura tra gli individui che definisce il bene comune. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e creano una communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise” (Raj Patel, 2007 Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelli, Milano).
Varchi e cunei, resistenze e diserzioni
È possibile allora immaginare pratiche non capitaliste, spazi di separatezza e di autonomia, attività attinenti alla sfera del lavoro concreto e del valore d’uso, comunità intenzionali e coerenti dimensioni culturali ed etiche che possono preparare e anticipare il cambiamento. Controtendenze contro-egemoniche, varchi e cunei, resistenze e diserzioni… comunque utili a formare una bagaglio di esperienze per non farci trovare impreparati al momento del cambiamento necessario, imposto agli eventi. In questo senso possiamo concepire il “comune come modo di produzione” (Toni Negri, Lavoro e proprietà a fronte del comune, intervento al seminario Disarticolare la proprietà. Beni comuni e le possibilità del diritto, 8 ottobre 2013. Pubblicato su: euronomade.info e ControLaCrisi.org), che va oltre le relazioni sociali capitalistiche. «Queste realtà ci sembrano spesso piccole e insignificanti rispetto alle mastodontiche e spesso deliranti costruzioni del lavoro asservito al capitale – dice De Angelis – Ma se si guarda attentamente la cosa, questo è solo un problema di diffusione e di scala […] è una questione che dipende dalle forze sociali» che si mobilitano e dal «rapporto che stabiliscono con il sistema stato e il sistema capitale». Insomma si tratta di una questione eminentemente politica.
Non stiamo valutando un modello teorico scritto a tavolino, ma una famiglia di pratiche concrete inevitabilmente esposte alle perturbazioni dell’economia di mercato. Molto spesso, quindi, le pratiche del commoning sono promiscue, ibride, contraddittorie; per una parte interne ai processi di valorizzazione capitalistica e per un’altra prefiguratrici di altre modalità di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del patrimonio naturale comune. Ma se le motivazioni etiche sono salde e gli obiettivi socio-economici sono chiari (rigenerazione della vita, solidarietà, accoglienza, giustizia, ridistribuzione) non ci dobbiamo preoccupare troppo del rischio della loro cattura e sussunzione dentro i meccanismi del mercato (competizione, profitto, accumulazione ecc.). Possiamo anzi osare processi inversi. Ad esempio Michel Bauwens e Vasilis Niaros (teorici dei sistemi di produzione paritarie e open sources) nella pubblicazione Value in the Commons Economy, co-edito da Heinrich Böll Foundation e P2P Foundation, formulano ipotesi sorprendenti. Piuttosto che discutere sul rischio di neutralizzazione dei valori creati dalle nuove modalità di produzione della commons economy chiediamoci, al contrario, cosa può accadere se i commons riuscissero ad essere la base di «una nuova economia che nasce all’interno del vecchio sistema». Si potrebbe allora «pensare ad una “cooptazione inversa” (reverse cooptation) del valore, dal vecchio sistema al nuovo. Può l’emergente economia commons-centrata, che crea valore in e attraverso i beni comuni, usare il capitale dal sistema capitalista o statale e aggiungerlo alla nuova logica?». Si possono, cioè, ipotizzare «all’interno dei confini dell’economia già esistente, flussi di valore più ampi sulla base di una nuova distribuzione di valore che riconosca i beni comuni e le sue distinte specie di creazione di valore?». Alcuni casi studio analizzati dagli autori dimostrano proprio le diverse interrelazioni possibili tra commons e mercato.
La pratica dei commons, il fare e il mettere in comune, la produzione di nuovi commons, l’emergere di un commons movement, ci dicono che qualcosa si può fare, oltre la denuncia e la critica, per dimostrare nel concreto che sarebbe possibile vivere in un altro modo, provocando meno sofferenze, insopportabili ingiustizie, precarietà non necessarie, violenza. Ed è qui che il pensiero ecofemminista di Shiva ci viene in aiuto mostrandoci una filosofia dell’azione politica. Shiva dice che non è possibile «motivare all’impegno incutendo terrore». Meglio «accendere nei cittadini la voglia di vivere le loro migliori potenzialità […] La militanza comincia nella mente, nel cuore e nelle mani di ognuno». E, ancora: «Io vedo un numero crescente di persone pronte al cambiamento. Quel che manca non è la quantità dei cittadini in movimento, ma la connessione tra loro».
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