Ma ve lo ricordate com’è cominciato tutto? Nella lontana Wuhan dilagava una strana epidemia, che naturalmente qui non sarebbe mai arrivata. Il solo problema era tenersi lontani dai “troppi” cinesi che vivono in questo paese. Poi il virus è arrivato ed è diventato il virus del terrore e, con il virus, sono arrivati il confinamento, la limitazione delle libertà più elementari, lo stato d’eccezione e un lungo, lunghissimo eccetera, che in Italia è appena dietro l’angolo. Forse. Provate adesso a immaginare che quel virus arrivi a colpire una popolazione che dispone di soli 40 (quaranta) respiratori polmonari, ma deve fronteggiare la rinascita dell’Isis e molti altri gruppi di assassini, però intanto viene bombardata dal secondo esercito della Nato, quello di Recep Tayyip Erdogan, che le impedisce perfino l’accesso all’acqua e ha invaso il suo territorio penetrando per 30 km lungo una frontiera di 700. Quella popolazione non riceve alcun aiuto, perché l’ONU e l’OMS hanno deciso di fornire assistenza medica al regime siriano e all’Iraq sapendo bene che l’Amministrazione Autonoma del Rojava non avrebbe ricevuto nulla. L’Europa, da parte sua, ha altro da fare: occupata com’è a trovare miliardi di euro perché Erdogan tenga chi fugge da quella e altre guerre lontano dalle sue frontiere. Quel popolo, 45 milioni di curdi, ha subito massacri spaventosi, viene perseguitato e incarcerato anche solo se parla la sua lingua, ma resiste. Resiste da quando, cento anni fa, le nazioni che comandavano il mondo lo hanno diviso e sparpagliato in quattro stati, ma anche da molto prima. Ha lottato per averne uno suo, di Stato, ma adesso non lo vuole più, perché in una parte del suo territorio ha saputo creare, soprattutto grazie al pensiero e alla fatica delle donne, un’esperienza impensabile di autogoverno, democrazia, educazione popolare, vita comunitaria e convivenza tra persone di origini, nazionalità e culture diverse che di uno Stato non ha bisogno e, anzi, ne resterebbe imprigionata. Conosciamo e vogliamo bene ad Alessia Dro da diversi anni, adesso è a Città del Messico, dove tesse per il Movimento delle donne del Kurdistan relazioni essenziali con le migliori esperienze dell’América Latina, perché, dice, la sola soluzione per il Kurdistan è la creazione di un mondo (intero) radicalmente democratico. Nella lunga, appassionata e preziosa intervista che ci ha inviato, rilasciata all’ottimo portale del Collettivo argentino La Tinta, racconta: “Una volta, nel Rojava, sotto i bombardamenti, un bambino di cinque anni, che aveva perso tutta la famiglia durante la guerra, mi ha chiesto: perché ci vogliono eliminare? Noi vogliamo solo vivere in pace, perché? Che cosa abbiamo fatto, di sbagliato, noi curdi?”
Se c’era qualcosa mancava, al popolo del Kurdistan, era una pandemia. Il coronavirus, che ha devastato il mondo per diversi mesi, non è rimasto fuori da quel territorio che, più di 100 anni fa, è stato diviso e ripartito in quattro stati: Turchia, Siria, Iran e Iraq. Il popolo curdo, composto da quasi 45 milioni di persone, ha ora una nuova sfida: superare il coronavirus, ma deve farlo in mezzo alle guerre, alle repressioni e alla costante lotta per difendere i propri diritti fondamentali.
In Turchia e in Iran, la pandemia non si ferma: i due paesi hanno insieme oltre 280 mila contagiati e più di 10 mila morti. In Siria e Iraq, i dati ufficiali sono meno impressionanti (70 contagi e quattro morti, nel primo; oltre 4 mila e 152 morti nel secondo). Ci sono, però, pericoli latenti: i territori siriani e iracheni hanno vissuto conflitti armati per anni, guerre interne e di diversa intensità, che hanno distrutto buona parte delle loro infrastrutture di base.
Il popolo curdo ha saputo superare i massacri, le persecuzioni, le invasioni militari e le politiche sistematiche di assimilazione o espulsione da parte dei governi centrali degli Stati in cui è diviso. In questi giorni si dibatte tra la cura di sé, che cerca di mettere in pratica in ogni modo, la corsa per reperire risorse sia dalle amministrazioni dei paesi locali che dalle organizzazioni internazionali, fino alla lotta per le strade, sia a livello militare che politico-sociale, la misura più efficace che hanno trovato finora per far sentire la sua voce.
Alessia Dro, che fa parte del Movimento delle donne del Kurdistan, spiega che la pandemia “ha esacerbato i problemi preesistenti in Kurdistan, ha reso più grave la situazione della crisi umanitaria internazionale in Siria e Iraq e, naturalmente, anche le conseguenze della guerra di occupazione contro il Rojava da parte della Turchia “. Intanto, cresce anche la censura applicata dal governo turco,”perché, all’inizio dell’esplosione del virus, i cittadini comuni sono stati arrestati solo per aver segnalato sui loro social media l’esistenza di casi non dichiarati di coronavirus “.
Com’è la situazione nel Kurdistan turco?
Nella parte del Kurdistan occupata dalla Turchia (il Bakur), la pandemia ha causato un aumento degli arresti e della repressione politica contro qualsiasi tipo di opposizione. Questo significa un marcato peggioramento del già molto grave sovraffollamento nelle carceri, con relativo aumento del rischio di contagio. In un paese ultra-nazionalista, devastato da una forte crisi economica, in cui miliardi di lire (la moneta turca, ndt) vengono investiti in attrezzature militari – con il grande aiuto dell’Unione Europea (UE) -, assistiamo a una costante oppressione contro le minoranze etniche, religiose e contro le comunità LGBTQI, colpite dal Covid-19. L’altra causa dell’oppressione, però, è bene ricordarlo, è la pandemia turco-islamista di omofobia e transfobia. Molte associazioni curde per i diritti umani da tempo tentano di organizzarsi in comuni autonomi, governati dal Partito popolare democratico (HDP), che incoraggiano l’attivismo politico con altri gruppi etnici e con le dissidenze sessuali, tuttavia, contro questi sforzi e contro qualsiasi dimostrazione del dissenso, lo stato turco aumenta sempre più la repressione. Il 17 maggio, nel mondo, si è celebrata la Giornata internazionale contro l’omofobia, non possiamo non ricordare che, invece, nel Kurdistan orientale, posto sotto i confini statali dell’Iran teocratico (Rojhelat), la pena di morte è stata usata spesso, perché l’omosessualità è vista come un crimine.
Qual è la situazione dei prigionieri nel Bakur?
I prigionieri e le prigioniere politiche vengono lasciati morire nelle carceri turche anche in periodo di pandemia. Centinaia di migliaia di prigionieri politici sono tenuti in pessime condizioni, le cure mediche sono del tutto inadeguate. Donne e bambini sono particolarmente vulnerabili e non sono protetti contro il rischio di contagio. Le disposizioni carcerarie, in risposta alla pandemia, non prevedono alcuna amnistia, eccetto il rilascio di membri del partito conservatore al potere, l’Akp (Justice and Development Party), di assassini e stupratori. Sarà bene, infine, ricordare che proprio nel Kurdistan occupato dalla Turchia c’è il maggior numero di giornalisti detenuti nel mondo.
Viene negata anche ogni libertà di espressione e artistica. Ibrahim Gökçek, il bassista dei Grup Yorum, un gruppo musicale della sinistra turca, ha combattuto, attraverso lo sciopero della fame, contro la censura fino alla morte. In una delle sue ultime lettere diceva che gli era rimasto solo il corpo per protestare. Eppure, neanche la morte fisica di Ibrahim era stata abbastanza per il regime di Recep Tayyip Erdogan. La polizia turca ha sequestrato il corpo durante il funerale. I partecipanti sono stati brutalmente repressi dalla polizia e il padre fermato.
Le politiche dello stato turco contro le donne continuano, dunque, anche con la pandemia?
La sovrappopolazione delle carceri turche mostra soprattutto il sistema totalitario di dominio eteropatriarcale e il più brutale sfruttamento razziale delle donne. Le donne, per lo più curde, che difendono i diritti umani fondamentali, quelle che hanno denunciato la guerra neo-ottomana e imperialista in Siria e il regime dittatoriale in Turchia, vengono arrestate e sottoposte a torture.
Non si può comprendere ciò che sta accadendo oggi in Turchia senza impegnarsi nel grido del femminismo di tutto il mondo. Quel grido dice che ovunque, per sovvertire i meccanismi oppressivi, dobbiamo tener conto del funzionamento degli stati-nazione che impongono la guerra. Si può rispondere all’imperialismo solo se lo analizziamo nella sua unica rete di dominio su genere, sessualità e razza. Più analizziamo come funziona il sistema di pensiero del capitalismo, ben al di là del semplice riduzionismo economico, più cadrà la maschera del sistema statale.
Bisogna guardare allo Stato non solo come istituzione ma per la mentalità che impone, come monopolio del pensiero, per capire il ruolo del patriarcato nella sua istituzionalizzazione. Quando osserviamo la famiglia nucleare, ad esempio, è facile vedere che si basa sullo Stato e viceversa. C’è un legame fondamentale tra la famiglia eteropatriarcale oppressiva e lo Stato, il capitalismo e i suoi effetti devastanti sull’ambiente, sulle comunità e sulle donne.
La pandemia del coronavirus rivela come funzionano gli stati-nazione?
La Turchia è il caso più emblematico, ma penso anche alla repressione che c’è stata a Cochabamba durante il colpo di stato in Bolivia. Penso a come le truppe degli Stati Uniti, ritirate dal Rojava, siano ora impiegate in Venezuela. Oppure alla militarizzazione dei territori mapuche in Argentina e Cile, al Brasile di Jair Bolsonaro, alle proteste contro i tagli imposti dal Fondo Monetario Internazionale in Ecuador e, infine, alle comunità indigene sotto assedio in Guatemala. In Messico, invece, il governo sfrutta la mancanza di attenzione dovuta alla pandemia per portare a termine la devastazione di comunità millenarie e di interi ecosistemi ambientali con il mega-progetto transnazionale del Tren Maya.
Penso sia importante sottolineare che i problemi preesistenti al Covid-19, come quelli che oggi affliggono il popolo curdo, sono tutti a livello internazionale: crisi umanitaria, guerra, censura, arresti di massa. La pandemia in Sud e Centro America, e nel mondo, ha la stessa origine nel sistema di accumulazione del capitalismo patriarcale ed estrattivista dello stato-nazione.
Tutto questo si esprime nell’attacco coloniale contro la memoria storica e l’esistenza stessa delle più antiche comunità, le quali, d’altra parte, hanno sempre sviluppato una risposta alternativa alle guerre unilaterali degli stati attraverso meccanismi comunitari per proteggere il pianeta, la vita e la natura. Lo fanno partendo dalla solidarietà intergenerazionale e creando metodi politici e di cura della comunità stessa, concretamente, con una dimensione etica diversa da quella coloniale. Si crea un costante legame ecologico con l’ambiente, un’alternativa alla modernità capitalista.
È molto importante, nel mezzo di questa pandemia e al di là dell’ossessione per le statistiche – vere e false – dei principali governi, imparare dalla resistenza e dai metodi di autogoverno dal basso messi in atto dai popoli del Kurdistan, così come da quelli del Sud e Centro America.
In che modo la Turchia usa la pandemia per raddoppiare i suoi attacchi ai curdi?
Sfrutta la distrazione dei media, tutta concentrata sull’emergenza Covid-19, per condurre una brutale guerra contro la Siria nord orientale e far avanzare il suo piano genocida per l’espansione neo-ottomana. Vorrebbe annettere, nel 2021, data di scadenza dei trattati di Losanna, anche l’Iraq e la Siria ai suoi confini attraverso diversi strumenti: l’occupazione militare, l’assimilazione e il trasferimento demografico delle popolazioni. Per quel che riguarda gli originari abitanti curdi, la sostituzione prevede l’insediamento delle famiglie degli ex miliziani dell’ISIS. Poi ci sono i servizi segreti turchi, che attualmente stanno lavorando al trasferimento di popolazioni intere fino al Rojava dall’Asia centrale (Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Azerbaigian e Afghanistan).
Il Rojava è la regione più colpita da questa politica?
Per la Turchia, e per tutte le altre potenze mondiali, il Rojava è un’area strategica non solo per il petrolio, che è diventato meno attraente a causa del picco storico dei costi e della crisi energetica mondiale, ma perché è una porta essenziale per il commercio tra l’Oriente e l’Occidente. Il conflitto in atto in Siria, nel Rojava, non è una guerra civile, è una guerra per il potere globale. L’occupazione illegittima della Turchia nel Rojava, al confine con la Siria (la linea di frontiera è lunga oltre 700 chilometri), inizia nel 2018 con l’invasione della città curda di Afrin e, in precedenza, con il completamento della costruzione di una delle cinte murarie più lunghe del mondo che separa Turchia e Siria. Intere popolazioni e famiglie sono state divise da una barriera di cemento prima dell’operazione di attacco della Turchia contro Afrin, paradossalmente chiamata “Fonte della Pace”. Come sta accadendo oggi in modo sempre più allarmante tra Palestina e Israele, anche tra Turchia e Siria chiunque tenti di attraversare il confine e il muro viene ucciso, anche se lo fa per sfuggire agli attacchi e fuggire dalla guerra.
Nel Rojava come si continua a sviluppare la lotta contro i gruppi terroristici?
Lo stato turco adesso occupa un’area di 30 chilometri a nord e ad est della Siria. I territori occupati sono collegati all’amministrazione turca da governatori provinciali imposti e sono controllati da milizie, tutte finanziate e agli ordini della Turchia: l’ISIS, l’ex Fronte di Al Nusra, ma ci sono anche milizie jihadiste, come Ahrar Al Sham o Faylaq Al Sham. Tra queste bande armate di mercenari, c’è un conflitto regolare nel territorio. Esiste un clima di terrore tra le popolazioni sotto il loro controllo. I rapimenti, la prostituzione, la tortura e le esecuzioni extra-giudiziali sono all’ordine del giorno. Queste condizioni significano che sempre più abitanti nativi devono lasciare la regione. Coloni fedeli all’ISIS vengono sistemati al loro posto.
Bisogna anche sapere che la Turchia interrompe l’approvvigionamento idrico del Rojava, lasciando 1,5 milioni di persone senza acqua nel corso di una pandemia. Intanto, attacca i campi profughi curdi in Iraq, come quello di Maxmur, e attacca in Rojava con bombardamenti aerei vicino ai campi in cui risiedono gli ex militanti dell’ISIS per consentire loro di fuggire e riorganizzarsi invece di restare in attesa di un processo da parte di un tribunale internazionale, organizzato e promosso dall’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale (AANES). La maggior parte dei miliziani jihadisti – molti dei quali hanno passaporto italiano, turco, tedesco e francese – riescono così a fuggire in Turchia. E pensare che la Turchia ha ricevuto 6 miliardi di euro dall’Unione europea per controllare i flussi migratori… È davvero essenziale capire che ISIS e Turchia hanno lo stesso volto, soprattutto pensando che anche l’Italia continua ad avere accordi commerciali, anche di vendita delle armi con la Turchia. Ora la Turchia sta bombardando il Rojava e l’Iraq, esattamente nei luoghi in cui l’ISIS, precedentemente sconfitto dalle Unità di protezione popolare e delle donne (YPG / YPJ), non è riuscito a ottenere il controllo. Insomma, se l’ISIS non riesce a portare a termine i suoi piani, la Turchia interviene per aiutarlo.
E adesso sta espandendo i suoi piani di guerra in Libia.
Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, il ruolo della Turchia è disastroso, per la sua visione di eugenetica hitleriana, neo-ottomana, e per le guerre mondiali che sta scatenando o sostenendo, come nel caso della Libia. Ha sostenuto e continua a finanziare le milizie jihadiste in Libia, e in altre parti dell’Africa, come in Somalia. Eppure nessuno in Europa o nel mondo si pronuncia rispetto a questo. Anzi, la Germania ha spinto l’Europa a stringere accordi con Erdogan perché non facesse raggiungere tre milioni e mezzo di rifugiati in area Schengen. Non ha di certo protestato perché utilizza milizie jihadiste in Libia e in Siria contro Damasco e il popolo curdo.
Dopo la caduta di Muammar Al Gheddafi, la Turchia ha ritirato le milizie jihadiste anti-Rais per inviarle a combattere contro Bashar Al Assad in Siria. Molti di questi miliziani erano libici, altri di nazionalità diverse del mondo arabo-musulmano. E nessuno ha detto nulla, perché allora gli Stati Uniti di Barack Obama e Hillary Clinton erano d’accordo. Ora, dal Rojava occupato, Erdogan guida e prepara i jihadisti dalla Siria, attraverso la Turchia, per inviarli in Libia, dove servono a sostenere lo sforzo bellico turco e il governo di Fayez Al Sarraj, che è riconosciuto a livello internazionale dalle Nazioni Unite. Nessuno degli Stati nel mondo, e tantomeno l’Onu, denuncia il governo di Sarraj perché utilizza jihadisti pagati da Erdogan.
Secondo le statistiche dell’Osservatorio siriano per i diritti umani (SOHR), il numero di reclute arrivate finora in Libia è di circa 8.250 mercenari, inclusi mercenari non siriani, mentre altri 3.300 sono arrivati in Turchia per addestrarsi. Nel riferire sul trasferimento dei mercenari siriani nel territorio libico, il SOHR ha affermato che, nei giorni scorsi, la Turchia ha esercitato pressioni nel territorio del Rojava, sui comandanti delle fazioni dell ‘”Esercito Nazionale” (un nuovo gruppo militare creato proprio dalla Turchia in Siria e formato da jihadisti) per costringere i combattenti sotto il suo comando ad unirsi ai combattimenti in Libia. Sappiamo di bambini-soldato arabi indottrinati al jihadismo dalla Turchia e arruolati brutalmente nelle aree del Rojava che la Turchia ha occupato, per essere mandati a far la guerra in Libia.
Non bisogna dimenticare, inoltre, l’entità tremenda degli attacchi della Turchia contro il popolo curdo, non solo nell’invasione contro il Rojava e nel sostegno alla guerra in Libia, ma anche nel suo sistema coloniale interno e genocida contro ogni minoranza. È importante ricordare che, soprattutto nel Bakur, ai confini turchi, dall’agosto 2015 al 2016, il governo turco ha mantenuto una forte offensiva militare in risposta alla dichiarazione di autonomia proclamata da decine di municipalità, ottenute democraticamente dal movimento filo-curdo dell’HDP. Centinaia di civili hanno resistito all’esercito, organizzando l’autodifesa delle città, migliaia di loro hanno perso la vita durante il coprifuoco a Nusayibin, Cizre, Silopi, Sirnak. È stata un’enorme resistenza, di fronte ad un’implacabile politica di restrizione delle libertà in tutte quelle città. Tutto è avvenuto nel silenzio internazionale.
Il popolo curdo ha una storia di resistenza senza soluzione di continuità, il coprifuoco non è certo arrivato adesso con la pandemia. È piuttosto una condizione di vita semi-permanente. Non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di un popolo millenario, che è organizzato oltre lo Stato, con una società in cui il ruolo delle donne è decisivo.
Dall’interno del movimento delle donne del Kurdistan, come leggi questa situazione?
Una memoria, anche traumatica, può sempre essere agente della trasformazione sociale e del movimento. Le donne curde pongono questa dinamica di liberazione alla base della loro azione, al di fuori dei confini imposti dagli stati nazionali. Lo fanno per costruire un’alternativa di autogestione allo status quo, anche nella diaspora. Provate a immaginare cosa significhi combattere la guerra patriarcale e transnazionale durante questa pandemia, per le donne curde organizzate nella diaspora, in città e paesi in Europa. Loro hanno costruito reti di supporto contro la violenza domestica mentre raccoglievano fondi per il Rojava, e non solo con campagne contro la violenza e la guerra patriarcale, ma mettendo al centro della riflessione anche cosa significa oggi ripensare la liberazione delle donne. Non solo come effetto positivo della rivoluzione, ma come suo centro e anima. Le donne ne determinano la condizione di esistenza e il metodo, sfidando i presupposti ideologici dell’individualismo attraverso un costante lavoro di comunitàe con partecipazione politica basata sull’autonomia.
In Rojava, specialmente le comunità curde e circasse, e poi quelle cecene, caldee, armene, nonostante la guerra e la quarantena, stanno dando la priorità a ripensare l’educazione popolare, al sistema sanitario comunitario e alla promozione della formazione di cliniche locali. Alina Sánchez, internazionalista argentina deceduta nel 2018, aveva prestato particolare attenzione a garantire che il sistema sanitario del Rojava fosse basato su quello di Cuba. Anche per questo motivo, oggi, in Rojava, del tutto al di fuori di un sistema statale e di un sistema sanitario centralizzato, troviamo una clinica e una scuola medica per ogni villaggio e piccola comunità. E alla base dell’autorganizzazione, la prevenzione sociale ha luogo soprattutto attraverso l’organizzazione confederale delle donne, che dà forza all’idea di un’economia femminista di autoproduzione basata sulla riproduzione sociale, cooperativa e non capitalista. Si sono autodichiarate in quarantena lì per riflettere su cosa significhi, al di fuori del regime di sfruttamento della natura, della medicalizzazione farmaceutica industriale, del regime eterosessuale e razziale, pensare alla salute, all’autodifesa e all’ecologia per una società libera.
Perché viene negato l’aiuto internazionale ai popoli della Siria settentrionale?
L’ONU e l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) hanno fornito assistenza medica al regime siriano e all’Iraq. Sapevano che questo non consentiva minimamente l’arrivo di aiuti umanitari all’amministrazione autonoma del Rojava. C’è una richiesta del Segretario Generale delle Nazioni Unite per una dichiarazione di cessate il fuoco in Siria, ma lo stato turco continua, senza alcuna opposizione delle Nazioni Unite, a bombardare la Siria nord-orientale. È in questa situazione di guerra, che oggi, nel Rojava, avanza la minaccia di pandemia. Ad oggi, le cliniche sono state preparate con l’autocostruzione di materiali (letti, disinfettanti), ma tecnicamente le risorse, in caso di contagio, non sono sufficienti. A causa dell’embargo a cui è sottoposto Rojava, ci sono solo 40 respiratori nella regione. Ad oggi, ci sono pochi casi di Covid-19 in Siria, ma se esplodessero, solo 40 persone in gravi condizioni potrebbero ricevere un trattamento di terapia intensiva.
Negli ultimi tavoli dei dialoghi di Ginevra, è stata discussa la situazione sanitaria del Covid-19 in Medio Oriente. Rappresentanti direttamente collegati al regime siriano, e indirettamente con le fazioni jihadiste, sono stati invitati a partecipare alla discussione, ma nessuna delegazione AANES ha potuto partecipare. Sebbene quella del Rojava sia l’unica entità politica che lotta per realizzare la pace tra tutte le identità politiche regionali, l’auto-organizzazione comunitaria, ecologica e pacifica di popoli diversi, nella loro prospettiva di confederalismo democratico. L’AANES è un’alternativa interculturale di organizzazione sociale fuori dal dominio della mentalità patriarcale, si basa sulla democrazia diretta e pone la difesa del pianeta come suo asse principale, rappresentando una via democratica e praticabile per risolvere il conflitto generato nel Medio Oriente e per una uscita dalla guerra di potere globale.
A Rojava, una volta, sotto i bombardamenti, un bambino di cinque anni, che aveva perso tutti i suoi famigliari durante la guerra, mi ha chiesto: “Perché ci vogliono eliminare? Noi vogliamo solo vivere in pace, perché? Che cosa abbiamo fatto di sbagliato come curdi?”. La realtà è che gli stati del mondo preferiscono mantenere in vita e controllare il ruolo strategico della Turchia, un paese dittatoriale e fondamentalista, mettendo i loro interessi estrattivi prima della pace, della conservazione della vita, della natura e dei popoli. Questo implica l’eliminazione di comunità storiche che non sono basate sul principio del massimo profitto e che, quindi, non sono comode per il loro sistema capitalistico e patriarcale di potere statale.
Sono possibili nuovi colloqui di pace tra il movimento curdo e lo stato turco?
In questo conflitto mondiale è fondamentale l’importanza di riprendere il dialogo per la pace, anche consentendo finalmente visite al filosofo e leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Öcalan, che è prigioniero politico in un regime di isolamento disumano da moltissimi anni nell’isola-prigione turca di Imrali. Nella successione dei processi di pace, dagli anni ‘90 ai 2000, il governo turco ha avuto sempre la responsabilità di far saltare gli accordi. Abbiamo sempre visto, durante questi processi, alternati alla guerra e alla pace tra la Turchia e il Movimento di liberazione del Kurdistan, che, con l’aumentare dell’isolamento di Öcalan, aumentavano anche gli attacchi della Turchia. È essenziale che le Nazioni Unite, il Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) e altre organizzazioni simili esercitino pressioni politiche e diplomatiche sulla Turchia e chiedano il rilascio immediato di Öcalan, riconoscendone il ruolo chiave per la pace in Medio Oriente.
Nello stesso tempo, però, è essenziale decifrare e rimuovere la maschera del grande gioco neoliberista che l’egemonia capitalista globale cerca di imporre a tutti i popoli del mondo, principalmente a quelli del Medio Oriente. È un gioco che non si adatta a nessuna norma etica dell’umanità. La prigionia di Öcalan lo dimostra principalmente e, in secondo luogo, dimostra che l’apparato di pensiero occidentale per la pace oggi ha fallito. La sua imposizione filosofica eurocentrica, legata alla legge degli stati e non all’etica dei popoli e delle società, crea le basi per tutta la violenza materiale ed epistemica.
Con un tale panorama in Medio Oriente, e in particolare in Kurdistan, è ancora possibile la speranza?
Contro il sistema di civiltà egemonica patriarcale ed eurocentrica, ci dà una grande forza e speranza sapere che, in tutto il mondo, in Rojava come in Sudmerica, oggi le donne combattono, denunciando il colonialismo di Stato, parlando di plurinazionalità e di dissenso. Sulla base delle condizioni di coloro che vivono la guerra, la militarizzazione e l’espropriazione forzata, stanno dando, come mai prima d’ora, una risposta a una struttura statale patriarcale universalizzante quanto escludente. Lo fanno organizzandosi e sono unite al di là delle frontiere in modo transnazionale.
In questo periodo di pandemia, è essenziale non essere guidati solo dai numeri e dalle statistiche fornite dai governi, dall’alto. Dobbiamo pensare insieme, dal basso, alle soluzioni comuni che possiamo trovare, organizzandoci, tessendo reti per decidere in comune che tipo di valori umani e non-umani, per il pianeta, siano sostenibili.
L’ossessione per una soluzione statalista e nazionalista, come se si trattasse di un principio inalienabile, è un altro fattore fondamentale che approfondisce la mancanza di soluzioni. D’altra parte, l’autonomia, che ha avuto abbondanti esempi di applicazione nella storia del Medio Oriente, ad esempio con i Seleucidi e gli Ottomani, e nelle storiche pratiche democratiche federaliste, offre esempi di soluzioni molto ricche per la questione curda e per gli altri popoli.
In Medio Oriente, le autonomie possono risolvere vari conflitti latenti?
Per raggiungere una soluzione, è di vitale importanza che i termini dell’autonomia democratica siano profondamente compresi, dando a tutti gli esseri viventi la possibilità di esprimersi nella forma della libertà. Se, nel ventunesimo secolo, in tutto il mondo, non ci districhiamo dalla mentalità statalista e continuiamo a vivere senza mettere in scena politiche radicalmente democratiche, anche il solo problema curdo sarà sufficiente a mantenere il Medio Oriente come area di interesse dei poteri egemonici tradizionali.
Il ruolo chiave, nello sviluppo della democrazia in Medio Oriente, è profondamente collegato all’esperienza di una soluzione democratica e autonoma, sia in Kurdistan che in altre parti del mondo. L’unione storica che il popolo curdo condivide nel suo contesto geografico e con le nazioni turche, arabe e persiane, che sono le nazioni vicine della regione, la condivide anche con l’esistenza degli armeni, degli assiri e dei turkmeni, che sono elementi più interni della regione. Ciò consente alla soluzione democratica in Kurdistan di diffondersi a tutte le identità nella loro diversità, attraverso un effetto-domino libertario. La soluzione per un Kurdistan democratico è una soluzione legata a quella di un Medio Oriente e di un mondo radicalmente democratico.
Leandro Albani ha realizzato questa intervista per il portale La Tinta, collabora inoltre con la Rivista Sudestada e il Settimanale Brecha (Uruguay), è autore dei libri “Mujeres de Kurdistàn, la revolucion de las hijas del sol” e “Revolucion en Kurdistan, la otra guerra contra el Estado Islamico”.
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